Un esercizio
di virtuosismo impressionate. Un’arbasineide più concreta, il racconto
“sull’unghia”, da social scientist – dieci anni fa sulla “mucca
pazza”. Per di più opera di una tarda italianizzata: Helena Janeczek, dice la
biografia, nata a Monaco di Baviera da genitori ebrei polacchi, e venuta a
vivere in Italia all’età di diciotto anni, ha esordito in tedesco. La raccolta
di poesie “Ins Freie” è del 1989, editore il super Suhrkamp. Di soli otto anni
dopo è il romanzo italiano “Lezioni di tenebra”, premio Bagutta. Più che della
mucca pazza, questo è un racconto della lingua, un suo trionfo.
Il fatto c’è,
e anche semplice benché drammatico: “Buona parte dei morti accertati a causa
del morbo della mucca pazza (sono) abitanti del Nord (inglese) depresso e della
Scozia rurale, gente alimentata a basso costo e in modo sbrigativo con i
prodotti ricavati dalla carne riprocessata, avanzi ricavati dalle carcasse
scarnificate con potenti getti d’acqua che li contaminano con gli schizzi di
midollo dorsale”. Non senza malizia, la triforcuta Helena sa bene che la mucca
pazza è stata succeduta dalla peste aviaria, suina, etc. . Oppure ancora no
quando lei ne scriveva, ma sa che ci sono le mafie – si sa come vanno queste
cose tra monopoli, che si bastonano senza colpa, facendo aggio sulla credulità.
E non senza senso pratico, da viziosa del wiener
Schnitzel, la cotoletta.
Anche la
storia esemplare che utilizza a traccia della dannazione, di Clare Tompkins, una
ragazza che muore a ventiquattro anni dopo sofferenze infami, benché fosse
vegetariana dall’età di undici, è semplice. È una storia di ordinaria
incapacità medica, che non sa diagnosticare il morbo di cui parla in
continuazione. Janeczek ne fa l’allucinazione di un’allucinazione – una
moltiplicazione della lingua.
Helena
Janeczek, Bloody cow, il Saggiatore, pp. 58 € 10
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