“Notoriamente, quasi proverbialmente,
Zanzotto è il poeta del paesaggio”, non si non convenire con Matteo Giancotti,
che cura questa raccolta di diciotto prose disperse. Heideggeriano, anche
questo è vero, uno cioè che fa “vero luogo” del poeta lo sradicamento. Mentre
è, personalmente, radicatissimo, il paesaggio è esclusivamente il suo
paesaggio, cui ogni altro sempre rinvia. “Orizzonte psichico”, lo vuole
Zanzotto, entro cui ognuno si forma e si riconosce. Con esiti alterni.
La raccolta è diseguale, di prose
d’occasione, minori, di vario genere. Una utilmente autobiografica, “La memoria
della lingua”. Le altre compiaciute, da autore esimio. Quelle di Vienna
per esempio, o degli outcast con cui il poeta dall’alto si
identifica, Cecchinel e Nino compresi, i suoi due eponimi – dirsi outcast è già non esserlo. Poco rimane di Nino in questo ritorno,
il gigante buono in tutto e a tutto, “coma da biglietto da visita”. E avrebbe
potuto essere meglio: la festa di Nino e Freya Stark novantenni a Asolo, per
esempio.
Le prime tre prose, veri e propri saggi,
“Una certa idea del paesaggio”, di impianto heideggeriano, sono dense e in
qualche modo significanti. Un apprezzabilissimo tentativo di filosofia del
paesaggio. Il resto degrada al lamento delle “povere cose agresti”, contro
l’urbanizzazione selvaggia – l’urbanizzazione è selvaggia. Alla deprecazione
degli scempi del boom e del post-boom, in anticipo sull’ecologismo ma già sulla
linea frequentatissima Cederna-“L’Espresso” – è da sessant’anni che l’Italia è morta, sfregiata,
sfigurata, almeno da sessanta. Per l’insanabile misoneismo di cui si para il
poeta contemporaneo, Zanzotto come Pasolini – anche se è difficile pensarlo
afflitto, mentre fa due e tre sacchetti di spazzatura ogni girono. Salvo
plaudire ai mulini Stucky a Venezia, che da “gigantesca gaffe
economico-architettonica” sono trasposti dalla patina del tempo
(dall’abitudine) a buffo “allucinatorio diverticolo”, che porta a “mondi
paralleli”. Oppure – Zanzotto se ne compiace - alla nostalgia del “vecchio
mondo veneto mitizzatosi come quiete rosea e un po’ tabaccosa”. Mentre la
povertà del Cadore, poco fuori Cortina, prima del boom era inimmaginabile –
uomini e bestie, uomini-bestie. In un “vecchio mondo veneto”, peraltro, a metà
emigrato.
Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Bompiani, pp. 230 €11
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