venerdì 20 dicembre 2013

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (192)

Giuseppe Leuzzi

Per l’esordio a Milano alla guida del Pd, Renzi ha, tra le tante, questa battuta: “La Salerno-Reggio Calabria è costata all’Anas più della sonda Curiosity su Marte alla Nasa”. Così poco?

Cadono alcune teste della nuova mafia, l’antimafia. Ma sono di donne, calabresi. Sacrificate dalla vera antimafia. Quella che ci impone la mafia: la storicizza, socializza e illustra, quasi la sacralizza, benché fatta di brutti ceffi poco presentabili, anche alla vista.

Sempre più donne si arrestano capomafia. C’erano pure prima, ma la donna del Sud si voleva vecchia strega fuori dal mondo. Anche graficamente: vestita di nero, grinzosa. Se non altro il Sud ha questo di buono, che è una miniera da riscoprire. Alla porta di casa, senza bisogno di spedizioni esotiche. Magari di pietre, metalli pesanti, polveri, ma sempre riesce nuovo. Tanto è forte il pregiudizio.

Torinese, inviato del “Mondo”, il settimanale milanese di affari e finanza, Filippo Astone non ne può più. Ha scritto 400 pagine di corruzione, clientelismo e mala gestione, compresa la mala informazione, le ha intitolate “La disfatta del Nord”, poiché tutto si svolge al di sopra dell’Appennino tosco-emiliano, e le propone attraverso un primario editore, Longanesi. Silenzio totale: il Nord si assolve e non perdona.

Si può anche dire come Astone, già autore di un “Senza padrini”, sugli imprenditori del Sud che non pagano il pizzo,  lo dice nel blog di Beppe Grillo. “Le banche non erogano più credito alle aziende”, nonostante un prestito europeo di 50 miliardi. Le aziende devono “chiudere o finanziarsi dagli usurai”. La criminalità, forte di un circolante di almeno 100 miliardi, è pronta a qualsiasi richiesta. “Stiamo salvando le banche e consegnando le imprese alle mafie”. Nell’attesa, qual è la mafia usuraia?

Vittorio Pisani, già capo della Mobile di Napoli, è assolto dopo due anni di persecuzione. L’ultimo calabrese vittima di Napoli - troppo bello e gentiluomo per la città? E cacciatore di camorristi, che arrestava in serie.
Vittima della Procura di Napoli, che così ha bloccato gli arresti. Non è da tutti venire e capo della città.

Resurrezione
Livia, la moglie di Augusto, al testimone che vide l’imperatore morto risorgere e ascendere in cielo, risolvendo prima che cominciasse il processo di beatificazione, diede un grosso vitalizio. Così è dei pentiti: più e più a lungo denunciano, anche a vent’anni dai fatti, più sono pagati e protetti. Si può dire la loro un’autodivinazione, per legge, senza bisogno di un Senato per essere riconosciuti (beatificati). E una resurrezione ripetuta, costante.

L’acqua è dell’Aspromonte
L’acqua torna in auge da qualche anno, e anzi è imposta (“beva due litri di acqua al giorno”, che nessun medico beve), dopo essere stata a lungo proibita. Era pedagogia nordica, ma ferma nelle famiglie, una delle poche forme non contestate, che l’acqua faceva male. Rousseau aveva insegnato nell’“Emilio” che bisogna imparare a tollerare fame e sete, e l’ammonimento era preso sul serio dai padri, allora addetti nella famiglia alla disciplina. E dai medici: i pediatri sconsigliavano e anzi proibivano l’acqua, come superflua e anzi nociva. A lungo, fino a recente, un italiano ha dovuto soffrire in Inghilterra, Germania e Francia per la mancanza dell’acqua a tavola – in Inghilterra anche del pane. Da richiedere ogni volta con lunghe spiegazioni. L’acqua che era col pane, in montagna e anche in campagna, il solo alimento, questo forse un po’ condito, col companatico. L’Aspromonte non ne ha mai perso il culto, in grazia forse delle tante sorgenti.
“L’acqua buona, da bere, è lassù, sull’Aspromonte”. Massimo Alvaro così ricordava il padre Corrado nel n. 22 del periodico “Calabria”. Col culto dell’acqua: “Mi basta ripensare a quanto tenesse all’acqua da bere; doveva essere pura, limpida, leggera”. Al figlio raccontava che “dai paesi, la gente va a prenderla alle fonti, alle sorgenti”. È vero, succede anche ora. In qualsiasi stagione. Ognuno ha la sua sorgente preferita – che spesso però cambia. Che sa di castagno, di “roccia viva”, di faggio, di muschio…. E spende tempo, fatica, e ora benzina per riempirsene tanniche, damigiane, bottiglie.
“L’acqua pura e limpida”, ripete Massimo Alvaro del padre: “Quando si faceva qualche gita, mio padre s’informava dell’acqua, chiedeva da dove veniva, l’assaggiava con raccoglimento dopo averla guardata attraverso il bicchiere come se fosse un vino d’annata pregiata”. Andava volentieri al mare all’Argentario, opina il figlio, per “una certa acqua che vi si beveva - veniva dall’Amiata con l’acquedotto del Fiora e la portava un contadino”, nella damigiana sopra una carriola, anni 1930. Ancora in guerra, nella seconda, il ricordo di Corrado Alvaro era alle trincee della prima guerra, al bisogno di acqua: “Mi raccontava come i calabresi sentissero particolarmente nella vita di trincea la mancanza dell’acqua, e le loro invocazioni, quando, feriti, chiedevano da bere, erano fatte a mezza voce, con tono di preghiera, quasi a chiedere il più grande dei beni”.
Alla “complessa simbologia e «religione dell’acqua» tracciate da Corrado Alvaro” Vito Teti ha dedicato una relazione, alla giornata di studi alvariani del 30 ottobre 1986: “Memoria dell’acqua e acqua della memoria nelle opere di Corrado Alvaro”. Dell’acqua che in Aspromonte è distruttrice oltre che rigeneratrice. E più in generale come simbolo di vita: “L’acqua come segno di penuria, distruzione e fuga, ma anche come ricerca, cammino, nostalgia, memoria, salvezza per erranti sradicati esiliati, pellegrini, emigrati, inquieti che caratterizzano l’opera di Alvaro”. Ma è lo specchio della Calabria, della società calabrese, che Teti scopre nel riflesso dell’acqua.

Autobio
Abbiamo imposto al ginnasio dai salesiani negli anni 1950 alcune parole nuove nel vocabolario, che da Messina esportavamo nei viaggi culturali estivi nelle città del Nord. “Tamarro” la prima, “togo” la seconda. Avevamo anche “cugino”, per il “fratello” negro-americano, ma si è spento negli anni Sessanta. Adesso Bossi e suo figlio, insieme con i giornalisti del “Corriere della sera”, ci mettono in scuole di serie B e C: non possiamo competere con le loro scuole del Lombardo-Veneto. Poi dice che la storia va avanti: in alcuni posto no.
Per anni cantavamo “Alici kunz’at”. Per Kunst-Art, arte in tedesco e in inglese. Introdotto come urlo di segnale di un “palo” in un’operetta gialla di cui non ricordo il titolo. Derivato dall’“alici cunzati” delle  bagnarote, le donne di Bagnara, ambulanti del minuto commercio nelle aree interne, scalze, muffole di lana al polpaccio, sette gonne, pare, sovrammesse, con una larga cesta tonda in testa, ondulante sopra uno spesso cercine, con cui si facevano valli e monti fino agli anni 1960, quando  vendevano le alici sott’olio, di cui si faceva la provvista per l’inverno -  insieme col tonno sott’olio, che era normalmente un palamidino, o un’alalonga. Tonno e alici si compravano anche freschi, chi aveva l’automobile per andare fino al mare.

“A Bova la salamandra è chiamata «simamidi», dall’ebraico «semamit»”, spiega Franco Mosino, dotto e preciso, sull’ultimo numero di “Calabria Sconosciuta”, gennaio-giugno 2013. E dunque da dove veniamo, noi che ci professiamo colonia greca di Bova da qualche migliaio di anni? Anzi di Bova Marina, anch’essa a sua volta colonia greca, ma dove la lingua ebraica era sicuramente in uso, se non altro nei riti della locale sinagoga – recentemente riemersa in contrada San Pasquale. Si spiega che non sappiamo chi siamo e da dove veniamo. 

“U catoju” con le bestie in casa è uno dei ricordi ritornanti di Simonetta Agnello Hornby a Palermo. Il basso. No, le bestie non erano in casa (a meno che a Palermo lo fossero), ma sotto casa. Il catoju era un seminterrato  dove si tenevano pecore più spesso, o capre, una o due, oppure anche il porco, le galline, l’asino. Per l’uso domestico. Non senza igiene. Lo chiudeva una porteja, una porta alta e larga, per lasciar passare l’animale ingombrante, il mulo se del caso, l’asino, o la mucca. La portella era divisa in due, la metà di sopra potendo restare aperta quando l’animale era dentro.
Si tenevano le bestie sotto casa anche per sicurezza, contro l’abigeato. Ma relativa. La porteja si chiudeva col mandali, un fermo di legno che gira attorno a un chiodo, niente di più. E restava aperta nella parte superiore col bel tempo anche se la gente di casa era fuori.
Non si chiamava con un  nome greco, ma la stalla – non più per uso domestico – sotto casa era in usa anche nelle Alpi. La memoria estiva degli stessi anni 1950 è di posti remoti nelle Api, ma non tanto, Borca per esempio vicino a Cortina, dove la mucca occupava la stalla la notte, normalmente più d’una, segno di opulenza, o le pecore. Più numerose erano le bestie sotto casa, più alto il cumulo di concime naturale nell’aia, purtroppo non sempre sopravvento, più rispettabile era la casa. Solo la memoria è diversa. Nel Veneto è nostalgica, noi ce ne vergogniamo. Per l’igiene e per il complesso dell’igiene. Forse per questo non si costruisce niente. Non si costruisce senza o contro la memoria, non c’è fondamento. O sarà un destino rincorrere, perpetuamente. Ma che cosa? chi?

Siamo guardoni. Venendo da un mondo arretrato, il Sud. Dall’ultima regione del Sud arretrato. Dall’ultimo, più isolato, selvaggio posto dell’ultima regione del Sud. Nati liberi in un posto libero, nemici di ogni prepotenza. E sudditi.

Fuori, in Italia, soffochiamo. Non sappiamo nuotare, non sappiamo nemmeno stare a galla – e sì che la materia è densa, di verità e ipocrisie. Mentre viviamo bene fuori acqua, fuori d’Italia, senza carta d’identità, se non quella dei denti bianchi e la fronte alta. Personalmente sono a mio agio anche nel più remoto villaggio africano, sempre stato, come a New York. Dappertutto ci trovo fiori e frutta, e tanta aria da respirare, con radici, nella tecnologia e nella tradizione, nella perplessa lentezza dei tempi immemorabili e nella rapidità interminata. Dappertutto dove l’umanità è ancora senza riserve, non infetta dalla superbia degli essere inutili.

leuzzi@antiit.eu

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