L’idea è,
apparentemente, semplice: che ci troverebbe Gesù oggi, duemila e rotti anni dopo
la sua incarnazione, prodroma al sacrificio? Tutto il suo contrario. Che si
tratti di convivere col diverso, e con se stessi, o di fare la fila all’autobus
e dialogare al telefonino. Sullo sfondo, sempre, delle migliori intenzioni: l’Ultima
Cena, la pace, la guerra, la solidarietà, l’utopia. Il testo di Fabio Filosofi mescola
i registri, e domanda più che rispondere assertivo. Ma l’esito è scontato: non
c’è Cristo in questa tarda cristianità.
Un’idea
perfino troppo semplice, al punto da renderne difficile la drammaturgia. Gianni
Licata ci approda con la fisicità, lo slancio dei corpi. A volte in un
teatro-danza al limite della sarabanda, a volte col pantomimo. Che i colori netti
sottolineano. In un palcoscenico coinvolgente, diffuso tra gli spettatori. Le
parole si limitano a ritmare la minuta esemplificazione dell’ordinario quotidiano,
gli atti, gesti, riflessi, reazioni, lontani dall’etica cristiana e forse da
ogni etica, con cui scandiamo i nostri momenti. E anche questo contribuisce: un
mondo senza parole pieno di parole.
Fabio
Filosofi del Ferro-Gianni Licata, Trentatré,
teatro Lo Spazio, Roma
L’esito è
una sorta di esame di coscienza collettivo, pubblico. Degli attori con lo
stesso pubblico a teatro. Con l’effetto di rimettere in gioco, in questa epoca
sazia come mai prima nella storia, di pace e benessere, ogni concetto di
superiorità e sicurezza. Una sorta di denudamento delle radici non cristiane
del nostro cristianesimo. Si chiami esso Europa, Occidente, o anche solo il
tragico a teatro: l’epoca che Filosofi e Licata mettono in scena è dell’afasia,
stordita più che meravigliata, o pentita.
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