Non è “Ocean’s Eleven”, la sorpresa è all’inizio
e non alla fine – forse per questo “Repubblica” la relega in una breve, e il
“Corriere della sera” nella cronaca locale. Ma è pur sempre una storia
inattesa: come la giustizia protegge i camorristi a Napoli. Processando quello
che si era specializzato nella caccia ai capi camorristi.
Non una grande trovata, per la verità. Ma
è una giustizia che può farlo, e anche farsene titolo di merito. Che non è,
letterariamente, neanche questo un grande plot,
è roba da repubblica delle banane. Ma sì se si paluda di diritto, con auguste
toghe e rispettabilissime cariche, negli alti palazzi dei più rispettati poteri.
Il processo e l’assoluzione di Pisani, il
capo della Mobile di Napoli, non avranno seguito, e questo dice tutto sullo
stato della giustizia. O meglio dell’apparato repressivo. Niente a carico dei
giudici che hanno inquisito Pisani senza fondamento. Niente a carico della Dia
napoletana, e dei “colleghi” napoletani di Pisani che hanno raccolto le “prove”
contro di lui. Che poi si riducono, Dia, colleghi e prove, a uno: un “pentito”.
Uno talmente falso, in tutte le fasi dell’inchiesta e del processo, che ci si
chiede come abbiano potuto produrlo.
Il processo ha un solo senso. Ha bloccato,
e ha disconnesso, la caccia ai capi camorristi. I giudici accusatori, Sergio Amato e Enrica Parascandolo, che avevano
chiesto tre mesi fa quattro anni e rotti per l’ex capo della mobile, questo
l’hanno ottenuto, di allontanarlo da Napoli. Seminando veleni che impediranno a
lungo alla repressione a Napoli di funzionare. Irritualmente, il non ingenuo Amato
ha infatti ringraziato gli uomini della Dia, la Polizia speciale (“si è
cercato di buttare fango su di loro”), e gli uomini della Squadra Mobile “con
la schiena dritta”, per la “leale
collaborazione”.
Perché nessuno paga per questo? Perché i fedifraghi non sono perseguibili? Si permettono di
giocare a carte scoperte: per quale protezione?
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