Riediti in
originale col titolo “Le bon sens ou l’esprit français” (Mille-et-une-nuit,
pp. 79 € 3,50), queste tre conferenze di Bergson raccolte nel 1996 da Armando
Editore davano già la migliore giustificazione dell’uso dei classici che ora si
contesta. “Ci si domanda con inquietudine crescente”, nel 1895, data della
prima conferenza, alla Sorbona, “se gli studi disinteressati hanno efficacia
pratica, e in particolare se il buonsenso, che è una virtù civica nei paesi
liberi, varii in ragione della cultura intellettuale”. La cultura intellettuale
come distinta, allora, dalla cultura materiale, artigianale. Il sì è molto
argomentato. Il buonsenso Bergson preciserà in altra occasione come “la forza
interiore che rende possibile la concentrazione di ogni nostra vita passata in
un solo punto; forza che è anzitutto un potere d’inibizione”. Di selezione,
effetto della capacità critica. Effetto a sua volta dell’esercizio.
Oggi
Bergson avrebbe avuto prova netta, a
contrariis, del suo argomentare. Tra i tifosi allo stadio, come tra i
genitori a scuola, in ogni raccolta di popolo, e così probabilmente nel
decadimento del voto politico, la protervia cresce di pari passo con
l’incultura. È sempre stato così, non si può pretendere il “buonsenso”, la
ragione temperata, da chi non l’ha esercitata. Ma prima c’erano dei ruoli, che
trascinavano dei vincoli, più spesso in forma di autocoscienza. Ora i ruoli
sono invertiti: il diritto di non sapere si vuole superiore. Politicamente, per
il numero, ma anche socialmente e moralmente. Sancito due generazioni fa dal
diritto di non imparare, nella scuola del’obbligo.
Henri
Bergson, Educazione, cultura, scuola
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