Le buone intenzioni non scusano. Non c’è
solo Befera, che dall’alto del recupero crediti fiscali doveva finanziare il
lavoro dipendente, e non ha incassato un euro. L’Agenzia delle Entrate è brava
solo a controllare gli scontrini i giorni di festa, per pagarsi lo
straordinario raddoppiato, per il resto si sa che è inetta – diciamo così. O
Saccomanni, che toglie l’Imu e la rimette con un altro nome. O la riduzione del
costo del lavoro, che sta a cuore a tutti, e slitta sempre. A volte le buone
intenzioni non sono nemmeno ipocrite, solo ridicole.
Si prenda la Tobin Tax. Doveva tassare la
speculazione. “Riportare sulla terra una parte sia pure assai contenuta della
ricchezza mondiale”, nella magistrale sintesi di Marco Panara (“Tobin Tax
cronaca di un flop annunciato”, su “Affari & Finanza” di lunedì). Che
fluttua nell’etere “a velocità vorticose con l’obiettivo di moltiplicarsi”. E
un anno fa ammontava “a 902 mila miliardi di dollari, più o meno dodici volte e
mezzo il prodotto lordo del pianeta”.
Risultato? Zero, anzi negativo. L’Italia l’ha subito adottata,
impoverendo “il mercato finanziario nella sua parte più sana mentre è cresciuta
quella che non lo è, però inonda di commissioni le banche e la Borsa stessa”.
Insipienza? Forse.
Non si finisce di fare il conto dei disastri
indotti dal governo Monti. Conto che, però, non viene fatto, e anzi è taciuto.
È questa la misura della gravità della crisi: la stroncatura dei lavoratori e
piccoli risparmiatori sotto l’ideologia dei sacrifici, del rigore, del
risparmio. Mentre il debito cresce. Cioè la spesa. Improduttiva.
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