Cronache
del solito viaggio organizzato e controllato, nel 1967. Inutili quindi, non
fossero d’autore. In questo, però, travolgenti: come si fa, si faceva nel 1967,
a non vedere nelle Guardie Rosse di Mao una massa militarizzata? E dirla invece
spontanea. Moravia l’ha fatto, prima dei maoisti del ’68, dei nazimaoisti, e di
Dario Fo. Sul “Corriere della
sera”. E poi ne ha fatto un libro, che
Luca Clerici, imbarazzato, ripropone per “I Libri di Alberto Moravia” – “la
Cina”, dice, “sembra sottrarsi allo sguardo di Moravia”.
La
rivoluzione lo scrittore mette in coppa agli stereotipi: “Un tratto molto
cinese è la nessuna curiosità per l’estero”, i cinesi sono tutti uguali, i cinesi
sono poveri e contenti di esserlo, i cinesi sono liberi. O scemenze camuffate
da agudezas: la Rivoluzione Culturale è un’altra Passione, ha
“lo stesso fervore, lo stesso stile, la stessa ingenuità”, “la Grande Muraglia
ha, ovviamente, due facce: l’una, interna, che guarda la Cina; l’altra esterna
che guarda la Mongolia”, al di qua della grande Muraglia, “la Cina ha scoperto
di essere vuota”… Non senza un po’ di Pasolini - censure e passatismo: la
povertà ricca, la castità ferace (“l’amore non porta al rapporto sessuale,
porta alla castità”, “il piacere che l’uomo e la donna si procurano l’un l’altra
non differisce che in apparenza dalla prostituzione”, l’erotismo era creativo
nel “passato arcaico, primitivo, magico”). C’è anche “il carattere religioso”,
di nuovo, “della Rivoluzione Culturale”, e “l’origine contadina di questo
carattere”, e siamo solo alla pagina 33 – detto da chi non è mai stato in una
campagna cinese, e non ha letto nei sinologi quanto impervio sia penetrarla.
Moravia non
si spreca insomma, disimpegnato come sempre, si sa che non si commuove mai e nulla
lo turba, ma qui con l’ansia di dispiacere: “l’uomo occidentale” è “un budello
che si riempie di sterco”, la produzione si fa per il consumo, ignobiltà
suprema, “come nelle case moderne la cucina è spesso adiacente al cesso” –
questo non è vero: bisogna economizzare negli scarichi, ma i due restano distinti
(e comunque, nelle case antiche il cesso non c’era e bisognava andare fuori, si
faceva anche senza la produzione e il consumo), la guerra “serve ad alleviare
le costipazioni periodiche”, la bomba H “è legata alla sovrapproduzione” – non agli
Usa? Ma anche l’esame di coscienza occidentale (borghese, cristiano) fa
scontato.
Si rileggono
queste corrispondenze come un ritratto d’autore. Che non era opportunista.
Della Rivoluzione Culturale annotava contemporaneamente “la follia” nel diario,
che pubblicherà vent’anni dopo, nel 1986, ma più che altro era abulico, un
bambino che, di fronte alla novità, strizza gli occhi come per escluderla. E, tutto
sommato, poco curioso: disappetente. Tutto sommato perché fu viaggiatore quasi
compulsivo, da sempre. Pure in Cina nel 1937, con soggiorni in posti remoti anche
di mesi e anni. Qui fa molti apologhi: la ricchezza della povertà, il complesso
occidentale di don Giovanni, Mao confuciano e quasi mandarino… Ma - candido
come sempre, altra sua caratteristica - dicendo infine di non avere visto bene:
“Il più delle volte l’occhio non distingue niente di preciso, nessun aneddoto,
nessun evento particolare”.
Chiude la
raccolta con un articolo sulla Corea del Sud. Che nello stesso 1967 non ha
nulla (“tutte le industrie e le materie prime si trovano nella Corea del Nord”,
il reddito pro capite al Sud è 108 dollari, contro i 120 dei cinesi poveri di
Mao), ma “pretende” di diventare ricca.
Alberto
Moravia, La rivoluzione culturale in
Cina. Ovvero il convitato di pietra, Bompiani, pp. LXX-201 €10
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