Vedere a Roma ieri a Campo dei Fiori e
alla Madonna dei Monti, luoghi di sezioni e memorie storiche del Pci, famiglie
note e ignote in coda per votare Renzi, ha segnato la fine di una storia. Una
sorta di romana caduta del Muro: le generazioni unite per votare un
democristiano che più democristiano non si può, parolaio, furbo, sfuggente.
Tutto l’opposto di chi ambiva all’organizzazione e al progetto, e tuttora se ne
fa orgoglio.
Non è una novità assoluta. Nei tanti
Comuni (sono cinquemila su ottomila) che il Pd amministra, in quelli dove un
riscontro di prima mano è possibile, in Emilia, in Toscana, a Roma, è da tempo
che il Pci non esprimeva persone capaci, negli assessorati, nei consigli, e
progetti. Come fosse incapace di governare il cambiamento, e di governarsi nel
cambiamento.
Una fine così rapida e totale di un partito
super organizzato, che ha dominato la politica per oltre mezzo secolo, pone
però qualche dubbio sulla natura dello stesso. L’esperienza politica del Pci in
Italia, in assenza di un’esperienza diretta di governo centrale, si riassume
nel lavoro sindacale e nell’amministrazione locale. Il sindacato ex Pci è uno
sfacelo: niente idee né iniziative, solo ritualità. Mentre la capacità amministrativa
che svanisce con la crisi lascia supporre che essa fosse legata all’abbondanza,
alla possibilità di spesa. Anche per questo probabilmente il Pci finisce senza
un’eredità positiva.
Da Berlinguer a De Mita
Da Berlinguer a De Mita, dunque – tra “nipotini”:
la malinconia è inevitabile. Anche tra chi non apprezzava Berlinguer. Anche
probabilmente tra chi, come Scalfari e il partito di “Repubblica”, gloriavano De
Mita: hanno vinto una battaglia che il nemico non ha combattuto. Che nemico
era? E era proprio un nemico? A parte, cioè, il viso dell’arme dei suoi
intellettuali di carta, che peraltro ancora nella disfatta non smettono la puzza
al naso.
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