lunedì 9 dicembre 2013

La fine del Pci, ingloriosa

Vedere a Roma ieri a Campo dei Fiori e alla Madonna dei Monti, luoghi di sezioni e memorie storiche del Pci, famiglie note e ignote in coda per votare Renzi, ha segnato la fine di una storia. Una sorta di romana caduta del Muro: le generazioni unite per votare un democristiano che più democristiano non si può, parolaio, furbo, sfuggente. Tutto l’opposto di chi ambiva all’organizzazione e al progetto, e tuttora se ne fa orgoglio.
Non è una novità assoluta. Nei tanti Comuni (sono cinquemila su ottomila) che il Pd amministra, in quelli dove un riscontro di prima mano è possibile, in Emilia, in Toscana, a Roma, è da tempo che il Pci non esprimeva persone capaci, negli assessorati, nei consigli, e progetti. Come fosse incapace di governare il cambiamento, e di governarsi nel cambiamento.
Da Berlinguer a De Mita
Da Berlinguer a De Mita, dunque – tra “nipotini”: la malinconia è inevitabile. Anche tra chi non apprezzava Berlinguer. Anche probabilmente tra chi, come Scalfari e il partito di “Repubblica”, gloriavano De Mita: hanno vinto una battaglia che il nemico non ha combattuto. Che nemico era? E era proprio un nemico? A parte, cioè, il viso dell’arme dei suoi intellettuali di carta, che peraltro ancora nella disfatta non smettono la puzza al naso.
Una fine così rapida e totale di un partito super organizzato, che ha dominato la politica per oltre mezzo secolo, pone però qualche dubbio sulla natura dello stesso. L’esperienza politica del Pci in Italia, in assenza di un’esperienza diretta di governo centrale, si riassume nel lavoro sindacale e nell’amministrazione locale. Il sindacato ex Pci è uno sfacelo: niente idee né iniziative, solo ritualità. Mentre la capacità amministrativa che svanisce con la crisi lascia supporre che essa fosse legata all’abbondanza, alla possibilità di spesa. Anche per questo probabilmente il Pci finisce senza un’eredità positiva. 

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