Ermetismo
–
Prende il nome da Ermes. Messaggero degli dei e psicopompo, accompagnatore degli
spiriti nell’aldilà. Ma è anche un sorta di Ulisse divino, così nell’“Inno
omerico” a lui intitolato e dopo, dalle molteplici risorse (polùtropos),
astuto, ladro, stimolatore dei sogni. Ridotto in letteratura all’espressione
asintattica, e avulsa, a mero suono.
Fellini
–
È ancora il Grande Rimosso, il poeta e social
scientist più attento e veritiero dell’Italia repubblicana. Dalla “Strada”,
anzi dallo “Sceicco bianco”, a “E la nave va” o “Prova d’orchestra”, ottimista
nello sfacelo, o al “Viaggio di G.Mastorna”, l’autobiografia storica a quattro
mani con Dino Buzzati che non poté mai girare, di cui si pubblicano le sceneggiature, e alcune delle scene disegnate da Milo Manara. I vent’anni della
morte, il 31 ottobre, sono passati quasi nel silenzio, in una cultura che pure
non sa essere che funeraria: il Grande Censore degli anni fulgidi del neo realismo
dev’essere ancora all’opera.
Si può periodizzare la storia della
Repubblica con i film di Fellini. I primi, fino alla “Notte di Cabiria”, sono i
film della speranza – la ricostruzione. Poi viene il boom - la borghesia
trionfante e incerta: “La dolce vita”, “Amarcord”, “Otto e mezzo”. Poi il
nulla: “La nave”, la “Prova” – non c’è in fisica un disordine inordinato e
improduttivo, suicidario, in Italia c’è stato e c’è.
C’è l’Italia in filigrana anche nei film
letterari, dichiaratamente immaginifici: “Satyricon”, “Roma”, “Toby Dammit”
(Poe), “Casanova”, “La voce dalla luna” (Cavazzoni), “La città delle donne”.
Femminismo
–
L’immagine della donna, non più casalinga senza essere una vamp, fu rinnovata
da Elena Sedlak e le gemelle Kessler, ballerine della televisione, negli anni
1960.
Boccasile le aveva precedute, il disegnatore
di “Signorina Grandi Firme”, e nel dopoguerra di tante pubblicità. Dalla domesticità al
fascino, senza peccato. Subito, nel 1946, Boccasile si vide bloccata la
pubblicità della Paglieri per la quale aveva disegnato una donna nuda senza
niente di diabolico, e anzi angelicata. Si rifece dieci anni dopo.
È quello di Marinetti, “Il disprezzo
della donna”, 1911: “In questo sforzo di liberazione, le suffragette sono le
nostre migliori collaboratrici, poiché quanti più diritti e poteri esse
otterranno alla donna, quanto più essa sarà impoverita d’amore, tanto più essa
cesserà di essere un focolare di passione sentimentale o di lussuria. La vita
carnale sarà ridotta unicamente alla funzione conservatrice della specie”.
Letteratura – Prospera
come sfida al linguaggio, di cui si nutre: sempre rinnovata, anche nelle
ripetizioni e i remake. È il senso della
novella “Pierre Menard, autore del Don Chisciotte”, di Borges. Portata a
epitome del paradosso del traduttore, la novella dà il senso delle letteratura.
Innovativa nella (con la) ripetizione. Menard è l’autore che riscrive parola
per parola il “Don Chisciotte”.
Proust – Si può dire
bergsoniano anche in questo, oltre che per la “durata”: usa molte parole per
forzare i limiti del linguaggio. Bergson era fermamente convinto che il
linguaggio è una camicia di forza: la parola fissa, cose, concetti e contorni,
delimitando la mobilissima percezione individuale, sempre ricca di sfumature, cornici, contesti.
È Secondo Ottocento pieno, anzi Belle Époque e Fine Secolo, nei
personaggi femminili, le imprevedibili Odette, Albertine, Mlle Vinteuil, le comparse,
le grandi dame. Imprevedibili e inafferrabili, se non da quel lato lì. L’“eterno
femminino” di Goethe illustrato, se si vuole. Ma è anche la donna del romanzo
francese: Balzac, Flaubert, Zola, lo stesso Stendhal per troppe incertezze. Non
corpo, carne.
Traduzione – Il Montaigne
di Fausta Garavini è “Montaigne”, saggio, preciso, amabile, conversativo. Anche
in inglese Montaigne si presta a essere “Montaigne”, sottile equilibrato, moderato. Mentre spesso è
puntuto, e talvolta inconsiderato.
Non è il solo caso Mentre non c’è Rabelais in nessuna traduzione:
resta sempre di più, di fuori.
Il Dante di Jacqueline Risset, l’ultima versione francese, è invece
Dante per un tratto trascurato in Italia, il ritmo – per una carrellata
interminata, che il lettore non vorrebbe interrompere, martellante.
Vittoriana – La cultura
dell’epoca è sepolta sotto gli strali di Litton Strachey e Bloomsbury, fa
tutt’uno con l’irreprensibilità morale che si voleva dell’epoca, “borghese” - l’epoca
delle tendine alle finestre dell’“Orlando” di V.Woolf alla fine della corsa, o
delle crinoline sotto le gonne e i busti di stecche d’acciaio. Ma era una
borghesia che esprimeva e leggeva, Dickens, Thackeray, Trollope, Hardy, le
Bronte, George Eliot, Stevenson, Conrad, per non dire di Lewis Carroll e dello stesso
Wilde. Prosastica e non poetica, questo è vero. Ma Tennyson, Browning, Swinburne,
Matthew Arnold, e infine Yeats si leggono sempre – si dice che la poesia salta
un secolo, da Shelley, Keats e Byron a T.S.Eliot, che peraltro era americano,
come Ezra Pound che ribaltò negli anni 1910 la sonnolenta scena inglese, ma non
è vero. Anche Conan Doyle è ben vittoriano, per età, personalità e visione del mondo.
E Wilkie Collins. O Kipling, la cui inventiva si ascrive all’India. E Carlyle,
John Stuart Mill, Ruskin, Macaulay, W. Pater nelle scienze umane, per non dire di
Darwin.
In pittura la scena fu invece moderna e perfino scandalosa.
Prediligendo l’immagine femminile - insieme con la pittura monumentale, di
rovine – e il flou. L’immagine
velata, suggestiva, del sogno e della bellezza, del corpo, di Dante Rossetti,
Burne-Jones, Leighton, Millais, Waterhouse, Alma-Tadema. Che il corpo fanno armonico. Soffice, casto
benché scoperto, suggestivamente velato. Mentre Parigi, che Londra ben
frequentava, privilegiava il realismo impressionista, di contadine e ballerine
da tabarin – parti intime comprese.
letterautore@antiit.eu
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