Un’altra Europa, che non quella dei dazi
e dei tassi d’interesse? Non sradicata, come l’ha voluta l’élite laica che ne
ha redatto le costituzioni? Era possibile. È quella cui pensavano gli
europeisti radicali e “naturali”, fuori dai centri d’interesse, Eugenio
Colorni, Altiero Spinelli, Jean Monnet. E Simone Weil, che curiosamente ne
redigeva i fondamenti costituzionali, nell’esilio-esilio di Londra stesso tempo
che Colorni e Spinelli al confino a Ventotene. Non in progetto o manifesto, ma
in un insieme di appunti, saggi e lettere che qui opportunamente Domenico
Canciani e Maria Antonietta Vito riuniscono. Con un apparato critico che è
anche una scorribanda negli ultimi mesi di vita, e nella personalità stessa,
della filosofa.
L’Europa di Simone Weil è un’entità
nuova, ma consapevole delle proprie radici. E anzi a esse ancorata: alla filosofia
greca, razionalistica, platonica, e al cristianesimo delle origini depurato. ai
suoi anni (1942-1943) un’utopia rispetto alle condizioni in cui l’Europa
versava. Rispetto alla stessa Europa che combatteva il nazismo. È per questo
che il suo esilio è doppio: Simone si sente prigioniera, e anzi vessata, dalla
Francia combattente con la quale è venuta a schierarsi a Londra, tenuta in
punta di bastone e anzi in sospetto. Più che un vero progetto di Costituzione, gli
scritti delineano la constatazione, possibile già nella fase più delicata della
guerra, di un’occasione fallita, di un’immane tragedia senza catarsi.
Simone Weil, Una costituzione per l’Europa. Scritti londinesi, Castelvecchi, pp.
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