sabato 14 dicembre 2013

Nostalgia del maschio

Da un’apologia all’altra: la solitudine riscopre la cura, il prendersi cura. L’orgoglio del sé si completa con la scoperta dell’altro-da-sé. O dalla singletudine alla famiglia, in veste di figli-genitori, se non di compagni-coniugi. Questi sempre assenti, ma quasi rimpianti.
La cura è l’attività domestica, di governo e assistenza – “lo sdebitamento tra le generazioni”. Rivista, non più sintomaticamente rifiutata: “L’esperienza della cura della persona e degli spazi domestici  è un’attività essenziale, anche se non pagata, nella qualità effettiva della vita” (Marina D’Amelia). Il “ribaltamento della cura” è il tema dei dibattiti dei gruppi femministi che Letizia Paolozzi incontra in giro per l’Italia, dal Veneto a Napoli, quale esponente del Gruppo meneghino femminista del Mercoledì, uno dei gruppi della “differenza”.  Dopo avere scritto con Alberto Leiss “La paura degli uomini”, degli uomini cioè impauriti – “si è inceppata l’autorità maschile”. Dopo la “femminilizzazione del lavoro”. Un dibattito che il Gruppo propone “a sinistra”, dunque politico. Anche se Letizia Paolozzi vi intravvede “brividi orwelliani”: “Capita che i legami scheletriscano nel «mi piace» mentre il corpo (e la differenza) rimpicciolisce fino a scomparire”, al § “Internet e la scomparsa del corpo”.
Una (ri)scoperta femminile, anzi femminista. Ma anche di qualche uomo: “La politica delle donne prova a invertire la marcia”. Malgrado “la cancellazione del patriarcato”, anzi “l’evaporazione del padre” (Recalcati), e “l’identità maschile vacillante” – vedi “la rinuncia” di Benedetto XVI. O non a causa di tutto questo?) Sempre azionando il corpo. Ma quella parte del corpo, psicologica se non fisiologica, che è solo femminile, come già sapeva Alice Munro: “Quando un uomo esce da una stanza, si lascia alle spalle tutto ciò che c’è dentro. Una donna, invece, si porta appresso tutto quello che c’è avvenuto”. La stanza, cioè la casa, e magari anche la famiglia, genitori, conviventi a vario titolo, figli. Un termidoro duraturo. questo del femminismo. Che come tutte le rivolte si è lasciati dietro, per lo scopo principale, tanti pezzi qualificanti e magari decisici.
A lungo colonna dell’ “Unità”, ex Potere Operaio, parigina dei tempi di Balestrini, Scalzone e Antonio Negri, che si distinse per piangere lacrime vere alla liquidazione del Pci, femminista nel 1972 quando le donne non ne volevano sapere, Letizia Paolozzi finisce per vedere uomini e donne muti, ognuno nel loro specifico. Il suo excursus vuole curiosamente vecchia maniera, vecchio Pci. In un femminismo di schieramento politico, e anzi di partito. Dove l’assunto (femminismo) e l’istituzione (circoli) sono tutto, ramificati in un pensiero unico – quella politica era ossimorica. E per ciò solido, stabile. Allargato qui alle Suore Salesie e alle Clarisse Orsoline, ma come contorno. La Cura (Heidegger) e la Cura di sé (Foucault), nozioni filosofiche, accostando all’“I care” del segretario Walter Veltroni. Saltando magari del tutto il contributo cerniera di Martha Nussbaum, quindici anni fa, con la sociologia politica del “tempo obbligato”, o lavoro non remunerato, per la cura dei non autosufficienti, bambini, anziani, portatori di handicap, ammalati.
Un tempo obbligato si può dire interminabile, tra figli e ascendenti. E faticoso come nessun altro: più che il tempo è in gioco la salute, nessun “lavoro” è più usurante, per il corpo e per lo spirito. Oppure no, e questa è la novità, e quasi un miracolo: è un impegno che rigenera, per stressante che sia. Forse un ricatto: in mancanza, la cattiva coscienza subentra. Perché siamo fatti così: dunque un modo di essere, una concezione transeunte della famiglia. Non fosse per il sospetto che la razionalità va oltre le utilità, inglobando per esempio la procreazione.
Di nuovo c’è anche – non detto ma individuabile - un esito esagerato della fallace concezione individualizzante (liberatrice) della telematica. In un mondo invece strutturato più che mai. Negli stessi ammodernamenti, che anzi si possono vedere sintonizzati al controllo. Tra élites sempre più ristrette e inaccessibili, e la massa. Le crisi vano “in automatico”, a danno sempre della massa, senza argini né mezzi di difesa – i soldi scompaiono senza che si possa nemmeno dire “al ladro!”. Senza spargimenti di sangue e anzi in dolcezza. Con molte “buone ragioni” anzi, compresa la globalizzazione, la cornice politica – che si può obiettare? Di cui due generazioni sono già vittime, i trenta-quarantenni, e ora i ventenni.
Un inizio dunque, una ripartenza. Mentre sarebbe tempo per un bilancio, del femminismo. In termini soprattutto psicologici, o dello sviluppo della personalità: è la donna più felice (soddisfatta, equilibrata, forte)? Quanto le donne si sono rafforzate? Nei diritti, certo. Di cui però c’è bisogno, per allargare il mercato del lavoro. Alla terza generazione, che ne è della madre, che si è rinnovata nel senso della figura maschile – e cioè dei figli delle madri femministe, e soprattutto delle figlie? Resta irrisolto il nodo politico della famiglia. Il tempo della cura scandisce la famiglia, questa “parte delle strutture fondamentali della società”, direbbe Nussbaum, per molti aspetti obbligata anch’essa e non libera. In alcuni casi ben regolata dalle leggi ma sempre irrisolta sul piano filosofico, e da qualche generazione anche su quello politico.
Letizia Paolozzi, Prenditi cura, et al./, pp. 90 € 9

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