venerdì 6 dicembre 2013

Secondi pensieri - 158

zeulig

Critica – Fu nel Settecento la filosofia, non solo nel criticismo di Kant, della ragione che ragiona con se stessa. Si posero nel Settecento le basi critiche dei saperi umanistici: l’attendibilità delle fonti, il valore della testimonianza (miracoli), la critica testuale.
Il criticismo è stato fertile della più proficua ricerca, gnoseologica, fenomenologica, linguistica, fino alla destrutturazione. Cioè a un impasse, della stessa ragione critica. Da cui i tentativi di fuga-apertura del secondo Novecento a nuovi-vecchi indirizzi di ricerca: ontologia, ermeneutica, pensiero debole compreso, realismo.

Povertà - Molta apologetica del primo cristianesimo ne celebra le virtù e la propone. Come liberazione dall’assillo dell’accumulo, e come spoliazione di se stessi, del superfluo e finanche del necessario – come forma di sacrificio. È il sostrato su cui la figura di san Francesco, santo della povertà benché figura bizzarra, si è costruita in epoca posteriore. Ma ha significato diverso nelle società contemporanee del benessere, strutturate cioè ad assicurare risorse spendibili per tutti. In questo assetto sottrae e non aggiunge alla giustizia sociale, l’accrescimento delle risorse necessitando di più organizzazione, più affinata, più “concorrenziale”, e non del rifiuto della produzione stessa.
È il paradosso della povertà contemporanea, vista come isola nel benessere. Meglio espresso da Moravia nel 1968, nell’introduzione al suo libro di viaggio nella Rivoluzione Culturale cinese (ora in “La rivoluzione culturale in Cina. Ovvero il convitato di pietra”), in forma di “dialogo filosofico” con se stesso. “Che impressione ti ha fatto la loro povertà?” “Di sollievo”. Perché non c’è povero senza ricco, perché l’arricchimento è “disumano”, e perché, “giunta al massimo della disumanità, l’umanità desidererà e otterrà di diventare povera”. La povertà è anche malthusiana, che per Moravia è un merito. Ma l’esito è diverso in una società “primitiva” (naturale, di sopravvivenza), che vive di abbondanza o penuria,  e una strutturata, all’ordine del mondo contemporaneo che sa trasformare la debolezza in forza: “L’abbondanza è un dono della natura che non costa né fatica, né denaro, né tempo. Essa non è destinata al consumo ma all’immaginazione. Invece la produzione costa fatica, tempo e denaro e perciò non è mai abbondante”, cioè sufficiente.

Spirito – Potrebbe essere il motore dell’universo, quando i fisici accederanno alla materia. In forma di pneuma gli stoici lo intendevano “anima del mondo”: l’energia che dà vita alla materia – che è la materia. La scissione dello Spirito dalla Materia è recente, e si appiattisce storicamente sul fascismo.

È l’epitome della generosità nella definizione che Bergson, “L’energia spirituale”, privilegia: “Una forza che può estrarre da se stessa più di quanto contiene, rendere più di quanto riceve, dare più di quanto ha”. In termini elettrotecnici, un condensatore.

È Santo per la Chiesa. Ma è confuso con il corpo da molta patristica - con le recezioni e le espressioni dei sensi. In quanto, più propriamente, spirito corporeus  o animalis. In questo senso è però anche unificatore del mondo: dell’umano con l’animale e l’inanimato.

Il tardo Medio Evo ebbe culto profondo dello Spirito, invocato nei suoi sette doni, primo di tutti l’intelligenza. Analoga presenza ebbe dopo la “Fenomenologia dello spirito”: Hegel “approfondì” Kant, in forma, anche lui, trinitaria, di spirito soggettivo, oggettivo e assoluto. Una costruzione mentale come un’altra, che però ne fece il filosofo quasi unico di tutto l’Ottocento


Suicidio - Chi ha detto che il suicidio è atto supremo di libertà? Schiller lo suggerisce a Guglielmo Tell: è scelta che anche il più debole ha - il che è vero. Anche il più forte? Montaigne esordisce pimpante in argomento: “La morte volontaria è la più bella”. Il tardigrado aveva questa pulsione segreta, attesta Fausta Garavini, il taedium vitae, dietro i viaggi, la politica, la magistratura, e l’infaticabile scrittura, perfino in italiano.
Mandel’štam lo disse, nel caso di Skrjabin, “l’atto supremo della sua creazione”. E in tal senso egli stesso procedette, come ultimamente Celan, suo gemello tardivo. Ma è “passione vile” per Porfirio, che pure ne fu tentato, scoraggiato in tempo dal maestro Plotino. Aristotele lo ritiene un’ingiustizia contro lo Stato. O non dello Stato? Celan non ha retto all’impossibilità di essere ebreo e tedesco, prigioniero della lingua madre: quando tentò il ritorno nel 1952 il Gruppo 47, Grass e Bachmann inclusi, lo disse patetico (anche se Bachmann poi se ne innamorò), solo Heidegger lo riconobbe, di cui non poteva fidarsi.

Anche per i primi cristiani il martirio ricercato non era onorevole. Tuttora turba gli esegeti il martire cristiano che abbraccia il boia, le belve, il fuoco, l’acqua: Germano, Ignazio, le donne di Edessa, la legione dei 6666 uomini, e Pelagia, di cui Baronio, lo storico dei santi, dirà: “Quia ad hoc dicamus, non habemus”, non so che dirne. Ma Gesù, insinua Donne, affrettò la sua morte sulla croce rispetto ai ladroni, portando a testimone san Tommaso d’Aquino: “Cristo fu causa della sua propria morte, come lo è del suo bagnarsi colui che potrebbe ma non chiude le finestre, quando piove”. Ma c’è anche da dire che l’indifferenza dei martiri alla tortura, alla croce, ai leoni faceva impazzire Nerone, come più tardi il Grande Inquisitore. Maometto ergerà il suicidio a prova della fede, rimproverando agli ebrei la scarsa propensione: “Se la vostra religione è così buona, perché non morite per essa?” Ma l’argomento è meno solido dopo Hitler.

zeulig@antiit.eu

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