Critica – Fu nel Settecento la
filosofia, non solo nel criticismo di Kant, della ragione che ragiona con se
stessa. Si posero nel Settecento le basi critiche dei saperi umanistici: l’attendibilità
delle fonti, il valore della testimonianza (miracoli), la critica testuale.
Il criticismo è stato fertile della più proficua
ricerca, gnoseologica, fenomenologica, linguistica, fino alla destrutturazione.
Cioè a un impasse, della stessa
ragione critica. Da cui i tentativi di fuga-apertura del secondo Novecento a
nuovi-vecchi indirizzi di ricerca: ontologia, ermeneutica, pensiero debole
compreso, realismo.
Povertà - Molta apologetica del primo
cristianesimo ne celebra le virtù e la propone. Come liberazione dall’assillo dell’accumulo,
e come spoliazione di se stessi, del superfluo e finanche del necessario – come
forma di sacrificio. È il sostrato su cui la figura di san Francesco, santo
della povertà benché figura bizzarra, si è costruita in epoca posteriore. Ma ha
significato diverso nelle società contemporanee del benessere, strutturate cioè
ad assicurare risorse spendibili per tutti. In questo assetto sottrae e non
aggiunge alla giustizia sociale, l’accrescimento delle risorse necessitando di
più organizzazione, più affinata, più “concorrenziale”, e non del rifiuto della
produzione stessa.
È il paradosso della povertà contemporanea,
vista come isola nel benessere. Meglio espresso da Moravia nel 1968, nell’introduzione
al suo libro di viaggio nella Rivoluzione Culturale cinese (ora in “La
rivoluzione culturale in Cina. Ovvero il convitato di pietra”), in forma di “dialogo
filosofico” con se stesso. “Che impressione ti ha fatto la loro povertà?” “Di
sollievo”. Perché non c’è povero senza ricco, perché l’arricchimento è “disumano”,
e perché, “giunta al massimo della disumanità, l’umanità desidererà e otterrà
di diventare povera”. La povertà è anche malthusiana, che per Moravia è un
merito. Ma l’esito è diverso in una società “primitiva” (naturale, di
sopravvivenza), che vive di abbondanza o penuria, e una strutturata, all’ordine del mondo
contemporaneo che sa trasformare la debolezza in forza: “L’abbondanza è un dono
della natura che non costa né fatica, né denaro, né tempo. Essa non è destinata
al consumo ma all’immaginazione. Invece la produzione costa fatica, tempo e denaro
e perciò non è mai abbondante”, cioè sufficiente.
Spirito – Potrebbe essere il motore dell’universo,
quando i fisici accederanno alla materia. In forma di pneuma gli stoici lo intendevano “anima del mondo”: l’energia che
dà vita alla materia – che è la
materia. La scissione dello Spirito dalla Materia è recente, e si appiattisce storicamente
sul fascismo.
È l’epitome
della generosità nella definizione che Bergson, “L’energia spirituale”, privilegia:
“Una forza che può estrarre da se stessa più di quanto contiene, rendere più di
quanto riceve, dare più di quanto ha”. In termini elettrotecnici, un
condensatore.
È Santo
per la Chiesa. Ma è confuso con il corpo da molta patristica - con le recezioni
e le espressioni dei sensi. In quanto, più propriamente, spirito corporeus o animalis.
In questo senso è però anche unificatore del mondo: dell’umano con l’animale e
l’inanimato.
Il tardo
Medio Evo ebbe culto profondo dello Spirito, invocato nei suoi
sette doni, primo di tutti l’intelligenza. Analoga presenza ebbe dopo la “Fenomenologia
dello spirito”: Hegel “approfondì” Kant, in forma, anche lui, trinitaria, di
spirito soggettivo, oggettivo e assoluto. Una costruzione mentale come un’altra,
che però ne fece il filosofo quasi unico di tutto l’Ottocento
Suicidio - Chi ha
detto che il suicidio è atto supremo di libertà? Schiller lo suggerisce a
Guglielmo Tell: è scelta che anche il più debole ha - il che è vero. Anche il
più forte? Montaigne esordisce pimpante in argomento: “La morte volontaria è la
più bella”. Il tardigrado aveva questa pulsione segreta, attesta Fausta
Garavini, il taedium vitae, dietro i viaggi, la politica, la
magistratura, e l’infaticabile scrittura, perfino in italiano.
Mandel’štam
lo disse, nel caso di Skrjabin, “l’atto supremo della sua creazione”. E in tal
senso egli stesso procedette, come ultimamente Celan, suo gemello tardivo.
Ma è “passione vile” per Porfirio, che pure ne fu tentato, scoraggiato in tempo
dal maestro Plotino. Aristotele lo ritiene un’ingiustizia contro lo Stato. O
non dello Stato? Celan non ha retto all’impossibilità di essere ebreo e
tedesco, prigioniero della lingua madre: quando tentò il ritorno nel 1952 il
Gruppo 47, Grass e Bachmann inclusi, lo disse patetico (anche se Bachmann poi
se ne innamorò), solo Heidegger lo riconobbe, di cui non poteva fidarsi.
zeulig@antiit.eu
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