Amore - È una camicia di forza,
linguistica. Tutto ciò che gli sottostà costringendo ai limiti di una parola.
Si può dirlo vittima per eccellenza dei limiti del linguaggio. Tante “cose”
(sentimenti, passioni, disposizioni), vissute in modo non uniforme da individuo
a individuo, costringe in una parola.
Fede – È amore, dicono i papi
Bergoglio e Ratzinger. Con i limiti dunque del termine amore. Tanto molteplice
quanto chiuso.
Felicità
– È la
filosofia. La riflessione, l’arte di ragionare. Anche quella della disperanza,
altro esercizio a suo modo voluttuoso dell’arte della ragione.
“L’esercizio della saggezza”, la diceva
Aristotele. “L’elemosina che si getta ai mendicanti”, la dice Schopenhauer –
con altrettanta saggezza?
Si definiva il Bene Supremo, e lo è , se non il
fine di ogni esistenza. Di volta in volta, piacere, virtù, ragione, ascesi. E
ora, nella filosofia della crisi, la superiore saggezza. O non è l’esito della
sospensione del giudizio? Il “passeggiatore solitario” Rousseau si dice felice
quando, disteso in barca, si lascia alla deriva sulle increspature
dell’acqua. Anche dell’attività
febbrile, prometeica, se la sua mancanza (età, malattia, ristrutturazione)
manda molti oggi in depressione.
È una pausa.
“La ricerca della felicità distoglie dalla
felicità”, argomenta Pascal. La ricerca dev’essere obliqua: si punta a essa con
un falso scopo - facendo dell’altro, magari gravoso. Non residuale ma tangenziale.
È la corsa e non il traguardo. Per questo
irraggiungibile.
È “l’unica cosa al mondo”, dice Aristotele, che
si vuole per se stessa. E non come falso scopo per altro beneficio. Si può dire
anzi che tutta l’azione umana è concertata a questo scopo, seppure illusorio –
direbbe Leopardi. Anzi no: sfuggente. Una meta retrattile. Un traguardo che balugina,
della consistenza del miraggio – che non ama essere toccato.
Più spesso è definitiva, e per questo perenta. La felicità viene al culmine
della saggezza, per Budda e non solo, ma si vuole un compimento. E in questo si
cancella, per riproporre la sua propria ricerca.
Giustizia
– È il
perno della vita sociale, della sua costituzione. E della sua esistenza: ne è
la linfa. Lo spirito di giustizia.
È un senso, seppure non fisiologico. Si esprime
dal basso, e prima o dopo gli ordinamenti. Somma ingiustizia è la giustizia
degli apparati (ordinamenti) ingiusta, nelle sue istituzioni e\o nelle sue
azioni.
Linguaggio
- Limita
indubbiamente, nel mentre che ordina e scopre – apre porte e frontiere. Apre ordinando
– e più nella filologia più avventurosa e astrusa, sempre infine
classificatoria. Nel senso che può dire Bergson, “Saggio sui dati immediati
della conoscenza”: “Il pensiero resta incommensurabile col linguaggio”.
Per Bergson il linguaggio fa di peggio:
comprime e limita là dove è più espressivo o significante: “La parola dai
contorni ben definiti, la parola brutale, che immagazzina ciò che c’è di
stabile, di comune, e per conseguenza d’impersonale nelle impressioni
dell’umanità, schiaccia quantomeno
ricopre le impressioni delicate e fuggitive della nostra coscienza
individuale”. Questo vale pure per Barthes, che ne ha finemente ampliato le
articolazioni e analizzato le potenzialità.
Suicidio
- Il
tema è l’irrazionalità del suicidio. È passare a miglior vita? È atto ostile?
Contro chi: se stessi, gli altri, Dio - la vita, la natura? E quali altri? Il gesuita Johannes Robeck si annegò quando ebbe
completata la ponderosa “Exercitatio
philosophica de morte voluntaria philosophorum et bonorum virorum”. Philipp
Mainländer s’impiccò il giorno in cui ebbe la prima copia della sua “Filosofia
della liberazione”. La
virtuosa Basilò, di cui in Callimaco, “posto il fratello sulla pira, non
sopportò\di vivere”, di vivere più del fratello morto. Re Mida si soffocò col
sangue di bue, stanco di lucidare ottoni perché sembrassero oro. Arunzio si
uccise per fuggire l’avvenire e il passato. Cleombroto d’Ambracia si buttò,
secondo Callimaco, nel buco dello Stige per nessun altro motivo che l’aver
letto Platone sull’anima, ricavandone gran desiderio della vita futura. Platone
fu fatale pure all’Uticense, ma quella è un’altra storia. Lukàks giovane,
quello dei saggi vivi, “L’anima e le forme”, “Teoria del romance”, voleva
suicidarsi per amore di Irma Seidler, che lo ispirava, e glielo annunciò in una
lettera mai spedita, anche perché poco dopo fu lei a suicidarsi. L’amore, lo
dice Ovidio, non conosce limite né pace se non nella morte, ma di chi?
Dickens pare abbia detto: “La vita ci è stata
data a patto di difenderla con coraggio fino all’ultimo respiro”. Che sembra
sentenza di significato univoco e profondo e invece è vaga. Sempre, beninteso,
è questione di vita e di morte. Il padre di Šklovskij, ebreo battezzato, che la
moglie abbandonò col primo figlio, si trafisse da parte a parte con una daga,
sopravvisse, si risposò, ebbe Viktor, e dopo una trentina d’anni s’accorse,
insieme con la seconda moglie, che si amavano. Una legge di Enrico Morselli
lega i suicidi alle nascite: tanto più crescono quelli, tanto più si
moltiplicano queste. Ma un’unica legge o causa non c’è. Secondo Marguerite Duras
gli uomini hanno inventato il suicidio come il canto e la divinità, contro la
vita, per tedio. Può anche mancare il coraggio. Oppure la vita può essere tolta
agli uomini malgrado tutto, giacché viene loro data.
zeulgi@antit.eu
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