domenica 15 dicembre 2013

Secondi pensieri - 159

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Amore - È una camicia di forza, linguistica. Tutto ciò che gli sottostà costringendo ai limiti di una parola. Si può dirlo vittima per eccellenza dei limiti del linguaggio. Tante “cose” (sentimenti, passioni, disposizioni), vissute in modo non uniforme da individuo a individuo, costringe in una parola.

Fede – È amore, dicono i papi Bergoglio e Ratzinger. Con i limiti dunque del termine amore. Tanto molteplice quanto chiuso.

Felicità – È la filosofia. La riflessione, l’arte di ragionare. Anche quella della disperanza, altro esercizio a suo modo voluttuoso dell’arte della ragione.
“L’esercizio della saggezza”, la diceva Aristotele. “L’elemosina che si getta ai mendicanti”, la dice Schopenhauer – con altrettanta saggezza?

Si definiva il Bene Supremo, e lo è , se non il fine di ogni esistenza. Di volta in volta, piacere, virtù, ragione, ascesi. E ora, nella filosofia della crisi, la superiore saggezza. O non è l’esito della sospensione del giudizio? Il “passeggiatore solitario” Rousseau si dice felice quando, disteso in barca, si lascia alla deriva sulle increspature dell’acqua.  Anche dell’attività febbrile, prometeica, se la sua mancanza (età, malattia, ristrutturazione) manda molti oggi in depressione.
È una pausa.  

“La ricerca della felicità distoglie dalla felicità”, argomenta Pascal. La ricerca dev’essere obliqua: si punta a essa con un falso scopo - facendo dell’altro, magari gravoso. Non residuale ma tangenziale.

È la corsa e non il traguardo. Per questo irraggiungibile.
È “l’unica cosa al mondo”, dice Aristotele, che si vuole per se stessa. E non come falso scopo per altro beneficio. Si può dire anzi che tutta l’azione umana è concertata a questo scopo, seppure illusorio – direbbe Leopardi. Anzi no: sfuggente. Una meta retrattile. Un traguardo che balugina, della consistenza del miraggio – che non ama essere toccato.

Più spesso è definitiva, e per questo perenta. La felicità viene al culmine della saggezza, per Budda e non solo, ma si vuole un compimento. E in questo si cancella, per riproporre la sua propria ricerca.

Giustizia – È il perno della vita sociale, della sua costituzione. E della sua esistenza: ne è la linfa. Lo spirito di giustizia.
È un senso, seppure non fisiologico. Si esprime dal basso, e prima o dopo gli ordinamenti. Somma ingiustizia è la giustizia degli apparati (ordinamenti) ingiusta, nelle sue istituzioni e\o nelle sue azioni.

Linguaggio - Limita indubbiamente, nel mentre che ordina e scopre – apre porte e frontiere. Apre ordinando – e più nella filologia più avventurosa e astrusa, sempre infine classificatoria. Nel senso che può dire Bergson, “Saggio sui dati immediati della conoscenza”: “Il pensiero resta  incommensurabile col linguaggio”.
Per Bergson il linguaggio fa di peggio: comprime e limita là dove è più espressivo o significante: “La parola dai contorni ben definiti, la parola brutale, che immagazzina ciò che c’è di stabile, di comune, e per conseguenza d’impersonale nelle impressioni dell’umanità, schiaccia  quantomeno ricopre le impressioni delicate e fuggitive della nostra coscienza individuale”. Questo vale pure per Barthes, che ne ha finemente ampliato le articolazioni e analizzato le potenzialità.

Suicidio - Il tema è l’irrazionalità del suicidio. È passare a miglior vita? È atto ostile? Contro chi: se stessi, gli altri, Dio - la vita, la natura? E quali altri? Il gesuita Johannes Robeck si annegò quando ebbe completata la ponderosa “Exercitatio philosophica de morte voluntaria philosophorum et bonorum virorum”. Philipp Mainländer s’impiccò il giorno in cui ebbe la prima copia della sua “Filosofia della liberazione”. La virtuosa Basilò, di cui in Callimaco, “posto il fratello sulla pira, non sopportò\di vivere”, di vivere più del fratello morto. Re Mida si soffocò col sangue di bue, stanco di lucidare ottoni perché sembrassero oro. Arunzio si uccise per fuggire l’avvenire e il passato. Cleombroto d’Ambracia si buttò, secondo Callimaco, nel buco dello Stige per nessun altro motivo che l’aver letto Platone sull’anima, ricavandone gran desiderio della vita futura. Platone fu fatale pure all’Uticense, ma quella è un’altra storia. Lukàks giovane, quello dei saggi vivi, “L’anima e le forme”, “Teoria del romance”, voleva suicidarsi per amore di Irma Seidler, che lo ispirava, e glielo annunciò in una lettera mai spedita, anche perché poco dopo fu lei a suicidarsi. L’amore, lo dice Ovidio, non conosce limite né pace se non nella morte, ma di chi?

Dickens pare abbia detto: “La vita ci è stata data a patto di difenderla con coraggio fino all’ultimo respiro”. Che sembra sentenza di significato univoco e profondo e invece è vaga. Sempre, beninteso, è questione di vita e di morte. Il padre di Šklovskij, ebreo battezzato, che la moglie abbandonò col primo figlio, si trafisse da parte a parte con una daga, sopravvisse, si risposò, ebbe Viktor, e dopo una trentina d’anni s’accorse, insieme con la seconda moglie, che si amavano. Una legge di Enrico Morselli lega i suicidi alle nascite: tanto più crescono quelli, tanto più si moltiplicano queste. Ma un’unica legge o causa non c’è. Secondo Marguerite Duras gli uomini hanno inventato il suicidio come il canto e la divinità, contro la vita, per tedio. Può anche mancare il coraggio. Oppure la vita può essere tolta agli uomini malgrado tutto, giacché viene loro data.

Vuoto – Non esiste in politica, si dice. Ed è vero: ogni spazio lasciato è subito occupato, in meglio o in peggio. Non esiste nella storia, anche quotidiana. Non esiste in memoria. Il vuoto di memoria è occupato da altre memorie, per quanto incongruenti. Anche lo zen, arte di fare il vuoto, richiede applicazione costante. Non siamo mai soli.

zeulgi@antit.eu

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