Pound è illeggibile, i “Cantos”. Anche
frammentandolo, anche solo per un verso memorabile. Una serie d’immagini al
caleidoscopio, avulse, tra poesia, miti, storia, memoria, politica, paesaggio,
in una lingua ibrida, un mistilinguismo accentuato, con innesti di latino,
greco, occitano, francese, tedesco, italiano del Tre e Quattrocento, e gerghi
privati. A partire dal titolo, plurale inglese della parola italiana. Col vezzo
del kenning, gli aggettivi composti
di due o più parole legate da un trattino. Con farciture di lunghi estratti di carte
ordinarie, semplicemente tradotti: notule, annali, diari, codici, committenze,
ricevute. Di un’adolescenzialità prolungata e
anzi eretta a poetica, quando si gioca col linguaggio – i linguaggi si
moltiplicano e si esoterizzano, operazione sportivamente creativa e misterica.
A volte chiuso, chiusissimo, in mezzo alle sue letture, che si racconta a se
stesso. In chiave quasi “celaniana”, poiché la poesia filologica è l’amore
della lingua - di una lingua madre che abbia rifiutato il figlio (o il figlio
abbia rifiutato).
Ogni “Canto” ha bisogno di una rete, che
più spesso ha nodi variati. Sulla quale i segni si dispongono a capriccio, per
lampi di memoria, guizzi della fantasia, come se in un arazzo dall’ordito mobile
i fili si applicassero per estri improvvisi, di qualità, forma, colore. Da un
poeta polemista ma anche appassionato antichista, cultore di Omero, dei poeti latini,
dei trovatori, di Dante, dell’Italia dei Principati, e dei Condottieri, e
talvolta perfino lirico, di fronte alla natura, la luce, i sassi, le
foglie, i colori, i sapori. “Da ciò”,
spiega Bagigalupo, “il carattere frammentario di molti dei «Cantos», o quella
che vien detta la poetica della citazione”. Si può anche leggerlo alla maniera
di Mallarmé, “gourmet di sonorità” quale è stato anche detto (Bagigalupo evoca
un ricordo di Montale in visita da Pound: “Una volta che trovò la parola
«lattizzo», uscì seminudo per le vie di Rapallo urlando: «lattizzo!», «lattizzo»”
– qui in uso al “Canto” XXII), ma allora
contro le sue intenzioni, e il senso dei “Cantos”.
Di fronte a tanta prodigalità
Bacigalupo, curatore e traduttore, è breve e ricco. Con un tatto speciale per
la spazialità di Pound, “poeta
filologo” (p.11). Il suo riportare la passione filologica nella storia, in
“scene oniriche e visionarie”, e contesti storici presupposti, e quindi oscuri.
Come se i “Cantos” fossero un cantiere, scritti in forma informale, se si
potesse dire. Nella quale il lettore è invitato a entrare a ogni rilettura, a
farsene l’autore – porsi domande, darsi risposte, “spaziare” tra
interpretazioni e riscritture, variare: “Entrare nel loro laboratorio testuale
e immaginifico” (32).
Bacigalupo agevola la lettura con pochi,
rapidi, e incredibilmente esaurienti sussidi, niente più che una guida
volendosi, seppure competente e discreta - niente del traduttore-esegeta che si sovrappone all’autore: sommari e riferimenti di ognuno dei
“Cantos”, contestualizzati anche nella vasta produzione poundiana, critica e
poetica, una cronologia, una bibliografia comprensiva delle fonti e delle traduzioni, oltre alla storia
editoriale del poema e a una selezionata bibliografia critica, più una utile
silloge di lettere e testimonianze che hanno accompagnato la gestazione e la
prima pubblicazione della raccolta, e un indice dei nomi specialmente accurato,
con i luoghi e i personaggi citati. L’inquadramento, in poche righe del
risvolto, è più di un saggio: “Come Byron agli inizi dell’Ottocento, Ezra Pound
inaugura il Modernismo novecentesco con un viaggio poetico lungo le coste del Mediterraneo:
da Gibilterra alla Provenza, alla Grecia omerica, all’Italia del Rinascimento e
di scabri paesaggi esotici - «Come lo scultore vede la forma nell’aria…». Con
qualche puntata a Parigi e a Londra…”.
L’edizione italiana dei “Cantos” resta
quella di Mary de Rachewiltz del 1985, con la collaborazione di Maria Luisa
Ardizzone, ora nei Meridiani. Un lavoro formidabile di assestamento di un magma
trabordante, tra riferimenti, varianti, riscontri. Con un’altra presentazione brevemente
esaustiva: “Poema scritto in pubblico, ma anche poesia chiusa. Dai trovatori
Pound ha imparato a coprire le proprie tracce. E più giri volgono verso il centro di sé e della
sua tribù. Più si imbozzola. Ma per chi riesce a rompere il guscio è un entrare
nella «ghianda di luce», un reggere «la sfera di cristallo». Bagigalupo la
arricchisce semplificando – in questo gruppo iniziale del poema, “A Draft of
XXX Cantos”, che Pound è venuto componendo dal 1917 e ha raccolto nel
1930. Ha reso piana la traduzione, in
armonia con l’originale – Pound era agitato ricettore-recettore della
contemporaneità, specie nella sua vulcanica officina editoriale, avanguardista
senza manifesto, mallevadore delle lettere degli anni 1920-1930. Evitando in
particolare gli arcaismi che impreziosivano e appesantiscono la traduzione
canonica. Particolare non trascurabile: l’interesse di questa edizione è l’effacement del traduttore e curatore. Al
punto da sembrare distratto o diminutivo. Mentre è il quasi muto, il cappello
in mano, di fronte allo straripante titanismo del poeta, che ogni parola
rispetta come una cosa.
Nel tempo, Pound appare un poeta europeo
più che americano, e anzi italiano. Ma la memoria e la critica di Pound, poco
consistenti in Europa, come del resto
negli Usa, sono lasciate in Italia ai nostalgici. Per le innegabili propensioni
e le amicizie di cui il vecchio Poeta infine liberato ancora si compiaceva.
Massimo Bacigalupo è un’eccezione: americanista, dopo essere stato autore in
proprio, cineasta e studioso dell’immagine. Nonché piccolo amico del vecchio
Pound, dismesso dall’America. Al poeta
ha dedicato trent’anni fa seicento pagine di studi, “L’ultimo Pound”, premio Viareggio 1981 - agli
ultimi “Cantos”, dai “Cantos pisani” alla fine, quindici anni di fervore creativo
malgrado la follia ufficiale..
Un
viaggio di Ulisse
Volendosi iniziare al poema poundiano
questa “prova” di trenta “Cantos” sono un quadro quasi completo delle modalità
e le tematiche dell’insieme. Alcuni narrativi, seppure per giustapposizioni, di
cose viste, di viaggio: il blocco della speculazione (XIV, XV), il XX sul mondo
latino e provenzale, il XXII a Gibilterra. Altri sono evocativi. Altri di
attualità o polemica, letteraria, economica, politica.
Come poi Joyce, anche Pound inizia e fa
il viaggio con Ulisse. Ma in una “prospettiva democratica”: non si consola
dell’eroe (martire) dell’assenza, o dell’impossibilità di essere, ma gli
rimprovera l’egoismo. Un po’ ovunque e poi nel canto XX: Ulisse ha vissuto
allegramente, con Circe, con le Sirene, con Calipso, a Itaca, sacrificando i
suoi compagni - “cosa fu dato a loro? cera per gli orecchi”, e il “mare
spumeggiante” per bara.
Quello di Ulisse è peraltro qui,
propriamente, non il viaggio del ritorno comunemente inteso, o la nostalgia di
casa, ma un girovagare a caso, ai venti e all’avventura. Senza nemmeno la casa
come complesso di colpa, quale è nell’originale. Ulisse-Pound non è un eroe.
Nemmeno un avventuriero. È uno che sempre si sorprende agli avvenimenti: che
siano sorprendenti, e non canonici (etici, regolamentari, come li voleva
l’invadente scientismo, scontati).
Su tutto Pound mette all’opera, con
risultati alterni, la potenza evocativa del mito, del mistero della storia.
Attraverso la letteratura, la storia di storie – un’anticipazione della
categoria del postmoderno? Una fatica erculea, una fuga continua da sé e dal
mondo, di un poeta che pure vi è immerso
senza scampo, e anzi con gusto. Da qui il sostrato “dantesco” dell’opera, per
ogni altro aspetto lontana dalla “Commedia”. Il viaggio di Ulisse è il
paradigma ritornante e la sola cornice possibile di questo vagare,
dell’inquietudine. Che si sostanzia di immagini, irrelate, in attesa di un filo
conduttore, che il lettore è abilitato a dipanare. Soldati sui gradini della
Dogana a Venezia vedono il Cid che cavalca fino a Bruges. Mentre So-shu, sguazzando
per il mare, incotra Elena, “flessuosa figlia di Oceano”, un ex galeotto “ricercato in Toscana per
omicidio”, Dioniso che viene rapito dai pirati, e turbe di linci, leopardi,
pantere. Pound è incomprensibile, e tuttavia leggibile, se solo subentra lo
scarto, il guizzo, e il “ponentino”.
Un
giornale di bordo
I “Cantos” sono come il giornale di bordo
della nave-Pound, nel mare della storia e della letteratura. Dove gli eventi
insorgono e non si costruiscono. Fra le tante letterature di viaggio è la forma
che meglio si attaglia all’opera. In uno spazio dalle coordinate non euclidee,
il passato s’intreccia col presente, la lirica con la storia, il quietismo “orientale”
con l’attivismo, la passione con la ricerca,. Senza mai fare il punto, perché
non si va a una meta, solo si viaggia nella meraviglia. Ogni “Canto” altrimenti
resta un guazzabuglio, dove il lettore viene mosso col passo della pernice, asimmetrico,
asintotico. Staticamente è un magazzino di robivecchi, un carico alla rinfusa. Il
poeta-comandante è distaccato ma non spersonalizzato. Nella freddezza del
giornale di bordo trova anzi l’identificazione col passato che intende rivivere
e altrimenti non può, sarebbe un artificio, e quel presente che vorrebbe
plasmare, rivoluzionario radicale, se non totalitario. Sapendo – è il suo tema
forse più complesso – che “la trasmissione del sapere di lingua in lingua, di
età in età”, sintetizza Bacigalupo la fruizione dei classici, è “avventurosa”
(342). Bacigalupo, “conterraneo” di Pound sul mare di Rapallo, ne è come il
mozzo, non distratto, che da lontano vede meglio.
La poesia del
“cieco” Omero è visuale. Quella di Shakespeare immaginifica, quella di
Rimbaud musicale, e di Verlaine
naturalmente, quella di Dante realistica, e così via – di Celan filologica, la
lingua della madre che ha rifiutato il figlio, di Eliot mentale, di Baudelaire
sensuale. Quella di Pound è storica e letteraria, libresca. Pound è una di
quelle esistenze sopravissute al Novecento calandosi nella letteratura – altri
casi si possono dire Yeats, il secondo Joyce, quello già quasi cieco
dell’“Ulisse” e dei “Finnegan’s Wake”, e Borges.
La “grande
memoria” di Yeats, di cui Pound fu assiduo e quasi segretario, è la chiave dei
“Cantos”: memoria familiare, tribale, etnica – storica. Del poeta letterato, la
cui occupazione di vita era cioè la letteratura. Con l’uso perfino antiveggente
del mito. Al modo elaborato dallo stesso Yeats in uno degli ultimi
sonetti, “Leda e il cigno”: anticipare
nel mito la realtà. Pound usa molto la mescolanza dei miti che trova o si
costruisce, in Provenza, in Italia e in Cina, in Dante e nei trovatori, laici e
religiosi, cristiani e greci, con centauri, minotauri, santi, vergini. E una
sorta di diacronia storica, o dei fatti. Che annulla il tempo e lo spazio nella
visione, nel viaggio mentale, immaginifico. In particolare, è immerso
nell’atemporalità del mito, cui assimila il fatto storico e quello di cronaca,.
Secondo il meccanismo di Yeats, “Leda e il cigno”. O di Dante Gabriel Rossetti,
che raccontando di Elena prevede che Paride s’innamorerà di lei, non solo, ma
che Troia sarà per questo bruciata, anzi sta bruciando – il ritornello è “Oh,
città di Troia”\“l’alta Troia è in fiamme”.. È una forma perspicua di realismo,
molto idealista.
Il
ciclone Whitman in Europa
Il precedente maggiore che non si
considera è però di Whitman, vita libera e imprese, tono tempestoso incluso.
Del poema che si arricchisce via via, come un bozzone, in costante rifacimento,
Con lo stesso titolo. I “Cantos” hanno una unità costruttiva e una realtà – di
riferimenti al di fuori di essi. Di tono costantemente epico, se epica è la
carne della poesia – o lo è il sale?
L’autore è in entrambi personaggio, Whitman e Pound. Personaggio
plurale. In dialogo costante col lettore – una sorta di pre-interattività
elettronica. Impresi a rinnovare la lingua, l’inglese americano nel caso di
Whitman, l’inglese inglese in quello di Pound, vortice sovversivo nella tradizionalissima
Londra proto novecentesca – “la fortuna di MacMillan è «The Golden Treasury»”, l’antologia
vittoriana della poesia – Macmillan l’editore più grande.
Pound è dunque anche “europeo”, un
innesto dell’America nella spenta Europa negli anni delle “avanguardie” – una
forma di emigrazione inversa, cosa rara. Un innesto fertile, specie
sull’inglese, di cui rinnovò la lingua, gli stilemi, le finiture (T.S.Eliot e
Joyce sopra a tutti). Fu avanguardista al modo europeo, organizzato,
programmatico, che in America non usa, non è avvenuto neppure con la frattura beat. E forse – la cosa andrebbe
scandagliata – bisogna imputare a questa anglicizzazione surrettizia la “follia”
di erigere a eroe Mussolini nella guerra degli Usa: gli inglesi sempre si
trovano sportivamente un avversario degno in guerra nel fronte avverso, e anche
un eroe, Rommel nell’ultima guerra mondiale, il capitano di Emden nella prima,
Napoleone, Giovanna d’Arco.
Ma non con
spirito combattente, con animo anzi gentile. I trovatori sono ancestralità
sempre viva per Pound, a partire da “A walking tour in Southern France”, il suo
unico libro di viaggio e una delle sue prime elaborazione costruite, a fine di
pubblicazione - “la «Provincia deserta», patria ideale di P.” (350). Nel saggio “On Love” Alfred Orage ipotizza il “catalizzatore
d’amore” nella figura del trovatore. È un saggio del 1932, tardo quindi per
Pound, ma la figura ancora gli si attaglia: Pound non ha cessato di essere, da
prima ancora che diventasse poeta in proprio, e poi nella tormentata esperienza
di vita, un “catalizzatore d’amore”. Nella vita reale. Nei confronti di amici e
conoscenti. Mentre nella propria viveva nella letteratura – ma anche amici e
conoscenti privilegiava nella letteratura. Una vita cortese tra le tempeste del
Novecento.
Ezra Pound, a cura di Massimo
Bacigalupo, XXX Cantos, Guanda, pp.
380 € 28