Sono,
benché entrambi milanesi, due mondi diversi. E il migliore non è quello che si
pretende tale – occupa le prime della Sala, ma se le fa pagare dallo Stato. È
la superiorità del capitalismo familiare, almeno in Italia, su quello di
mercato. Sempre o incapace o truffaldino. È l’ennesima prova che il “salotto
buono” o “galassia” Mediobanca è solo una cordata di potere: tutte le aziende
alle quali Mediobanca ha imposto il suo salotto sono andate in fallimento o
l’hanno rischiato, Montedison, Fiat, Pirelli-Continental, Olivetti, Gemina-Hdp (Valentino, Marzotto,
etc.), Telecom, Fonsai. Rcs, il maggiore gruppo editoriale italiano qualche anno fa, non
fa che espellere personale, chiudere testate e pagare debiti. Anche ora che
procede all’aumento monstre di
capitale, lo fa bofonchiando, per la mancanza di un vero piano industriale, ma
senza mai esporre una critica o un’idea. Come una cupola.
sabato 18 maggio 2013
Brilla Mediaset, la Rcs è una cupola stanca
Mediaset
record nella settimana delle trimestrali e dei piani anticrisi, Rcs sempre in
affanno, con una ricapitalizzazione indigesta ai più, e un piano di soli tagli.
In una settimana micidiale apparentemente per Mediaset, con la condanna annunciata di
Berlusconi a sei anni, in aggiunta ai quattro che ha già avuto. E non è tutto: Mediaset
record nel 2013 di Piazza Affari, più 50 per cento, Rcs record negativo, meno
50 per cento. Pur operando sullo stesso mercato la pubblicità. Che si è contratta del 25 per cento, dai 9,3 miliardi del 2010 ai 7 in previsione quest'ano. Ma è affrontata con ristrutturazioni antitetiche: Mediaset non licenzia nessuno e non scarica
nessuno sullo Stato e gli enti previdenziali con i prepensionamenti.
L’Italia fuori dal mercato globale
Trentamila
giovani italiani di nuova residenza in Germania, iscritti negli ultimi due
anni, probabilmente il doppio includendo chi non ha (ancora) optato per
l’iscrizione all’anagrafe tedesca, è una cifra elevata? Lo è. è anzi un caso
unico fra i paesi industrializzati, trattandosi di emigrati giovani con titolo
di studio. Punta visibile dell’iceberg disoccupazione-inoccupazione giovanile
dei trentenni. Di cui la disoccupazione-inoccupazione intellettuale è un terzo,
una percentuale elevatissima.
Gli Usa,
che pure avrebbero il record della disoccupazione giovanile, hanno praticamente
la piena occupazione fra i giovani “graduate” – i disoccupati i questa
categoria sono fisiologici, non più del 3 per cento. L’Italia d’altra parte non
ha un numero eccessivo di diplomati e laureati, ne ha anzi in proporzione
inferiore a quelle dei maggiori paesi europei. L’alto numero di inoccupati
diplomati è ritenuto indice della mancata specializzazione dell’Italia nella
globalizzazione, per difetto di investimenti e\o di opportunità. I paesi
industriali avanzati si sono ricollocati nel mercato globale puntando sui
servizi qualificati e le produzione medio alte, per qualità e tecnologia.
La globalizzazione colpisce gli Usa
Gli Usa
sono passati in dodici anni dalla più alta percentuale d’impiego dei giovani
25-34nni, segno degli effetti benefici della globalizzazione, alla più bassa
tra i paesi Ocse. Il dato è comunicato dal dipartimento Usa del Lavoro, nel
quadro di una revisione dei presupposti strategici, e della divisione
internazionale del lavoro, che stava alla base della stessa globalizzazione realizzata
negli anni 1980.
La
disoccupazione giovanile, dei 25-34nni, nei paesi industriali, non vedrebbe al
primo posto l’Italia. Nel 2011, l’anno più recente per il quale esistono
statistiche comparabili, il record spettava agli Usa, con il 26,6 per cento
della forza lavoro totale per quelle classi di età, mentre l’Europa seguiva a
distanza, con un 22,6 per cento in media. Con un incremento abnorme rispetto a
dodici anni prima: nel 2000 gli Usa avevano il record dell’occupazione
giovanile tra i paesi Ocse. Benché, negli stessi anni, i giovani 25-34nni abbiano
relativamente peggiorato le loro retribuzioni medie, sempre secondo il
dipartimento del Lavoro.
I
25-34nni sono la sola classe d’età che ha peggiorato occupazione e retribuzioni
nel dodicennio. Ma il segno è ritenuto preoccupante: l’indizio che la
globalizzazione comincia a incidere anche sulle lavorazioni “intermedie”, di
qualità e tecnologia medio-medio alte. La Cina,
che è metà del mercato globale, si sta riposizionando rapidamente, nelle
produzioni e nelle acquisizioni, di tecnologie, marchi, mercati.
Céline fa pratica di sfruttamento e disoccupazione
Un complemento di lettura
indispensabile, per céliniani e non. È la raccolta, riunita per la prima volta
venti anni fa, e unicamente in italiano, dei testi sociali di Cèline, in
materia di lavoro e salute. Redatti in qualità di esperto dei servizi sanitari
della Società delle Nazioni (la futura Organizzazione Mondiale della Sanità,
nei cui archivi sono stai reperiti) e di animatore del dispensario medico di
Clichy a Parigi. I primi tre, del 1925, riguardano le condizioni sanitarie in
Usa in Luisiana, alla Ford di Detroit, e alla Westinghouse di Pittsburgh. Gli
altri due sono “Le assicurazioni sociali e una politica economica della salute
pubblica”, 1927, “Per stroncare la disoccupazione stroncheranno i
disoccupati?”, 1933.
Un Ur-Céline che ha già la verve dello scrittore, ma mostra radici
insospettate: lo scrittore intemperante spumeggiante s’innesta su dieci anni di
esperienze in vario modo estreme – più per un letterato, seppure in petto, per natura e vocazione alieno
alla dura realtà.
Louis Ferdinand Céline, I sotto uomini, Shakespeare and Company, pp. 155. ril. pp. vv.
venerdì 17 maggio 2013
La mafia matriarca
Due memorie
di pentiti, figlia e padre (queste raccolte da Ombretta Ingrascì), che sono in realtà
un monumento a una donna non pentita, Maria Serraino, nonna e madre. Entrambe
sottolineano il fascino del padre, benché piccoletto e provinciale a Milano,
pieno quindi di mogli e amanti, con quattro figli da quattro madri diverse, ma
l’eroe non è lui, è la matriarca Maria, sua madre, che la famiglia ha
trasportato dalla Calabria a Milano. Per presto “impossessarsi” di piazza
Prealpi, dove casualmente abita, in una casa popolare, facendone “il suo
feudo”. Col commercio della droga. Malgrado i tanti figli e nipoti morti di
overdose. E da dove a suo modo dirige la guerra di mafia forse più cruenta, tra
i Serraino e i De Stefano-Libri a Reggio Calabria.
Semplice e
sensazionale: una casalinga padrona di Milano, o una calabrese. Originale per questo,
rispetto ai tanti libri di mafia - lo stereotipo della donna del Sud è sempre
invadente. Fra le tante apologie di mafia sugli scaffali è senz’altro la più action
movie ma anche la più “umana”, con la rispettabile Inghilterra, madre
giudiziosa, sullo sfondo, e gli amori irrefrenabili, specie quello
filiale-paterno.
Contrariamente alla presentazione, quello di
Marisa Merico non è un romanzo, è un sorta di “inno alla gioia” mafioso.
Altrettanto quanto le confessioni di suo padre Emilio Di Giovine, mafioso
stanco, come la sorella Rita, sono dolenti. Marisa è la figlia di primo letto
di Emilio, con una giovane inglese di buona famiglia. Cresce col padre fino a
diventarne la “delfina”, la sostituta nei suoi lunghi periodi di carcerazione.
Ma non tanto da non tirarsene fuori a tempo. O è un romanzo-verità, di sostanze
(fatti, personaggi) dure, senza la leggerezza della fantasia che allevia pure l’horror,
non rituali. Maria Serraino, qui sempre la Nonna, con rispetto, con affetto, fu
a suo modo un’imprenditrice di grande successo. Spietata quanto ogni altro
imprenditore di successo. Per l’autrice, quella del padre e della nonna fu “una scuola privata”. Lo avverte quando, al carcere duro in
Inghilterra a 24 anni, madre di una figlia di pochi mesi, si scopre combattiva.
Una che non molla, tra regolamenti severissimi e compagne di mensa e di doccia
cattivissime (pluriomicide, serial killer, assassine di bambini, anche dei
propri figli). In questa scuola privata, si rende conto, “dovevi essere forte”.
E così pure si scopre alla fortuita liberazione pochi anni dopo: “Ero stata stoica
e forte, e decisi di restare tale per sopravvivere all’esterno”. Diventando
scrittrice, di successo.
Nell’originale inglese Marisa è una
“mafia princess”. Non a torto, a parte le foto lusinghiere a colori di cui
adorna il libro. È una mafia vera, la sua, intenta al business, che è la vera sostanza della ‘ndrangheta, come della
mafia e della camorra - senza cioè le ridicole iniziazioni, i rituali, i giuramenti
che fanno la gioia dei giudici e dei giornalisti, supremo diletto sembra dare questa
ermeneutica povera. Affari, condotti con serietà, con semplicità, seppure col
kalashnikov a portata di mano. E poi col pentimento. Marisa altrettanto
determinata della nonna Maria, e sempre senza rimorsi. Anche se, certo, da
poliglotta cosmopolita.
Più di tutto, in fatto di generi, il “romanzo” di Marisa Merico sembra un memoriale, una narrazione partorita da un avvocato. Con l’amore
paterno assorbente, del padre e della nonna, della famiglia, come attenuante.
Per più indizi non convincente: la droga transita da un porto di Gioia Tauro
che ancora non esisteva, si fanno lunghi viaggi in quattro e con un carico di
contrabbando nella vecchia 500, l’ortografia è sbagliata, nell’originale, di
quasi tutti i termini italiani. E tuttavia è una forte storia, della Milano
vera, della famiglia in Calabria e, sorprendentemente, senza eccessi, della
vita carceraria.
Marisa Merico, L’intoccabile, Sperling & Kupfer, pp, 271 € 18
Ombretta Ingrascì, Confessioni di un padre, Melampo, pp. 185 € 13
La vera Dc è ovunque
Da
ultimo presidiano la “questione morale”: come assolversi e gloriarsi dannando
gli altri. Luigi Zanda ne fa professione in Parlamento, lui che, da segretario
di Cossiga, il capo di Gladio, un presidente della Repubblica che rischiò
l’incriminazione per attentato alla sicurezza dello Stato, avrebbe dovuto
meglio nascondersi. Dalla presidenza della Camera Laura Boldrini occupa
quotidianamente la sinistra con le sue esclusioni, progenie di nobile e potente
famiglia democristiana, giornalista suo malgrado in gioventù alla Rai, e poi
diplomatica dell’Onu, pronubo Andreotti nelle vesti di ministro degli Esteri. Mentre
dalla presidenza del Csm Vietti si assicura che nulla succeda (intercettazioni?
carcerazioni? processi?), che la questione morale segua il suo corso, punendo i
nemici. Senza contare i fuori ruolo che ogni giorno ci fanno lezione di morale:
Zagrebelsky etc.. E Letta naturalmente, a cui non si può però muovere appunto: il
presidente del consiglio fa il mestiere per il quale si è candidato, da
democristiano dichiarato, senza nascondersi.
Parlano
loro per evitare che si esponga la pancia dell’Eterno Partito, Bazoli,
Montezemolo, la Fiat, De Benedetti, Bagnasco, le banche, la Confindustria,
“Milano”. Meglio, loro parlano perché i media della pancia ci possano fare la
cresta, il “Corriere della sera”, “la Repubblica”, “la Stampa”, “Il Sole 24 Ore”.
Meglio se con commentatori laici, non
professi.
Il
partito neo guelfo ha fatto flop. Doveva essere Monti, sembrava fatta. E invece
Monti è finito per quello che è stato, un manichino. In forma di economista,
curato, forbito, poliglotta, e incapace. Ma l’Italia è saldamente presidiata, Napolitano
è molto fuori posto da un mesetto.
giovedì 16 maggio 2013
Quando l’Italia (non) cacciò gli intercettatori
Immaginiamo
che in Italia ci sia una forte presenza di neri. È possibile, c’è già e cresce.
E che un nero, giovane, magro, diventi capo del governo. È possibile anche
questo, l’Italia è aperta a ogni soluzione: ha già votato Grillo – anche se
Grillo non è più giovane né bello. È però certo che il presidente nero italiano,
per quanto innovativo cioè e coraggioso, ovviamente democratico, non caccerà
mai i suoi giudici o agenti delle tasse perché intercettano la destra, anche
nel bagno, e la angariano – mentre perdonano
le malefatte piccole e grandi dei democratici in cui per caso si
imbattono. Quello che ha fatto, “senza ambage”, l’analogo americano.
Si dice:
l’Italia non è l’America. E perché no, anche lì c’è corruzione, ma fino a un
certo punto. Si dice: la destra italiana è cialtrona. E che vuol dire,
che bisogna angariare i cialtroni? Si dice: ma Obama reagisce perché
altrimenti perde i voti. E in Italia, il partito Democratico non li perde, pagando
le colpe dei suoi giudici sbirri, senza reagire? No, la differenza è l’onestà:
ci sono alcuni che proprio non sanno concepire il valore dell’onestà. Dicono
che è una cosa di destra, che conta l’immagine (la propaganda), e che tutti gli
animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri.
Ci
vorrebbe dunque un Orwell per esorcizzare l’Italia, quello degli animali? Ma l’Italia è un animale, una cosa viva?
Etichette:
Lettera,
Ombre,
Sinistra sinistra
L’Autore Ignoto, farsesco e tragico
Sono i giorni del Diciotto in cui Trieste
diventa italiana. Un amico-nemico dell’Autore Ignoto decide lì per lì di
avergli trovato un editore, il più importante di Vienna, la capitale appena
perduta. È l’apoteosi e la rovina – un falso assegno, un debito vero, bastano
poche righe allo Svevo uomo di finanza per tradurre la farsa in tragedia (ma c’è il lieto fine).
È la favola dell’Autore Ignoto, un apologo
piuttosto. Ironico, sarcastico, autobiografico – Svevo va per i sessanta ed è anche lui autore ignoto. Gabriella Contini, la curatrice
della raccolta dei “Racconti”, classifica la burla sotto la sezione “L’autobiografia
travestita”, unico della sezione. Svevo Autore Ignoto, al tempo di Fogazzaro e De Amicis, si traveste da specialista di passeri, come
gli uccellini guardingo ma non protetto, stratega a nessun fine, libertario
volentieri in trappola. Si sa da subito che la storia è amara ma si ride – il double talk-double standard di Svevo è
al meglio, qui come in ogni riferimento personale. Note non invadenti situano
questa edizioncina separata del racconto nell’opera sveviana.
Italo Svevo, Una burla riuscita, Robin, pp. 114 € 5
mercoledì 15 maggio 2013
Ombre - 176
Piero Boitani lamenta su “Repubblica”
che l’Italia premi, laurei e aduli Soros come filantropo, uno speculatore che
all’Italia ha fatto molto male. Ci voleva un
professore per dirlo, nessun giornalista se n’era accorto, solo cronache
lusinghiere. Ma Soros, almeno, li paga?
O la filantropia è italiana nei confronti di Soros? Di giornali, università, premi letterari, tutti indigenti?
Vedere, seppure su una televisione berlusconiana, un commissario di polizia che conosce le procedure meglio di un giudice, oltre a essere più intelligente, fa impressione. A quando un processino alla Iafrate?
O la filantropia è italiana nei confronti di Soros? Di giornali, università, premi letterari, tutti indigenti?
Boitani “Repubblica” confina alle
letterine. In effetti, bisogna dire che il professore non è cerimonioso, “visto che il sottoscritto, come molti altri, si videro
le rate del mutuo aumentare di diversi milioni di lire grazie alla sua
speculazione”, di lui Soros, il filantropo: altro che premi, “considererei
legittimo, ove lo incontrassi, prenderlo a calci per il danno subito”. È troppo
per i correttissimi giornali italiani (si può parlare male solo di Berlusconi).
O c’è la massoneria?
Certo che c’è , cioè non c’è.
Paolo Di Stefano si scandalizza
sul “Corriere della sera” che qualcuno possa rimproverare alla giudice
Boccassini il razzismo esercitato in Tribunale. “Il discrimine tra chiacchiere
da bar e dichiarazioni ufficiali è venuto meno da anni”, argomenta. Mah! In un
certo senso ha ragione, è proprio la barbarie.
Di Stefano si scandalizza dopo aver
ricordato alla giudice, napoletana, che il suo stereotipo razzista “viene in
genere assegnato non all’Oriente ma al Meridione, dai settentrionali”. C’è sempre
qualcuno più razzista.
Nessuno
che accenni, nemmeno per caso, nemmeno il giornale e le tv di Berlusconi, alle
assurde giudici di un processo penale che non
vuole ascoltare la parte lesa. Tre giudici, non una, quindi non è un caso d’incapacità.
O la
parte lesa è Boccassini? Questo sarebbe inquietante, perché tutti la paghiamo.
Stranamente,
al processo Ruby, la Pubblica Accusa non contesta a Berlusconi la subornazione
dei testimoni. Che avrebbe potuto ottenerle una lunga condanna. Forse perché è
un reato certo?
Vedere, seppure su una televisione berlusconiana, un commissario di polizia che conosce le procedure meglio di un giudice, oltre a essere più intelligente, fa impressione. A quando un processino alla Iafrate?
Litizzetto commenta con Fazio che
Brunetta non deve lamentarsi, anche Amato e Maroni “non sono alti”. E
Litizzetto?
Ma perché Litizzetto con Fazio debbono
dirsi di sinistra, e anzi avanguardie della sinistra? Basterebbe dirli antibrunettiani
– pur non essendo molto alti.
Era il re di Prussia che voleva le sue
guardie alte “almeno sei piedi”, Federico Guglielmo. Quello del chiodo, uno che
prendeva a calci i suoi figli e le figlie.
Paola Cortellesi e Serena Dandini
attaccano Paola Ferrari nella loro pièce anti-femminicidi, “Ferite a morte”. La
conduttrice si dice offesa, Cortellesi e Dandini dicono che non è lei, la
“conduttrice bionda” che il marito assassino amava della “Domenica Sportiva”
etc. … Ora, si può essere ipocriti, ma perché di sinistra?
Bob Dylan, che ha cantato per il papa
Giovanni Paolo II, per la Francia repubblicana è “pacifista e drogato”, non
meritevole della Legion d’Onore. La cultura (non) è laica?
È per questo che il presidente (radical)socialista Hollande vuole in Francia una nuova materia di studio, l’etica laica?
È per questo che il presidente (radical)socialista Hollande vuole in Francia una nuova materia di studio, l’etica laica?
Il primo riferimento che viene in mente
al conduttore di Sky Tg, quando gli fanno leggere che è morto Andreotti, è che
“aveva collegamenti con la mafia”. Il Tg 1 della Rai, un’ora dopo, non ne sa
dire niente, giusto quattro parole in sovrimpressione, “è morto Giulio Andreotti”,
scritte magari da qualche redattore anziano. È l’effetto dell’abolizione della
storia a scuola?
Etichette:
Informazione,
Ombre,
Sinistra sinistra
Il poeta è felice senza il Partito
L’unica cosa che rimane del poeta? “Sento a tal punto la mia libertà che non sono
più padrone di me stesso”. Poi vivrà nella bugia, e nell’opportunismo.
Testimone di molte infamie, per esempio dell’assassinio, a suo dire, di Gor’kij.
E di alcune anche autore, a carico per esempio di Kravchenko, l’autore nel 1948
di “Ho scelto la libertà”, la prima testimonianza del gulag, che poi, persa la
causa intentata da Aragon si suicidò (al
processo Roger Garaudy, filosofo cattolico e comunista, assolse i campi con l’autorità di Giovanna d’Arco, Lacordaire,
Carlo V e Renan, il tribunale di Parigi non credette a Margarete Buber Neumann,
che era stata in un campo in Kazachstan “grande due volte la Danimarca ”, sentenziando
non potersi dire un campo “se non è cinto da mura”). E tuttavia stalinista, anche alla memoria. Marcato stretto da Elsa Triolet, l’inflessibile musa sovietica.
Qui Aragon è giovane alla conquista di Parigi. L’originale
significa specificamente contadino, Paolo Caruso ne ha però ben tradotto il
senso con “paesano”, provinciale. Reduce dagli smanettamenti adolescenziali con tipi pericolosi,
Montherlant, Drieu (“Guy”, “Aurélien” di
altre sue narrazioni) e E.E.Cummings. Poi s’innamorerà del Partito, nelle vesti
della musa venuta da Mosca. Sarà il “fou
d’Elsa” - ma già ambiguo “con d’Irène”,
con un apertissimo infine “il n’y a pas d’amour heureux”, non c’è amore
felice, il verso per cui è celebre. “Il paesano” è il libro di come uno
scrittore, una vita e una storia avrebbero potuto essere, non fosse stato per l’ideologia
e l’opportunismo. Un’esistenza nella quale l’idea di piacere trova poco posto,
riempita dal piacere stesso, “giovane di ogni bellezza” che a lungo manterrà
“il sentimento del meraviglioso quotidiano”, da tutto “distratto, eccetto che
dalla distrazione”.
La
vita da un certo punto di vista Aragon non la sbagliò: il “figlio della nonna”,
rifiutato dai genitori, si rifece nel Partito con gli onori e una sontuosa
dimora con annessa proprietà a Saint-Arnoult, che Elsa governava. Ma era una
maschera. A maggio del ’68 si lasciava così presentare da Cohn-Bendit:
“Silenzio compagni, parla un traditore”. Detesto la curiosità, aggiungerà in “Mentir-vrai”,
che non si traduce, non mi diverte, detesto la stupidità. Si detestava, forse,
infine. Ma non è solo, censure e autocensure hanno reso malagevole al realista
contemporaneo, al testimone, di dire la verità. Lui lo sosterrà, sempre
convinto: “I realisti dell’avvenire dovranno sempre più mentire per dire la
verità”. Ci vuole disonestà per il genio, è il limite della virtù.
Aragon, Il paesano di Parigi, Est,
pp. 200 € 2,79 (remainders)
martedì 14 maggio 2013
L’opera aperta a mattone
Cinquant’anni fa Eco esordiva col botto
con queste opera subito celebre. Ma che voleva dire? A parte sproloquiare – lui sembra divertirsi.
Un mattone di parole.
Umberto Eco, Opera aperta
Umberto Eco, Opera aperta
Il mondo com'è (136)
astolfo
Eugenetica - Nel 1924 la nuova legge Usa sull’immigrazione puntò esplicita e radicale a garantire il carattere nord europeo, più specificamente “sassone”, della popolazione. Basandosi su “The Passing of the Great Race”, dell’ambientalista e eugenetista Madison Grant, 1916, sottotitolo “The racial basis of European History”: una teoria del razzismo che poneva a base dell’antropologia e della storia. Celebrativa di una “razza nordica”, un raggruppamento antropologico-culturale poco definito ma centrato sulla Scandinavia e l’antico tedesco. Era questo il fulcro, argomentava Grant, un avvocato, dello sviluppo umano.
Comunismo – Non crolla le fede, malgrado le sconfitte: la certezza
della buona causa, che sola è stata sconfitta.
Senza demerito. La fede nel comunismo “realizzato”, sovietico. Si dice per la
negazione della realtà che la fede comporta,
delle condizioni pratiche del vivere e dell’agire politico, compreso tra esse,
più che per una norma etica, il rispetto della vita, almeno di quella umana. Ma
di più incide il culto del capo, sotterraneo, subliminale, inavvertito.
Potentissimo. Specialmente visibile nell’arte funeralizia, altrimenti inspiegabile
per non devoti e non credenti, quali i comunisti si supporrebbero. Si dice: per
il rispetto dovuto all’onestà, all’integrità. Ma molti comunisti muoiono di cui
non si sa nulla. No, è proprio il culto del Capo, dell’Immagine, della Guida.
Eugenetica - Nel 1924 la nuova legge Usa sull’immigrazione puntò esplicita e radicale a garantire il carattere nord europeo, più specificamente “sassone”, della popolazione. Basandosi su “The Passing of the Great Race”, dell’ambientalista e eugenetista Madison Grant, 1916, sottotitolo “The racial basis of European History”: una teoria del razzismo che poneva a base dell’antropologia e della storia. Celebrativa di una “razza nordica”, un raggruppamento antropologico-culturale poco definito ma centrato sulla Scandinavia e l’antico tedesco. Era questo il fulcro, argomentava Grant, un avvocato, dello sviluppo umano.
Grant era un avvocato, ma le sue argomentazioni si
pretendevano scientifiche, e come tali ebbero successo, di pubblico e politico,
nel Congresso che doveva ridefinire la politica dell’immigrazione. Eugenetista,
Grant predicava anche la limitazione dei matrimoni “inter-razziali”, e la
seprazione-eliminazione dei “tipi razziali senza valore”.
Il Johnson-Reed Act, la nuova legge Usa, escluse ogni
immigrazione dall’Asia (l’Africa non era nemmeno presa in considerazione) e
limitò fortemente l’immigrazione dal Sud e dall’Est Europa, con un sistema di
quote basato sull’origine della popolazione naturalizzata nel 1890. A quella
data l’immigrazione dal Nord Europa rappresentava l’80 per cento del totale.
Così gli italiani, che erano arrivati in gran numero successivamente, in media
200 mila l’anno nei dieci anni dopo il 1900, ebbero la quota annua di nuova
immigrazione limitata a 4 mila. Mentre la quota annua per i tedeschi era di 57
mila. L’86 per cento dei nuovi arrivi era riservato ai paesi europei “nordici”,
con le quote più alte per la Germania, la Gran Bretagna e l’Irlanda. Le quote
per l’Italia e gli altri paesi europei erano così restrittive che il saldo
netto fu nello stesso 1924 e successivamente negativo: più italiani lasciavano
gli Usa di quanti vi entravano.
Dieci ani dopo il Johnson-Reed Act,
il programma di eugenetica fu adottato da Hitler. Un programma intensivo di
sterilizzazione di donne affette o portatrici di “stupidità ereditaria” fu
messo in opera, per un numero complessivo di donne sterilizzate non inferiore a
mezzo milione, e secondo alcune stime vicino ai due milioni. Il numero delle
sterilizzazione viene derivato in rapporto ai decessi di donne giovani – la
sterilizzazione aveva un’elevata incidentalità mortale. La ricerca di Gisela
Bock, “Zwangssterilisation im Nationalsozialismus”, cita questionari bizzarri
per la rilevazione della “stupidità ereditaria”. Del tipo: “Dove e di che cosa
vive l’airone africano”.
Fiorentino – Molto in uso in Francia, benché non catalogato dal
Robert, nel senso di “machiavellico”. Forse in ricordo di Caterina dei Medici,
di cui la Francia non ha ancora digerito che l’abbia salvata. In quanto Stato:
monarchia, continuità, unità. E vorrebbe liquidare come una intrigante.
L’uso più diffuso del termine fu in
connessione con Mitterrmnd, che lo usava e ne fu ritenuto specialista. Di lui
Emmnuel Carrère riferisce incidentalmente come, “principe degli spiriti
sottili, spingendo il machiavellismo fino alla stupidità”, si affrettò a
riconoscere il colpo di Stato tentato contro Gorbaciov in vacanza in Crimea nel
1991 da quattro vecchi e balordi generali di cui nessuno ricorda più il nome –
un golpe di cui lo stesso Gorbaciov non si accorse.
Internet – È fiction. È il dilagare della fiction, in tutte le sue forme, dall’autofiction delirante a quella
complottistica.
Si
porta “The Huffington Post” a riprova che l’informazione online paga, è già un
business. È l’unico caso – era, adesso si vede meno. Tuttavia ragguardevole, indubbiamente:
il più influente blog americano, anzi un giornale online molto citato e perfino
rispettato. Con alcuni accorgimenti.
Il
giornale si centrava su Arianna Huffington, di cui la domenica col commento si
mostrava la fotina. Giovane e wasp, mentre era una signora sessantenne e molto
greca, Arianna Stassinopulos. Il che non vuol dire nulla, è molto bello essere
greci, se non che il blog più citato cheats
a sua volta, bara, un pochino. È così: il blog per essere rispettato deve barare,
si conviene che le spari grosse.
Moltiplicando
e dividendolo “The Huffington Post” altre fotine sono state aggiunte all’edizione
italiana e francese, Lucia Annunziata e Anne Sinclair, l’ex moglie di
Strauss-Kahn, ma non hanno funzionato – per difetto di glamour? perché di loro
si sa tutto.
Arianna
risultava fondatrice e direttrice di “The Huffington Post”. Da giovane s’era
fatto un certo nome con una biografia della Callas. Poi si era fermata a un “On
Becoming Fearless....in Love, Work and Life”, il tipico manuale americano della
felicità. L’aveva scritto dopo l’incontro, il matrimonio e gli alimenti di
Michael Huffington, petroliere texano, candidato sfortunato per la destra
repubblicana al Senato federale Usa, sposato nel 1987 e divorziato con
ricchissima liquidazione dieci anni dopo.
Tutto
ciò è molto più interessante dell’Arianna ossigenata della fotina, ma Internet
ama mentire. Non proprio mentire, scantonare: non ha come scopo la verità.
La
fama è durata fino a che “The Huffington Post” non è stato venduto, per 315
milioni di dollari. Veri. Fare 300 milioni in cinque anni, ammesso che 15 diano
serviti a pagare i collaboratori, al netto delle entrate pubblicitarie, questo
però è un “vecchio” miracolo.
Nazibolscevismo – In Germania fu
ampio e duraturo – il sinistra-destra, o nazionalbolscevismo, la destra
specchio (concorrente) della sinistra. Hitler, secondo gli ultimi studi di
Nolte, si ispirò nella costruzione del nazismo all’esperienza sovietica: di un
movimento capace di suscitare fede e entusiasmo con l’intransigenza e la determinazione,
uguaglianza considerando non un livello di ricchezza ma l’uniformità delle
opportunità. Ma, contrariamente a quanto
asserisce Nolte, fu Hitler per primo a imporre l’uniformità del gruppo
dirigente, liquidando i paracomunisti del nazismo poco dopo la sua presa del
potere, Röhm e Gregor Strasser, due anni prima delle grandi purghe
staliniane.
Per
un paio d’anni nel primo dopoguerra, la Germania più che l’Italia fu sul punto
di basculare verso il comunismo. Ma più per la propensione ugualitarista
dell’estrema destra che per la forza dei socialisti sovietizzanti. Il Primo
Maggio 1919 la tensione era alta in Germania, l’attesa era per la proclamazione
a Berlino di una Repubblica Internazionale dei Soviet. Nel 1920 vi furono
proposte in Germania e tentativi di legarsi all’Armata Rossa, che incombeva al
confine della Prussia Orientale e alle porte di Varsavia, per annientare la
Polonia, che contendeva alla Germania la Slesia.
astolfo@antiit.eu
lunedì 13 maggio 2013
Letture - 137
letterautore
Aliporfuros-Oinopas
- L’omerico “mare colore
del vino” è questione sempre aperta – insolubile (v. su questo sito, da ultimo,
il 17 dicembre 2012)? Se proprio è del vino che si tratta, bisogna ancora
vedere. Se è del colore del vino:
fosco, cupo, detto del mare (“pontos” in Omero). O se non è dell’aspetto del vino: spumeggiante.
“Oinos” (“oinops”) Omero dice anche dei buoi: “rossicci”, “fulvi”.
Autofinzione – È nuova e vecchia. Quella di Limonov è
quella di Henry Miller, tre generazioni prima. Solo più oltraggiosa – ma nel
linguaggio non nella cosa (il sesso è l’unica cosa che non “progredisce”).
Ha una
data di nascita precisa, metà Ottocento, con l’autobiografia. La parola. La
cosa era già nota, sotto forma di confessione, cronaca, memoria, ricordo, storia
di una vita, diario, il genere più diffuso - da ultimo diario intimo, meglio al
plurale. Meglio ancora con l’autoritratto, che deve essere curato – tagliato,
pennellato. È piuttosto l’autoritratto. Che non è
esattamente un calco dell’autobiografia
L’autobiografia è genere all’apparenza diverso: è una
ricostruzione, e ha finalità storiche o politiche, sia pure dare un’immagine
solo complessa, non direttamente adulatoria, di sé. Ma per l’autore
l’autofinzione nasce e vive in fondo nello stesso presupposto, per quanto
realistica o veritiera si proponga: è una delle forme di protagonismo dell’autore.
Le interviste, per esempio, dialoghi con se stesso, che sono
dominanti, specie in tv. Erique Vila-Matas, pur dichiarandosi contrario alle
interviste (“le mie interviste sono danaro, perché dovrei darle gratis? Il
calzolaio va in giro a regalare le sue scarpe?”), ne dà volentieri. Accrescono
il personaggio.
In una di queste Vila-Matas spiega in particolare l’autofinzione:
“L’autofinzione è un’autobiografia da guardare con sospetto”. Salvo difenderla:
“Perché dovremmo intendere l’autobiografia nel senso classico, come
riproduzione esatta dell’io”? Facile, certo, l’io essendo inabbordabile – se
non come esercizio dell’io stesso, in egotismo.
È anche fare i conti “selvaggiamente”, senza possibilità cioè di
contestazione o ritorsione, con gli altri, dalla cara mamma di tante
scrittrici, ma soprattutto di Thomas Bernhard, al mondo tutto. Thomas Bernhard
è quello che l’ha esercitata meglio nei cinque libri dei suoi primi vent’anni,
e in molti racconti. È come un’offensiva in campo aperto, senza che comprimari
o avversari possano reagire, nemmeno tenere le loro posizioni. Un po’ alla
“Memorie di un pazzo”, “Memorie dell’oltretomba”.
Belli – Il Vaticano ne
celebra i 150 della morte con i francobolli. La solita bella serie, col sonetto
“Er giorno d’er giudizzio”. L’Italia niente. Roma? Nemmeno un convegno, una
lapide, una foto gratis sui giornali per il sindaco.
Catene – Con “Tormento”
e “Estasi”, la lettura degli anni 1950, con i film omologhi di Yvonne Sanson e Amedeo
Nazzari. Tornano i titoli con Philipp Djian, “ Vendette”, “Assassini”, “Imperdonabili”. Anche le storie. In décor moderno – setting.
Francia-Italia – Prima, seconda
e terza in Francia, nella top ten dei più venduti, le “Sfumature” della signora
James. Ma un anno dopo che in Italia. È una rivoluzione del gusto?
Orwell – È tuttora
vituperato dal politicamente corretto: spia, provocatore, anarchico (è un
ingiuria), Ma, che dire di tutto questo? “Un vero bolscevico, se il partito lo
esige, è pronto a credere che il nero è bianco e il bianco è nero”. “Se nella
massa degli arresti c’è un 5 per cento di colpevoli, va bene”. “Non bisogna giustiziare
soltanto colpevoli, l’esecuzione degli innocenti impressiona di più”. Non è la “Fattoria
degli animali”. Gli autori sono, nell’ordine: Piatakov, compagno di Lenin;
Stalin; Kirilenko, ministro della Giustizia di Stalin. La satira di Orwell li approssimava
per difetto. .
Pasolini - La poesia di Penna Saba
diceva materna. Non lo avrebbe detto di Pasolini, aggressivo. La sessualità era
per lui maledetta.
Luterano
si voleva e corsa. Cioè omologato nella protesta – benché, luterano….Alla pari
di ogni altro capetto, sia pure scritturale. L’onestà no?
È prima
arcaista: lingua, usi, tradizioni, terra. Poi civile alla Pound, ma senza
l’epica (alla Allen Ginsberg): una poesia fatalmente incitatoria. Pittorico
mai, che era il suo genio. Come per un rinvio costante, o un rifiuto. Con la
psicosi stessa del rifiuto, lui che era amatissimo – rifiuto da cui eccettuava
i pochi, quelli del Pci, che sinceramente lo praticavano.
Traduzioni – Le librerie che
vendono a metà prezzo i libri in omaggio intonsi pullulano di romanzi. Intere
serie delle più rinomate case editrici. Non proprio intere, con numerosi titoli
in collana, quasi tutti romanzieri\e tradotti\e. Di cui nessuno sa nulla. Le
copie omaggio presumendosi a critici e recensori, sono questi i primi che a non
saperne nulla, evidentemente, non avendo avuto la curiosità nemmeno di discellofanare
le copertine.
La domanda sorge: perché si pubblicano questi titoli di nessuna
vitalità, a un costo di partenza elevato,
mentre le stesse case editrici fanno le difficili con romanzieri nazionali che,
benché discellofanati, però costerebbero meno, molto meno? Un romanzo tradotto,
tra diritti, agenzia, e traduzione, non costa meno di 10 mila euro, in aggiunta
ai costi redazionali e tipografici - 10
mila euro cioè in più di quanto costerebbe un romanzo discellofonato nazionale.
La risposta non c’è. Non è imperizia, poiché il flusso di queste
traduzioni inutili è costante nei decenni.
Si dice: sono titoli che gli editori devono comprare en masse per avere un titolo di sicuro
successo. Ma perché tradurli, revisionarli, impaginarli, stamparli e
distribuirli? Una teoria vuole che ci sia un mercato nero dei diritti, via
agenzia. Ma è troppo infame.
letterautore@antiit.eu
L’“eterna sinistra” di Mussolini e Hitler.
“Un giorno la questione della gerarchia
delle motivazioni di Hitler e del
nazionalsocialismo dovrà diventare un punto controverso specifico della
letteratura scientifica e la tesi della predominanza dell’antibolscevismo
potrebbe esserne il punto di partenza”. Con la consueta acribia Nolte vi ha
dedicato quindici anni fa questa riedizione, che ha appositamente curato per
l’Italia, dei suoi “Streitpunkte”, concentrandola sulla secondo parte, il
nazismo in rapporto al bolscevismo. Il sottotitolo dell’edizione italiana è
“Nazionalsocialismo, bolscevismo, questione ebraica nella storia del Novecento”. Ma dotandola anche dei due saggi finali
della prima parte, una discussione delle tesi revisioniste – e negazioniste –
dell’Olocausto (su cui era centrata l’edizione originale del 1993, gli “Streitpunkte”
richiamando lo Historikerstreit di
qualche anno prima sul nazismo “male assoluto”).
Questa prima parte ha un curioso effetto
boomerang. Si sa, si avverte, è pure inevitabile,
passato il pericolo sovietico, viene anzi detta, un’ansia corrente in Germania
di revisionare la storia della guerra e dello sterminio. Qui anche esplicitato, seppure in nota
(p.169): “Chiunque cercasse la singolarità nel crudele e nell’atroce dovrebbe
esplicitare a se stesso come solo le condizioni del dopoguerra abbiano messo
temporaneamente fuori gioco i principio del «tu quoque» o del «tu prius»”.
In chiaro: la divisione del mondo, dell’Europa e della Germania in due ha
impedito a lungo l’attribuzione delle corresponsabilità della guerra e della sue
atrocità, se non della colpa originaria – il gioco irresolubile dell’uovo e
della gallina, e dei topi tutti grigi.
In quanto storico
accurato, Nolte non teme di esporsi su questo fronte, di flirtare col
revisionismo. Il negazionismo in cui Nolte si cimenta,
compassionevole, è il più pernicioso. Sembra insidioso, ma è assurdo. Egli
stesso si costringe da un lato ad argomentare la confusione (delle autorità, delle procedure) nel
totalitarismo che contesta, dall’altra pretende una non credibile rigidezza
dell’ordinamento carcerario: “Nessun comandante dei lager poteva di sua iniziativa
comminare anche una sola pena corporale, ma doveva chiederne l’autorizzazione a
Berlino e , quando si trattava di donne, doveva essere il capo delle SS a
concedere personalmente questa autorizzazione” (p. 162). Ingenuità?
Un universo chiuso, in cui ci sono solo
la Russia, la Germania e gli ebrei - per metà russi per metà Usa, da ultimo
nella forma di Israele. A p. 177 un excursus impressionante vede soltanto la
Germania in Europa. In polemica non dichiarata con Fritz Fischer, lo storico suo
contemporaneo, che ha accertato la responsabilità decisiva della Germania nella
grande Guerra (“Assalto al potere mondiale”), e accettandone curiosamente questo presupposto, Nolte lo ribalta
in una sorta di inno trionfale: “Il Reich tedesco era la potenza europea di
gran lunga più forte e meglio organizzata”, etc., etc. E avrebbe vinto non ci
fosse stato l’intervento Usa. Avrebbe anche portato all’“unificazione dell’Europa
continentale sotto la guida del suo Stato più forte”, a una unione non imposta
e quasi benvoluta. Non fosse stato sempre per gli Usa: “L’entrata in guerra
degli Usa costituì invece il presupposto per un orientamento contro la Germania”,
etc. Da cui tutti i lutti: Versailles, il revanscismo, Hitler. L’effetto è di finire ributtati sulla prima versione del
nazismo e della sua guerra, quella della propaganda e di Norimberga.
Ciò
è vero, per questo aspetto, anche della seconda parte della
raccolta: la guerra sconsiderata all’Urss (occupare l’Urss….), è una sorta di
gigantesco harakiri, da propaganda da
quattro soldi. Una storia “nuova” (accurata, vera) si può fare solo ammettendo
la Colpa, l’unità (la follia, la vergogna) della guerra e dello sterminio.
Altrimenti ci si arrampica sugli specchi: se la Soluzione Finale non sia
piuttosto Complessiva. O Radicale. E se – sfidando il ridicolo – la morte per asfissia,
producendosi in pochi secondi, non sia più misericordiosa di quella dolorosa
per fame (magari con testimonianze a sostegno di ebrei eccellenti, come il
Nobel Brodskij, sulla morte per fame nel gulag). O se per la ferocia delle Einsatzgruppen, specializzate nelle retate
di polacchi, ebrei e russi, che poi falciavano col mitra, “i concetti più
adeguati di tutti non sono «massacro» o «assassinio», ma «reazione preventiva
esagerata», oppure «sproporzione dei mezzi»”. Per non dire della teoria che vuole
i commando omicidi una reazione alla deportazione dei tedeschi del Volga – che dopo
la guerra riapparvero com’erano.
Su questa seconda parte, però, centrale in
questa edizione, la “provocazione” di Nolte, pur scontando i diversi background e le antagonistiche finalità
di Lenin e di Hitler, è ancora utile - “Il postulato fondamentale di Hitler: un
antibolscevismo «bolscevico»”. Non è una novità storiografica. Era il punto di
vista, tra gli altri, di Hjalmar Scacht, il banchiere che salvò il marco,
lanciò il New Deal con la piena occupazione, e riarmò la Germania di Hitler, il
tutto in due anni, nel 1964. Ma sempre
si trascura che l’Unione Sovietica è stata l’Europa per quasi tutto il Novecento.
Ha pesato sulla prima guerra. Ha determinato il corso del primo dopoguerra, in Polonia,
Germania, Ungheria, Italia, Francia, Spagna e altrove. Ha deciso il corso della
seconda guerra, alleandosi a Hitler e poi sconfiggendolo a Stalingrado. Ha
determinato la storia successiva, esterna (la guerra fredda) e interna
(terrorismo) della maggior parte dei paesi europei, fino allo scudo stellare. Prima di Hitler, e durante il suo regno, nessuno dubitava che
l’Europa non stesse per diventare bolscevica, da Tampere al Po e Algeciras,
così come dopo a lungo si è scontato.
Le
lettura di Nolte è opportuna tanto più che l’Urss non c’è più: il suo crollo ha
rideterminato tutto il corso della storia europea. Dell’Unione Europea per
prima: gli squilibri non nascono dallo spread, lo spread nasce da una diversa morfologia
dell’Unione dopo la ricostituzione della Germania.
La parte più provocatoria, ancora da
sviluppare, è la più pregna: la categoria dell’“eterna sinistra”. L’inappellabile
richiamo dell’uguaglianza, suscitatore di fede indiscussa e entusiasmo. Lungo
la linea che va dalle plebi romane a Babeuf e Pol Pot. Ma senza trascurare
Mussolini, che ne soffrì la sindrome fino all’inizio della guerra, e lo stesso
Hitler. Se non che, non ultimo boomerang, la “purificazione” del mondo dagli
“inetti e parassiti” deve attribuirsi anch’essa dell’“eterna sinistra”.
Ernst Nolte, Controversie, Corbaccio, pp. 209 € 6,50 (remainders)
domenica 12 maggio 2013
I fasciocomunisti – 2
Immaginiamo
che 5 Stelle avesse avuto il 30 per cento del voto il 24 febbraio, una x più
degli altri. Con la maggioranza quindi in Parlamento. Chi avrebbe costituito il
governo? Grillo probabilmente, sarebbe toccato a lui. E come avrebbe governato?
D’autorità, con la museruola: a piacere di Grillo cioè, senza alcuna autonomia
per il “suo” partito, senza altro modo di decidere e nemmeno di esprimersi, se
non le veline del Capo. Via blog, certo, perché no. E in regime di libertà di
pensiero, certo, che c’è anche, bisogna ricordarlo, in Venezuela, in Russia e
in Cina, i media possono farsi la concorrenza.
Grillo
non ha vinto le elezioni. Ma il modo come governa il suo partito e i suoi
rappresentanti al Parlamento non lascia dubbi. Solo in un’opinione pubblica
sgangherata (furba?) come quella italiana la cosa non si dice. – non si dice questa
come le tante altre “cose” incontestabili della cronaca e dell’analisi
politica. Il modo di comunicare di Grillo è esplicito: non formula opinioni e
non chiede pareri, ma dà direttive, anche in forma di slogan. Non vuole
dibattiti. E gestisce consultazioni (“primarie”) in forma di sondaggi
addomesticati. La sua comunicazione è sempre e solo di propaganda.
Il caciquismo di Grillo
Con
Grillo anche internet mostra una sua intrinseca perversione. Non imputabile al
mezzo, che è neutro. Per ciò stesso, però, pervertibile: i totalitarismi del
Novecento hanno ampiamente capitalizzato sui media, la propaganda (il sovietismo tuttora, benché sia morto,
per l’efficacia ritardata nel tempo della pubblicistica cominternistica).
La cosa
va ripetuta perché internet ha generato un equivoco: che il mezzo fosse
democratico. Mentre in ogni sua espressione, dai forum a twitter e allo stesso
facebook, non lo è. È manovrabile, e tanto meglio in quanto si presenta
democratico, avendo cioè eliminato ogni difesa. L’egualitarismo di facciata è fortissimo, il caciquismo di Grillo non ne è nemmeno l’espressione
peggiore.
Ora, non
si può dire internet fasciocomunista. Ma è pur sempre un altoparlante. Goebbels
teorizzava il Terzo Reich all’inizio come una “anarchia autoritaria”. Mentre -
si sa ormai da tanti studi, De Felice, Nolte - perfino Mussolini, perfino Hitler
si inscrivevano nell’“eterna sinistra”, a loro modo impegnati, attenti alle
esigenze delle masse, anche intelligenti – finché la guerra e il razzismo non li
scoprirono.
Secondi pensieri - 141
zeulig
Autentico – L’invenzione dell’autentico fu la chiave
dell’antropologia coloniale, non onorevole.
Ma anche
la sua negazione. Adorno ha “l’inautenticità dell’autentico”, nella società
dello scambio. Che però è a sua volta un artificio: una società dello scambio
sottintende un tutto inautentico. Compresa
la sua critica. Come ora si vede, a
distanza di poco.
Complotto - Il gusto di nascondersi rientra nel fenomeno
delle personalità multiple, attualmente collocato al capitolo dei disturbi
associativi, che ricomprende la vecchia categoria dei fenomeni isterici. È un
capitolo vago, toccando la dissociazione, nozione tra le più indefinite della
psicopatologia. Forse perché etichetta malattie diverse, per causa e natura se
non per manifestazione.
Un
secolo e mezzo fa lo scienziato Guido Morselli già intuiva questa ambiguità di
fondo. Né se ne sostiene più l’apparentamento alla schizofrenia del dottor
Bleuler, la vecchia dementia praecox: non vi può essere
sdoppiamento della personalità se non v’è più una personalità. Si sono così
elaborate la nozione anglofona di splitting e quella francofona di dédoublement,
in opposizione alla Spaltung di area mitteleuropea e germanica. Questa
essendo propriamente la frammentazione dell’Io in direzione della schizofrenia,
quelle la segregazione di spicchi o grumi della personalità, labile, mobile. A
opera della stessa personalità, per una deformazione che può avere, oppure no,
derive compulsive, psicotiche. Può rientrare fra i disturbi della personalità,
l’inverso dell’istrionismo, ed è più spesso l’effetto di una patologia sociale
o storica.
Il
sospetto, strumento di verità, si trasforma in un’ontologia conchiusa, la psicosi
del complotto. Per cui un Hitler, per fare un esempio, fenomeno dichiarato e manifesto,
viene avvolto di segreto, e ogni evento della vita quotidiana diventa assimilabile
a Hitler. La vita, che si manifesta essendo, diventa un non luogo e un non
ente.
Il
complesso del complotto è come la superstizione, pronuba la paura: si temono
mali sconosciuti, e se mancano motivi certi di temere se ne creano
d’immaginari.
La
paura, l’“ansiosa preoccupazione” di Hume, è il principio delle religioni.
Ma non
si può fare un parallelo tra superstizione e religione. L’una è un movimento
retrogrado dalla paura, la rafforza, la rialimenta. L’altra un movimento in avanti,
la sorpassa e la frantuma, se non la purifica. Restano alla superstizione, e al
complotto, i poveri di spirito. I complottardi sono poveri di spirito.
Il
complotto eccolo qua, che c’è ormai più di segreto? L’evidenza? Non la lettera
di Poe che se ne sta inavvertita, quella aperta e letta: il segreto sono le
bombe (in Italia), i droni (in Iraq e Pakistan), le “bombe intelligenti” – che se
fanno fino a 29 vittime casuali non hanno bisogno di autorizzazione. È la
politica senza regole morali – un tempo imperialistica.
C’è,
anche, al posto del segreto un uso distorto
dell’informazione, che è ancora più insidioso dello stesso segreto. Dossier contro dossier, mani
forti contro mani forti.
Il complotto è il buio, dov’è impossibile
distinguere i gatti, luogo d’insidie. È il Novecento. Che è il secolo del
processo, costante, indistinto, interminabile: Kafka. Della demoralizzazione
dell’Occidente: Spengler. Se per Occidente s’intende l’Europa. E del complotto.
Per via della scoperta della libertà, o della guerra permanente, calda e fredda.
Le due cose, legate, hanno (hanno avuto) effetto suicida.
Giustizia – “Per avere scritto che Bernard Tapie era malhonnête”, l’editore Jean-Edern
Hallier “è stato condannato a quattro milioni di risarcimento” (E.Carrèrre,
“Limonov”, VII, 4). Milioni di franchi francesi e non di euro, ma sufficienti a
farlo fallire. Poi Tapie si è dimostrato in più occasioni malhonnête, anche se non perseguibile, e allora? È un problema che
Kant non ha risolto. Non se l’è posto per non sapere che dire? La giustizia giudica
in base ai suoi presupposti (leggi): è un circolo vizioso.
Onestà – “La menzogna nuoce sempre agli altri, anche se non
reca pregiudizio a qualcuno nuoce all’umanità”, è il famoso assioma di Kant nel
corollario “Contro Hobbes” al quesito “Sul luogo comune: può essere giusto in teoria,
ma in pratica non vale niente”.
Quando
Constant gli obietta: “Un filosofo tedesco arriva a pretendere che verso degli
assassini che vi domandassero se il vostro amico che essi inseguono non si sia
rifugiato in casa vostra, la bugia sarebbe un crimine”, Kant resta però
perplesso: “Riconosco di aver effettivamente detto questo, ma non mi ricordo
dove”. E quando Constant insiste: “Nessun uomo ha diritto alla verità che
nuoccia ad altri”, se la cava opponendo: bisogna “essere veridico (onesto) in
tutte le proprie dichiarazioni”. Dalla verità alla veridicità. E all’onestà?
Sesso – Immutabile di fatto, dalle prime tracce visibili
o dette. L’unica realtà immutabile tra le tante – la fisiologia umana è in
parte mutata nella pur breve esperienza storica, i modi e gli effetti del coito
no. Ma è anche la cosa – la realtà – più tabuizzata: censurata, proibita,
nascosta, esposta, ecceduta.
Servendo
primariamente alla procreazione, se ne potrebbe inferire una sua natura divina.
Inspiegabile
lo è. Come pulsione e come atto.
zeulig@antiit.eu
La manutenzione del grottesco
Curioso libro in due tempi. La
riedizione rimpolpa la raccolta con tre racconti, in aggiunta ai sette di dieci
anni prima, che però ne rigenerano la lettura. Con un effetto esorcistico sui
precedenti: la piccola borghesia di maniera della raccolta iniziale (lo statale
che va al lavoro per non lavorare, i vicini che si mettono in affari e
fatalmente finiscono male, il cornuto moderno che capisce la moglie, la trasformazione
di Caserta e della Terra di lavoro in un deserto urbano…) escono dalla dolenzia
quasi neorealistica, l’ananke di
Pasolini, l’uggia moraviana, per portarsi all’altezza (quasi) di Gadda,
insuperato umorista del genere - o meglio di Svevo, la narrazione contestualizzandosi di preferenza in rapporto al sé-narratore, nella forma dell'“autobiografia travestita” (Magris). Pascale, che ha scrittura vera di grana fine, vince
la sfida col reale (l’ordinario), e diverte oltre che divertirsi. Sempre
sottilmente. “Noi che parliamo da soli” siamo avvinti a “una distorsione
informativa”. Come in fisiologia, dove “gli immunodepressi sono aumentati, il
nostro sistema immunitario non sa più un polline da un virus, o attacca parti
del suo stesso corpo”. Mentre siamo depressi non-immuni, di un’intelligenza che
immobilizza.
I precedenti racconti, che si
presentavano come esercizi di bravura, si rileggono trasfigurati. In “Stai
serena”, il nuovo racconto lungo che fa da specchio a quello iniziale del titolo, del
cornuto comprensivo, la fedifraga si libera filosofando la propria dipendenza -
assoggettata a dimenarsi di bocca e di chiappe mentre l’amante se ne sta
disteso, averla apostrofata “puttana” o “troia” è tutto. I tre racconti aggiunti
esprimono il grottesco, prima soffocato dallo sdegno (moralismo) o
politicamente corretto. In modo subliminale, con costante dominio della misura (linguaggio).
Da sottile (arguto) anatomista del parlato, un tempo si sarebbe detto del
vissuto. Che come tutto in Italia è mobile e immutabile.
“Noi che parliamo da soli” è l’ultimo dei
tre racconti che rinnova la raccolta. L’Altare della Patria a piazza Venezia a
Roma, che Pascale sceglie a pietra d’inciampo dei vani soliloqui, era stato già
scelto da Carlo Dossi un secolo esatto prima, un altro inquirente dei linguaggi
aulici che sommergono l’italiano. Pascale è altrettanto tosto ma è lieve
(misurato). In esso si fa rimproverare da “Vincenzo Postiglione”, il
personaggio suo alter ego, “il
grottesco italiano”, come quello che preferisce “la maschera alla persona, la
situazione estrema a quella quotidiana,… il blocco compatto alla sfumatura”. Vuole
dirci che ha fatto il contrario, e l’ha fatto – uscendo anche, un po’, dalla metaletteratura
(dei maestri di scuola? delle scuole di scrittura? da dove origina l’infezione?).
Antonio Pascale, La manutenzione degli affetti, nuova ed., Einaudi, pp. 183 € 10
Iscriviti a:
Post (Atom)