sabato 25 maggio 2013

I padri, meglio perderli – non tutti

Non ci sono più padri, per l’eterologa che li ha resi superflui anche fisiologicamente, e non ci sono più neanche le madri, presenza al più di letto, quando se. La famiglia è finita, la procreazione finirà presto con la clonazione. Giulia Rusconi è nata giusto in tempo per testimoniare la mutanza. Si parte dall’“Eloì, eloì, lemà sabactàni” dell’esergo, l’evangelico “padre, perché mi hai abbandonato?”, e si arriva al “pezzo mancante,\ della casa, delle cose” – anche se da qualcuno lei “non divorzia”.
Una testimonianza dunque a futura memoria? I replicanti la troveranno pregna fonte storica: i padri volatili “insegnano”, le madri “stanno manchevoli”. Ma in un teatro quasi ubuesco – in “un presente transgender” dice Anna Maria Carpi in introduzione. Padri veri e naturalmente immaginari, sdoppiati o fantasmizzati – la ventenne Giulia se ne trova ingravidata come una matrioska. A partire d’“Al mio padre, «il numero tredici»” della dedica, “l’affidato, il preoccupato, l’ottuso”. Autenticati dalla fantasia, come si deve.
 “Tema insolito, persino raccapricciante”, lo vuole Anna Maria Carpi. Per l’entusiasmo di Enzo Golino, del “Sole 24 Ore”, di Rai educational, e di Citati. Rusconi fa a meno della sofferenza che ogni giovane esibisce, di un’esperienza ancora non vissuta. Narrativamente aperta agli stimoli che vengono dalle cose. Gli eventi.
Una plaquette di feroce allegria. Che la tradizione giocosa e burlesca della poesia, tanto fertile ma da secoli dismessa, risuscita al femminile – Niccolai, Cavalli, e ora Licata, Rusconi? Dove l’autentico non si cerca nella sofferenza – sono ladro per esser povero, etc. – ma nell’invenzione. Di una poesia che è finzione che si accetta. E allora tanto più vera: dice, attrae, innova.
Giulia Rusconi, I padri, Ladolfi, pp. 49 € 10

Il mondo com'è (137)

astolfo

Astemio - Fu a lungo sospetto. Sinonimo d’intollerante e vendicativo. È parola di chiesa: a lungo i preti astemi furono interdetti dalla messa. Fino al Cinque-Seicento, quando una serie di sinodi consentì di sfiorare il calice con le labbra, senza bere.  Anche se gli ussiti pagarono con migliaia di martiri il diritto alla comunione in utroque, sotto le due specie, del pane e del vino, nel 1433.

Ecologia – Il nazismo fu ecologico per primo e in forme anche estreme. Non solo nelle “buone morti” e nelle nascite selettive, studiate. Hitler non beveva e non fumava, e non gradiva che si fumasse. La direttiva eugenetica, il famoso programma Aktion T 4 di eliminazione degli “inadatti” fu l’unico atto, o uno dei due, che firmò personalmente quale capo di Stato e di governo in dodici anni. Era un programma di “morti misericordiose”, col primo uso dei gas letali. Anche i forni crematori si vogliono soluzione igienica e misericordiosa: è tesi di storici anche accreditati, da ultimo la discusse estensivamente  Ernst Nolte.
Hitler si può dire sensibile anche lui alle foglie. Il piano delle morti misericordiose aveva ben spiegato nel “Mein Kampf”: “Chi non è sano e degno di corpo e di spirito, non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze nel corpo del suo bambino”. Quando le madri protestarono nel 1941 in alcune delle stazioni dove si trovò a passare in treno, Hitler sospese il programma. Si voleva infatti anche “portatore della volontà del Popolo”. Ma il programma proseguì non ufficialmente fino al 1945: l’ultima vittima è accertata il 29 maggio 1945, un mese abbondante dopo la resa.

Si sottovaluta la componente igienista del nazismo, mentre i movimenti naturalistici e giovanilistici furono il suo bacino, alla pari con quelli nazionalistici. L’urbanista Theodor Fritsch fu il primo teorico della città giardino, prima di Le Corbusier, per evitare alla “patria” il destino di pattumiera della “brama di profitto”, e farne invece “il terreno di una felice esistenza”. Fritsch moriva quando Hitler prendeva il potere, ma la sua città giardino doveva in primo luogo liberare la patria dai “barbari asiatici” che l’ingombravano, gli ebrei.
Film si producevano, oggi dimenticati, ma all’epoca prodotti e proiettati in chiave ambientalista anche radicale, di propaganda. “Ewiger Wald”, la foresta perenne, denunciava la deforestazione – la Germania si gloriava di essere stata una foresta impenetrabile, la Foresta Ercinia (la deforestazione era imputata al Sud, al cristianesimo venuto dal Sud, che aveva snaturato la “purezza della razza” nordica e fatto del Nord un deserto). In “Alles Leben ist Kampf” dell’anno successivo, la vita è lotta, gli alberi lottano per accedere alla luce, spingendo le loro cime sempre excelsior, e le “verdi praterie” sgomitano per difendere il loro “spazio vitale”.

Glamour  - È dannunziano: la ricerca e la pratica l’ha inventata e realizzata D’Annunzio, per sé stesso. Con altre prim’attrici, Sarah Bernhardt, Emma Gramatica, Isadora Duncan. E anche con persone, magari allora ricche, ma che per ogni verso sarebbero le “attricette” o veline di oggi, come Luisa Casati, che D’Annunzio lanciò, senza arte ma col desiderio inesausto di primeggiare con la sola apparenza.

Si lega alle relazioni pubbliche dello star system, quanto di più contemporaneo, dunque. In genere sotto la forma di coppia, un lui e una lei che per altri motivi godano di celebrità diverse e le mettano insieme. Sotto forma di una storia d’amore, naturalmente a tempo, Vieri o Clooney con una qualche bella donna. Storie di cui non si butta niente, come del porco: l’avvicinamento, i primi toccamenti furtivi, con fotografo testimone, la dichiarazione d’amore, l’amore al mare, l’amore in montagna, etc., qualche volta si fa pure un figlio(ma su questo la pubblicità è ora più resttrirriva), i primi tradimenti, l’abbandono, la separazione, con o senza lutti. E ripartenza. Ma non sono una novità. Specie dove l’amore non c’entra, in nessuna forma.

Arte contemporanea – Sotto forma di installazioni e di performances è in realtà quanto di più antico c’è sul mercato. Di queste forme di “arti visive” se ne sono sempre fatte. Dai circenses romani, che avevano un loro c anone, anche complesso, specie i gladiatori che si battevano fino alla morte. Erano installazioni le feste rinascimentali, di cartone, cartapesta e fuochi d’artificio. Il principe Potiomkin installava viali alberati e palazzi di cartapesta perché la zarina Caterina potesse illudersi che l’impero era ricco nelle sue visite. Ange il sovietismo ricostruì a ungo, fino agli anni 1960, le città storiche distrutte dalla guerra in cartone e cartapesta, Cracovia per esempio, e il centro di Varsavia.

Luisa Casati si potrebbe dire regina delle per, già un secolo fa o poco dopo. Dopo essersi resa famosa come la dona più ricca d’Italia e l’amante di D’Annunzio. Le biografie la dicono “solita passeggiare con ghepardi al guinzaglio e pitoni vivi al collo”. Solita magari no, ma l’ha fatto, più di una volta. Si faceva anche accompagnare da servi seminudi, neri, dipinti d’oro. A Venezia, fondale preferito per le sue performances prima di Parigi, girò in gondola seminuda. E improvvisò più volte “scene teatrali” in Piazza – “una volta si presentò in piazza San Marco con cinquanta figuranti vestiti di bianco e ricoperti di sangue. A Parigi si fece disegnare da Mariano Fortuny e Paul Poiret abiti orientaleggianti, vaporosi, disseminati di aigrettes, con turbante.
Il moderno non è moderno.

Trilaterale – Si celebrano, cioè non si celebrano, si fa finta di niente, i quarant’anni della Trilaterale, oggi defunta ma potente e in fluentissima organizzazione mondiale del grande capitale.
Creata nel 1973 da Nelson Rockefeller, l’esponente politico repubblicano liberale della grande famiglia di petrolieri. Lo stesso anno in cui la banca dei Rockefeller, la Chase Manhattan Bank, propiziava con i suoi studi la prima grave crisi petrolifera, che avvenne nell’ottobre col taglio dei rifornimenti e il triplicamento delle quotazioni – la prima grave crisi economica dell’Europa nel dopoguerra.
Nel disorientamento che seguì, la Trilateral arrivò presto alla conclusione che le democrazie sono ingovernabili, giornali e intellettuali le insidiano. Che già turbavano Churchill, bisogna dire - “una banda di spietati professori dalla mentalità sanguinaria”. E l’Orwell satirico di “1984”: “L’aumento della ricchezza minaccia le gerarchie mondiali”. La Trilateral discusse le limitazioni della democrazia: gli affari (l economie) andrebbero meglio per tutti se operai, neri e poveri contassero meno.
Nel 1975 l’Avvocato Agnelli, presentando il rapporto della Trilaterale, redatto da Zbigniew Brzezinsky, dal titolo “La crisi della democrazia”, disse che la prima esigenza era “definire la «governabilità»”. La conflittualità trasformando in cooperazione. Col “Federalist” a supporto, il giornale che aveva accompagnato la costituzione americana, nonché con John Stuart Mill e Ralph Dahrendorf. Altrimenti è la “democrazia anomica”, al meglio un “consenso senza scopo”.
Samuel Huntington, il teorico della Trilateral, nome biblico, profeta dello scontro di civiltà, si sarebbe potuto dire peraltro egli stesso manifestazione della pericolosità degli intellettuali. O Brzezinsky, il futuro segretario di Stato di Carter cui si dà la paternita della scelta del cardinale Woytiła a papa Giovanni Paolo II.

astolfo@antiit.eu

venerdì 24 maggio 2013

Ombre - 177

L’amministratore di Banca Intesa Cucchiani si dice discepolo di Carli in tutto, specie in fatto di proprietà dei giornali, che Carli considerava delittuosa. Intanto si compra il “Corriere della sera”. Direttamente e, per non sbagliare, tramite il fido Rotelli.

Con 178 testimoni eccellenti lo Stato mafia si è assicurato la audience per almeno 178 udienze. Ma a beneficio di chi? Lo spettacolo lo paghiamo noi.

Manca Moggi fra i testimoni eccellenti. All’epoca era al Torino, ma era nel giro della prostituzione eccellente. E Cicciolina? Ruby no, non era ancora nata, ma Cicciolina era ancora potente in Parlamento.

L’Intellettuale Italiano va a Cannes e si entusiasma per le adolescenti cattive di Ozon e Sofia Coppola. Poi torna in Italia e se la prende con Ruby e le altre veline, “prodotto di Berlusconi”. Si fa dunque la gita a Chiasso senza imparare?

Nessun comico fa Grillo. Il più facile da fare, per aspetto, toni, discorsi, e un soggetto quasi obbligato - non è un comico, pure lui? Per rispetto, si direbbe nel gergo della mafia.

Massimo Gaggi si fa dire dal vice ministro Usa al Tesoro, la leggiadra Jael Brainard, quanto bravo sia stato e sia Monti. La quale non lo dice. Massimo si è perduto nella giungla?

Su denuncia di una bidella disturbata il gip di Roma Elvira Tamburelli dispone l’arresto di una maestra d’asilo al Portonaccio, e della direttrice. Una decisione grave, con grave danno alle famiglie, e agli stessi bambini. È la stessa giudice che sei anni fa da Tivoli sbagliò a Rignano Flaminio, creando danni gravissimi alle maestre e ai bambini di quell’asilo. Su denuncia di genitori disturbati, che filmavano i loro bambini in atti osceni.

Ci voleva la “ferma denuncia” di un ministro, il ministro di destra Alfano, per spingere il Procuratore Caselli, che si vuole di sinistra, ad aprire un’inchiesta per tentato omicidio in Val di Susa. Un atto non nuovo peraltro: insolenze, minacce e violenze sono quotidiane da mesi contro gli operai e i loro familiari.
L’inchiesta di Caselli si sa che finirà in un nulla di fatto. Ma, a questo punto, non sarà il Procuratore  un infiltrato di Alfano?

Imperversa il processo Ruby. In cui la parte lesa, la minorenne, viene definita prostituta e bugiarda dall’accusa che sarebbe la sua difesa. Bella difesa.
Dice: Ruby è detta puttana e bugiarda perché così vuole la legge? Quale legge?

Parla spedita, Ruby, con le consecutio giuste e senza accento. Specie al confronto con le pesantezze dei suoi difensori-accusatori, che sono magistrati – magari figli di magistrati, a Napoli è un titolo d’onore. E guarda semplice e diretta, mentre i difensori-accusatori ghignano, per nascondere con le grinze l’espressione. Ora, la bellezza non è dirimente nelle questioni di verità?

Per essere una prostituta, come dice il Tribunale di Milano, e la figlia di un ambulante marocchino di recente immigrazione, con poca scuola, Ruby non è credibile. Non sarà una principessa? O una spia? Il genere di quelle americane dello scandalo Petraeus.

L’amore romantico è possessivo

Un uomo sempre inquieto nell’amore, sempre insicuro di sé, benché accreditato di fascino e molte storie - a partire dalla sorella Lucile, l’amore su cui s’impernia “René”, il primo romanzo, primo pure del romanticismo e dell’Ottocento (lei lo chiamava “l’incantatore”). Qui se lo dice anche. Solitario da ragazzo. Inquieto da grande, “un’inquietudine insormontabile turbava i miei piaceri”. Infine cattivo: “Assistevo alla felicità delle nuove generazioni… e ne provavo impeti di nera gelosia; se avessi potuto annientarli, lo avrei fatto col piacere della vendetta e della disperazione”.
“Confessione delirante” Sainte-Beuve ddefinì questi punti pubblicandoli nel 1862, e come tale furono a lungo conosciuti. Una quindicina di fogli autografi, poi ribattezzati “Canti di tristezza”. Più una pagina trascritta da un segretario, che in sede critica è stata valutata come un appunto per una riedizione di “René” e titolata “Un vecchio René”. Ma in realtà trasfusi nella “Vita di Rancé”, spiega Ludovica Cirrincione d’Amelio che questa pubblicazione cura, in originale e traduzione: sotto la specie di un’agiografia del fondatore della trappa, l’abate di Rancé, la sua ultima opera, Chateaubriand monta una “grande orchestrazione di silenzio e di morte”.
Un addio alla vita, così l’attivissimo scrittore visse la vecchiaia. E tuttavia possessivo, retrospettivamente ma anche nel suo attuale stato: non può concepire un amore che non sia assoluto, intollerante d’un solo sguardo distratto. Una vecchiaia amara ma non di rinuncia: è la pena del romanticismo eterno.
François-René de Chateaubriand, Amore e vecchiaia, Robin, pp. 71 € 5

giovedì 23 maggio 2013

Andreotti scrittore

In attesa del romanzo postumo allora annunciato, questa ristampa del 1990 è l’unico Andreotti in libreria. Una auto-antologia, perciò lusinghiera, delle proprie fasi celebri, ma quasi quasi dà un’altra caratura al già camaleontesco personaggio, quella di scrittore. Una non tanto segreta ambizione. Fino a giocare con se stesso: la frase più celebre, quella del titolo, gli fa piacere che sia messa in bocca nel 1989, dal commediografo francese Brisville, “La cena”, a Fouché.
Gli aneddoti non mancano. I più lusinghieri sul presidente Einaudi. Sul dimenticato Andy Young, l’ambasciatore del presidente americano Carter all’Onu, il primo nero con una posizione ufficiale negli Usa, l’unica personalità viva di anni scuri. Sulla senatrice Merlin antidivorzista. Su come “figliano” i ministeri: “Agli inizi (1944) i ministeri furono diciotto perché i partiti del Comitato di Liberazione erano sei e ne assegnarono tre per ciascuno. Così dal ministero delle Comunicazioni nacquero – ostetrico Ivanoe Bonomi – le Poste, i Trasporti e la Marina Mercantile. Fui presente al singolare parto”. Sull’obbligo massonico dei presidenti Usa, e su Nixon - “Nixon non lo era”, non era massone. Papa Woytiła che non ama i compleanni. O che, promosso da arcivescovo di Cracovia papa di Roma, proprio nella capitale della cristianità trova “la chiesa del silenzio”. Emma Bonino, “per metà la Vispa Teresa, per l’altra metà Giovanna d’Arco”, trentacinque anni fa. Helmut Schmidt che nella sua casa di Amburgo spiega in dettaglio Marco Aurelio al senatore in visita, che dell’imperatore sapeva giusto della statua a cavallo al Campidoglio. Irrispettoso con le Scritture, Salomone per esempio, col suo balordo giudizio, o i “Proverbi”, che giungono a fare “quasi l’elogio delle A.A.A.” (“Perché se la meretrice si contenta di un  tozzo di pane, la maritata dà la caccia a una vita ricca”).
Ma più che l’aneddotica s’impone la cifra, svelta, sapida. Spiegata nelle sue virtù in due paginette d’introduzione che sono una poetica, non presuntuosa naturalmente, ma nemmeno avventata.
Giulio Andreotti, Il potere logora, Bur, pp. 191 € 7

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (171)

Giuseppe Leuzzi

Perché Duisburg? Forse perché è un porto interno, il più grande del mondo. Alla confluenza dei fiumi Reno e Ruhr. A pochi chilometri dall’aeroporto intercontinentale di Düsseldorf. Con un quarto della popolazione turca. Non bisognava abolire la geografia. Non, almeno, nelle scuole di polizia.
Fino agli anni 1980 l’eroina arrivava, via terra, dalla Turchia. Poi è stata sostituita dalla cocaina sudamericana, via mare e via aria.

“Quando iniziarono i sequestri di persona ci fu chi restò indifferente dicendo che il fenomeno interessava solo i miliardari”. Così Andreotti può ricordare la cosa già nel 1983 (nella rubrica “Bloc Notes”, ora nell’antologia “Il potere logora”, p. 149), ma i sequestri dureranno ancora un decennio. Creando la ‘ndrangheta, la mafia più invadente. Ci furono collusioni? Non era difficile a San Luca, paese non grande, e ancora meno a Platì, sapere chi e cosa. Certo non con l’elicottero.

“Un altro mondo”, solo queste tre parole nel prolisso racconto che Marisa Merico fa della sua famiglia mafiosa (“L’intoccabile”), per dire di Cardeto, nell’Aspromonte, “San Sperato” nella narrazione, paese civile, musicalissimo, centro della “tarantella aspromontana”, dove ogni anno passava le vacanze di agosto, venendo da Milano o dall’Inghilterra. Le donne\uomini di mafia, come quelli di finanza e d’affari, sono tipi monomaniaci, unidimensionali. Hanno antenne sensibili, ma non vedono.

“Non ci possiamo lamentare”, lo scongiuro in uso per evitare di dire “sto bene”, Andreotti rileva stranamente bilanciato dalla lamentala continua, una sorta di aggressione degli altri con i propri malanni.
È un uso dunque italiano, non solo di molti linguaggi del Sud, la funzione apotropaica della parola, di scongiuro – non sfidare il destino, non scuoterlo dal torpore.

Nonché al Sud, anche in Polonia il compleanno non è, non era, gradito. Andreotti ricorda, nello stesso libro, “Il potere logora”, come dal Vaticano fosse venuta la raccomandazione di non celebrare i settant’anni di Woytiła. Che poi, dovendo parlare alla beatificazione di Pier Giorgio Frassati, si limitò a ringraziare chi gli aveva fatto gli auguri per il suo “ingresso nell’ottavo decennio”.

Donne d’onore
Le prime testimoni contro la mafia sono in Calabria le donne, le figlie. Contro lo stereotipo della donna del Sud – o forse contro lo stereotipo unificante: non tutto il Sud è Sud.
Molte di più sono però le donne che dirigono gli affari di famiglia, specie in Calabria, “rapide e invincibili”, come voleva un motto militaresco. Non se ne possono fare i nomi, ma quello di Maria Serraino basta per tutte. Giovane analfabeta di Cardeto, in provincia di Reggio Calabria, emigrata a Milano e subito regina incontestata del contrabbando prima poi della droga, con una dozzina di figli e nipoti ai suoi ordini.
Le donne sono anche i testimoni di mafia più perseguitati, fino alla morte. Tante ormai ne sono vittime. Da Rita Atria, che non resse alla strage di Borsellino, a Lea Garofalo, che nel 2002 decise di denunciare le faide tra la sua propria famiglia e quella del suo compagno Carlo Cosco. Sette anni dopo anche Lea Garofalo pagherà con la vita.
Il suo ex compagno poté tranquillamente ucciderla e scioglierla in cinquanta litri di acido. Seppure in territorio estraneo, in Brianza. E beneficiare poi di un processo ipergarantista, annullato una prima volta e rifatto per intiero, su decisione della giudice Anna Introini. Con patrocinio legale gratuito pagato dallo Stato, nella persona dello stimato professionista milanese Daniele Sussman Steinberg.

Ammessa nel 2002 al programma di protezione insieme alla figlia Denise e trasferita a Campobasso, Lea se l’era visto revocare nel 2006 perché l'apporto dato non era stato “significativo”. Evidentemente aveva detto poco o nulla, stava solo tentando di darsi un futuro diverso insieme con la figlia.
Si rivolse al Tar, che le diede torto, e poi al Consiglio di Stato, che le diede ragione. Riammessa al programma nel dicembre 2007, quindici mesi dopo rinunciò lei stessa alla protezione per tornarsene a Petilia Policastro, il suo paese. Quindi di nuovo a Campobasso, ma in una casa che il compagno da lei denunciato aveva trovato per Denise e per lei. A novembre del 2009 avrebbe dovuto testimoniare a Firenze contro i Cosco, ma Carlo ne fece “giustizia” prima.
C’è collaborazione e collaborazione. Ma di Lea Garofalo si può dire che il destino fu determinato dal bisogno di proteggere la figlia. Non sempre questo fa aggio nelle donne di mafia. Maria Serraìno ampliò a dismisura il business, dal contrabbando alla droga benché due suoi figli e alcuni nipoti morissero di overdose. Solo passò dall’eroina killer all’hashish e alla cocaina.

Pentiti
Campanella fu perseguitato per i suoi testi, ma di più per le accuse di pentiti – dall’esame dei testi uscì sempre assolto. Il primo accusatore di Campanella fu a Padova, all’inizio del 1594, Ottavio Longo da Barletta. Uno che, dopo diverse peregrinazioni, si era sistemato a Padova. Dove s’era proposto a interlocutore di discussioni teologiche con varie personalità, compreso Campanella, e il medico Giovanni Battista Clario. Denunciato per teismo dall’Inquisizione di Vicenza, Longo pronto trattò la liberazione promettendo la denuncia di ventotto eretici. Era un numero alto, e Longo mise in lista tutti  quelli di cui aveva sentito il nome, compreso Campanella, e il medico Clario. Era tanto pieno della sua trovata che la confidò a due compagni di cella. Due giovani ecclesiastici, che saranno a loro volta condannati a dieci anni di galera, su una trireme, per reati non gravi. Di nome Evagrio e Giovanbattista. Fu alla testimonianza dei due che Campanella dovette un forte alleggerimento delle imputazioni.
Tre anni dopo, Campanella fu denunciato a Napoli da un compaesano di Stilo, Scipione Prestinace. Condannato a morte per reati comuni, Prestinace denunciò Campanella come eretico, anche se non lo conosceva – forse per ritardare l’esecuzione, che invece avvenne ugualmente. Anche questa volta Campanella fu assolto - ma sarà l’ultima: si trova sempre quello che si cerca.

mercoledì 22 maggio 2013

Bazoli santo subito

Singolare monumento al vivente Giovanni Bazoli, da sovietico culto del capo, o della tradizione agiografica, canonica. Mancano  i segni della predestinazione da fanciullo, il resto c’è tutto, col nimbo sempre vaporoso d’incenso. Bazoli è Cuccia – di cui era nemico. E Ciampi – che purtroppo concede all’agiografia i suoi diari 1982-99 (lascia purtroppo senza fiato Ciampi che discute a casa di Scalfari della “sistemazione” della Rizzoli-Corriere della sera). Cioè Ciampi e Cuccia sono Bazoli. E Agnelli, quasi. Mentre sono cancellati i nemici di cui Bazoli ha avuto ragione, ancora in vita. Fazio soprattutto, e poi Profumo, Geronzi, Tremonti. Bazoli si rifiuta alla politica con Andreatta nel 1999. Mentre si sa che si voleva candidato al posto di Prodi nel 2006. Ma neanche questo interessa. Un contributo tutto erroneo, quanto voluminoso, alla storia della banca negli ultimi trent’anni. E forse una cattiva azione.
Carlo Bellavite Pellegrini, Un storia italiana, Il Mulino, pp. 562 € 38

Letture - 138

letterautore

Incipit – A lungo mi sono coricato di buonora.
Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio.
Sull'Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord.
Eh bien, mon prince, Gênes et Lucques ne sont plus que des apanages, dei dominî de la famille Buonaparte. Non, je vous préviens que si vous ne me dites pas que nous avons la guerre, si vous vous permettez encore de pallier toutes les infamies, toutes les atrocités de cet Antichrist (ma parole, jy crois), je ne vous connais plus, vous nêtes plus mon ami, vous nêtes plus il mio fedele schiavo, comme vous dites. Su via, buona sera, buona sera. Je vois que je vous fais peur, sedete e raccontate.
Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe.
Ognuno sa che il marxismo….
Quale di questi libri sarebbe stato pubblicato basandosi sugli incipit di cui sopra? Nell’ordine, la “Ricerca” di Proust, l’“Ulisse” di Joyce, “L’uomo senza qualità”, “Guerra e pace”, “Gli indifferenti”, e Hélène Carrère d’Encausse, ”L’impero scoppiato”, libro profetico sull’Urss nel 1978. A prescindere dall’ulteriore handicap del francese, oggi ignoto.
Joyce può essere diverso. Quella di sopra è la traduzione di Giulio de Angelis del 1960. Quella recente di Enrico Terrinoni dice: “Statuario, il pingue Buck Mulligan spuntò in cima alle scale, con in mano una ciotola di schiuma”. Mentre l’alternativo Celati propone: “Imponente e grassoccio, Buck Mulligan stava sbucando dal caposcala con in mano una tazza piena di schiuma”. Ma non migliore. Neanche nell’originale: “Stately, plump Buck Mulligan came from the stairhead, bearing a bowl of lather on which a mirror and a razor lay crossed”.
“L’uomo senza qualità” continua:  “Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere. La temperatura dell'aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l'oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell'anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell'aria aveva la tensione massima, e l'umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che quantunque un po' antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d'agosto dell'anno 1913”.

Nel racconto “Il lettore della casa editrice” Giuseppe Pontiggia, che fu lettore di casa editrice, e maestro di scuole di scrittura, pasticcia Chiara, Volponi e, probabilmente, Svevo, per dire della labilità del mestiere – le note su questi testi riaggiusta in continuazione, non sapendo in realtà come prendersi. E chiude su un “errore”. Dalla pila trae un ultimo dattiloscritto, aprendolo a caso. A p. 4, dapprima interessato ma presto deluso. Sbircia altre pagine: alcune espressioni gli piacciono, altre no. Riapre a p. 30, e legge con attenzione. Poi è di nuovo perplesso. E aggiusta il giudizio, come di autore che “va tenuto d’occhio”.
L’editore, passando per il corridoio, gli chiede come va. Il lettore gli dice che l’ultimo autore va tenuto d’occhio. Brilla l’occhio all’editore, che s’impossessa dello scartafaccio. E subito ne è deluso: “Ma questo plico non doveva essere sul suo tavolo”, dice, “è una nuova traduzione”. Di “Delitto e castigo”.
E se Pontiggia avesse letto l’incipit? “All'inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K.” I manuali di scrittura vogliono questo incipit “da manuale”. Ma Pontiggia sarebbe andato oltre?  

Pasolini – Fa senso la foto che si diffonde da qualche tempo, ora visibile su “Rosebud”:
di Pasolini in  secondo piano e quasi in subordine a Ferdinando Adornato e Walter Veltroni ragazzi, benché fosse più alto di loro. Ragazzi ma già boss della Figc - che non era la federazione del calcio. Ma in fondo sintetizza il suo bizzarro assoggettamento al Partito.

Storia – “Oltre ai cd classici, la cancelliere tedesca ha donato al papa anche tre volumi del poeta Friedrich Hölderlin, in edizione originale del 1905”, informano i giornali. È la cancellazione della storia dalla scuola, che un secolo si confonde con l’altro?

Tedesco – Ascoltando alla radio distrattamente, nell’ottima trasmissione “Tutta la città ne parla”, De Gaulle concionare a Ludwigsburg il 22 settembre 1962 in tedesco tutta la sua ammirazione per la Germania, si pensa di ascoltare Hitler. Che come si sa soprattutto parlava, ai microfoni, stentoreo, in piazza, e perciò spesso viene fatto risentire. Riascoltando De Gaulle su Youtube l’impressione è attenuata, soprattutto dai concetti, ma non del tutto, anche lui è stentoreo - i concetti sono da melassa: “Mi congratulo con voi, giovani tedeschi” e “i valori spirituali, scientifici, artistici e filosofici” che la Germania ha dato al mondo. È il tedesco che vuole questa pronuncia? No. Non nella parlata quotidiana. Nemmeno nella declamazione. A teatro forse sì, ma è la stessa impressione che dà l’inglese, soprattutto Shakespeare – quello di Lawrence Olivier era sempre “tremendo”. Ma si fatica a immaginare Hölderlin, o Goethe, o lo stesso Schiller, parlare così, neanche il terribilista Thomas Mann, spregiatore del mondo. Il tedesco – la lingua – è vittima dello stereotipo.

letterautore@antiit.eu

L’Eni è una banca

Con un ebit, l’utile lordo, a 19 miliardi, che salirà a 21 fra due anni, l’Eni raggiunge le altre major anche su questo fronte: la grandi compagnie, specie le britanniche Bp e Shell, sono ormai da decenni delle grandi finanziarie. Che producono anche petrolio. L’utile netto, a quasi sei miliardi malgrado le supertasse energetiche, salirà ancora fino a 7,5 fra due anni.
L’Eni produce anche una quantità infine ragguardevole di idrocarburi. Tra petrolio e gas raggiungerà fra due anni i due milioni e mezzo di barili giorno, pari a 125 milioni di tonnellate annue tep, di “petrolio equivalente”. Di che coprire ampiamente le importazioni italiane. Ma l’Eni non ha più questa funzione, di garantire gli approvvigionamenti.
La trasformazione in finanziaria si fa in fase di caro-petrolio. Per l’Eni negli ultimi due anni come già per Bp e Shele dopo la crisi petrolifera del 18973, e più dopo quella del 1978. Il 90 per cento degli utili viene dal caro-petrolio, dal settore produzione, che in termini di investimenti prende invece solo il 54 per cento del totale. L’Eni come tutti cavalca l’aumento dei prezzi, senza più alcuna funzione calmieratrice. 

martedì 21 maggio 2013

Il cancelliere Zanda

Abbiamo sconfitto i gladiatori, ma non gli epigoni. È così che Zanda, segretario di Cossiga, capo di Gladio, vuole cancellare i partiti, dopo Berlusconi. Alcuni partiti, quelli che dice lui. Forte del sostegno di Carlo De Benedetti, di cui è stato consigliere d’amministrazione, e dei suoi giornali.
Dice: non è Zanda, è il partito Democratico che lo vuole. È possibile, il Pd ha molti complessi, ed è quindi un partito aperto a tutto, e al contrario di tutto. Ma Zanda, cos’altro ha fatto per meritarsi gli onori di capogruppo del Pd alla Camera, o al Senato, dov’è? A parte l’aver fatto il segretario di Cossiga? Politico, s’intende, non quello che porta il caffè. 

Guerra all’antisemitismo, feroce

Assassinii cattivissimi, genere horror, si susseguono,  con l’unico filo possibile di una vendetta d’amore. In una cittadina universitaria tedesca, virtuosa come tutte e benpensante. Ma, come tutte, antisemita. Il “vendicatore” sarà dell’odio razziale. Non isolato, la vendetta è organizzata – qui, effettivamente, sull’antisemitismo s’ingenera una “guerra civile”, non negli studi di Nolte.
“Un racconto particolarmente insolito di uno scrittore sempre insolito”, lo dice giustamente l’editore – De Quincey, scrittore inedito di quaranta volumi, è uno che scrive per se stesso, per il suo piacere. Ma bisogna aggiungere: tedescofilo.
Thomas De Quincey, Il vendicatore, Passigli, pp. 86 € 4 (remainders)

Plebiscitarismo senza autorità

Il “deficit di rappresentanza” si può anche dire epocale. Non soltanto italiano, come si è argomentato qualche giorno fa, ma del’epoca della “pubblicizzazione”, della comunicazione libera. Non è saltata la democrazia, ma gli arcana imperii. L’aura di sacralità che sempre aveva avviluppato il potere: si discute ora di tutto, e comunque non ci sono più segreti possibili.
È quella che Bernard Manin, “Principi del governo rappresentativo”, ha chiamato “democrazia del pubblico”. Che voleva dire una cosa ben precisa – Manin non è un giornalista, è filosofo politico, direttore della Ehess, una delle Grandi Scuole francesi, École des hautes Études en Sciences Sociales, e professore all’università di New York: il corto circuito nel rapporto di rappresentanza operato con l’image building del Capo. O, in termini sociologici, il marketing politico ridotto all’immagine del leader, che si realizza nel rapporto diretto con i media. Quindi senza più il filtro dei corpi intermedi, politici, economici, sociali, e senza più un rapporto diretto con l’elettorato (ridotto a voto di scambio, corruzione, conflitto d’interessi). Se non attraverso la cosidetta opinione pubblica. A sua volta ridotta al gossip, ex scoop, all’intervista, al fotoservizio, al talk show, ai sondaggi pilotati, ai call center.
Nulla di cui scandalizzarsi, concludeva Manin – che teorizzava la “democrazia del pubblico” prima di Berlusconi. Le identità collettive si sono indebolite e sono quindi meno organizzabili. E d’altra parte la “rappresentanza”, canone della democrazia, è stata fin dall’origine del parlamentarismo, nel Seicento, “personalizzata”. Non c’è un’età dell’oro a cui confrontarsi, in cui la democrazia ha funzionato senza filtri, deviazioni, E d’altra parte nella “democrazia del pubblico” i partiti non scompaiono: continuano a mediare la società organizzandosi attorno a un Capo. Una “ristrutturazione” voluta anche dai processi decisionali attuali, che privilegiano il governo: la tempestività sulla riflessione, la premiership o il presidenzialismo sull’assemblearismo. Lo stesso Montesquieu va rivisto, salvandone non tanto l’antistorico equilibrio dei “tre” poteri, ma il concetto di equilibrio, o dei bilanciamenti.
Niente di drammatico, se non che, in Italia, non la “democrazia del pubblico” si è instaurata, ma una violenta faziosità. Con una rottura forte, costante, apparentemente ineliminabile, dell’equilibrio dei poteri. A favore di poteri non sindacabili, la giustizia e i media. L’aura del potere non è saltata in vista della “pubblicità”, della openness, ma al contrario del segreto e delle consorterie. Si decide di fotografare a chilometri di distanza gli ospiti di Berlusconi mentre fanno la doccia e lo si fa, come si decide di non fotografare Grillo, che invece fa i suoi comizi in piazza, per ore, perché Grillo non vuole.
Tutto confluisce, anche qui, nella politica-immagine. Ma come tritacarne, senza criterio e senza bussola. C’è solo l’antiberlusconismo, ma non vuol dire niente e non basta. Landini, leader della Fiom, un sindacalista con poco seguito nel suo stesso sindacato, diventa interlocutore e capopartito in quanto faccia “simpatica”, cioè telegenica – come gli occhi chiari Ghedini e Belpietro, berlusconiani.
E, a livello decisionale, nel plebiscitarismo. Doppiamente una falsa soluzione: schiaccia il pluralismo senza facilitare le decisioni – il governo. Si veda dove l’elezione diretta è stata adottata ormai da quattro o cinque elezioni: i sindaci, come i presidenti di provincia e di regione, non hanno alcuna autorevolezza e non esercitano alcuna autorità.

lunedì 20 maggio 2013

I belli-e-buoni malati di reazione

L’élite di natura borghese e liberale era in realtà romantico-reazionaria. Come Joyce, Kafka o Thomas Mann, o il “tetro monito” di Proust, sono venuti ad alimentare un “senso di potere e di spregiudicatezza” – non c’è bisogno di guardare lontano, bastano i vicini. L’uomo-eroe di se stesso come “un avaro di romanzo”, che il “patrimonio dell’esistenza” si costituisce non come sommatoria, di bene e di male, ma come “memoria di «momenti» in sé e per sé” – tutti esteti. “La cavalleria dei grandi studiosi” ridotta a donchisciotti, non di più. Il “mistero della élite” fermato da James e Proust, supremi detective, al nulla, alla “soglia di un magico nulla”. Un passato sempre presente – un’occasione storica perduta.
“Oggi ricordiamo l’élite soprattutto per quanto essa rappresentava di mediocre e di equivoco”. Ma “lo snobismo, orribile  lemure che striscia presso il leggiadro fantasma della élite, presiede ancora, in mille paradossali reincarnazioni, alle relazioni sociali della civiltà di massa”. Basta smanettare, anche poco, sulla rete. “L’élite non è l’ultimo dei motivi per cui il principio individuale, gloria della civiltà d’Occidente, sta per cedere il posto a un sistema di caste, che non è certo il miglior contraltare da opporre alle dubbie democrazie che nascono sui conformismi asiatici”. Le caste, già.
Un pamphlet che ha venticinque anni, ma niente è cambiato, se a élite si sostituisce la società civile, i belli-e-buoni della nazione.
Elena Croce, Lo snobismo liberale

Fisco, appalti, abusi – 29

Il global tax rate del reddito per un’azienda anche minima è in Italia pari al 60 per cento, 70,5 per il settore energia. In Germania del 45 per cento in media.
Il costo dell’energia a uso industriale è nell’Europa dell’Est, dalla Serbia (paese chiuso) alla Polonia, la metà che in Italia. In Germania è inferiore del 20 per cento.

Un quarto della bolletta elettrica in Italia sono le accise a favore delle energie rinnovabili. Senza effetto sull’inquinamento, ma a favore di un’“industria delle accise” stesse.

Le legge impone agli enti previdenziali, per bilanciare l’inflazione, investimenti in immobili e altri cespiti patrimoniali “solidi”. Di cui tassa però le plusvalenze, al 20 per cento. Caso unico in Europa.

Poniamo che dal Parco dell’Uccellina, dove sono stati trasferiti e allevati – prima non ci sono mai stati – per costituire la cosiddetta catena ecologica, i lupi sconfinino altrove tutt’attorno. E vi uccidano le pecore. Non è la più grande disgrazia, è la prima di una serie. Bisogna fare una denuncia ai carabinieri e anche alla Asl. Bisogna aspettare la visita dell’anatomopatologo che sancisca le cause della morte. Bisogna perimetrare, scavare e cementare dei loculi per una sorta di piccolo cimitero. Dopodiché seppellire e coprire le carcasse.

Perché la catena ecologica si limita a lupi, cinghiali, daini, vipere e cornacchie? Non ci sono allevamenti di altri animali da foraggiare?

Il custode della multiproprietà rifiuta la bolletta di Eni Gas & Power perché “i signori non hanno il gas”. Creando i soliti problemi, di luce tagliata etc, di cui pare non ci si possa più lamentare perché la privatizzazione li ha resi correnti. Eni avrebbe dovuto mandare la fattura all’indirizzo di residenza, come da contratto, ma questa è inefficienza trascurabile. Però: perché non si chiama Eni Gas & Elettricità? Tanto più che è un’azienda solo italiana.

I prepensionamenti si fanno a carico dello Stato. L’Inpgi, istituto di previdenza dei giornalisti, calcola che dai 12i trattamenti in essere nel 2009, i prepensionati sono cresciuti di 226 nel 2010, di 138 nel 2011 e di 95 nel 2012. Per un totale di 471. Di cui 459 in solo tre anni.
I prepensionamenti sono stati disposti a favore delle aziende più ricche del settore, la Rcs e Repubblica-L’Espresso, previo riconoscimento dello stato di crisi da parte del ministero del Lavoro, benché abbiamo continuato a pagarsi un dividendo. Con una spesa per lo Stato di 43 milioni.

Il Verde perde

In Germania la Bosch ha perso un miliardo e mezzo in pochi anni e chiude il settore energie alternative. Malgrado gli incentivi altissimi e i prezzi di riacquisto dell’energia. In Italia si continuano a seminare pale eoliche, e milioni free, senza effetto sull’ambiente e anzi con nuovi vincoli, a spese dei consumatori, e soprattutto delle imprese.
In Italia l’errore si riconosce con difficoltà – non per nulla la Germania è sempre avanti. Ma una vera spending review dovrebbe riesaminare anche i vincoli al consumo e il quasi miliardo di contributi a fondo perduto all’energia verde. Anche perché comincia a porsi un problema dei rifiuti, dei tanti impianti fotovoltaici presto desueti. Forse Tokyo è un bluff, la copertura di un settore industriale come gli altri, non più pulito. E l’Italia non può permetterselo.

domenica 19 maggio 2013

Problemi di base - 142

spock

Sarebbero finiti la Dc e il Psi con Andreotti al Quirinale?

Perché non c’erano andreottiani in Tangentopoli?

Perché Bonifazi, amico di Andreotti, gestiva il tangentone Enimont per conto del resto della Dc e del Psi?

Che si dissero Andreotti e Di Pietro quando il giudice, in via eccezionale, venne a trovare l’onorevole a Roma?

Mancano i giudici tra i 178 testimoni, tutti eccellenti, dello Stato-Mafia – le eccellenze per definizione. È una dimenticanza?

Tutti eccellenti a Palermo, ma il titolo non è abolito da Umberto II, e poi da Napolitano?

I conventi a cinque stelle per ministri sono ecocompatibili?

spock@antiit.eu

Il Centro sacro

Sabato mattina la zona Est di Roma è stata presa dalla Fiom. Il pomeriggio il papa ha preso la parte Ovest della città. Impossibile spostarsi, a meno di non attraversare il Centro. Che però è rimasto impenetrabile, il sabato lo è fino alle tre di notte. Una giornata quindi di code sterminate,  di ingorghi, perché il sabato i vigili non lavorano, e moltiplicazione esponenziale dei fumi.
Non è la prima volta e non è un caso eccezionale. Roma è probabilmente la città italiana che si amministra meglio, ma anche’essa bene e male - male e anche malissimo quando non è amministrata con polso fermo (lo “statale” a Roma ha più arti che altrove per “lavorare a non lavorare”). Ma è preda come tutte le città dei riti dell’ecologia: il Centro Storico è sacro. Anche  se a Roma è vastissimo. Anche a costo della moltiplicazione dell’inquinamento. C’è chi la vacca sacra e chi il Centro sacro
In realtà, come in tutte le applicazioni dell’ecologia, la chiusura dei centri storici ha fini mercantili: adibirli a isole pedonali, centri commerciali all’aperto. Ma, con tipica ristrettezza mentale, anche a costo di avere un Centro vuoto come ieri avveniva, un deserto.

L’amore di Stendhal, forte, è immaginario

È il canovaccio del romanzo, il suo primo, che Stendhal stese in un pomeriggio del 1919. E poi non scrisse perché era in realtà una dichiarazione d’amore, che avrebbe voluto far leggere alla donna di cui “perdutamente” s’era innamorato – Stendhal si perdeva sempre nell’amore. Non fosse che lei, Métilde Viscontini Dembowski, non ne volle sapere, benché single ancora giovane, divisa dal marito – lei come tutte le altre di cui Stendhal si era o si sarebbe innamorato.
La riproposta di questo inedito, esumato nel 1905 sulla “Revue Bleue” da Paul Arbelet, è per gli stendhaliani, che sempre sono tanti. Ma: Stendhal, che ha scritto tante belle storie d’amore, perché non ne ha vissuto nemmeno una?
Stendhal, Roman (1819), La vita Felice, pp. 109 € 9,50

Il deficit di rappresentanza è Trilaterale

Si discute dell’efficienza dei sistemi politici partendo da presupposti sbagliati. Che poi sono uno: la crisi della democrazia. La “post-democrazia” (Colin Crouch), la “mucca pazza della democrazia” (Alfio Mastropaolo),  la “democrazia liquida” (Baumann?), il populismo, e il berlusconismo-grillismo, o mediatizzazione, la politica dei media e i sondaggi.
Ma la discussione si fa su basi false. Non innocenti, comunque a fini di parte, ideologizzati. Le sue basi sono nella Trilaterale, il consesso di uomini e enti del capitalismo promosso nel 1973 da Nelson Rockefeller, uomo politico, repubblicano liberale, della famiglia dei petrolieri. Che pose al centro del dibattito le forme della rappresentanze nelle società industriali avanzate. In una col parallelo, e affine, dibattito sui limiti alla crescita del Club di Roma, animato da Aurelio Peccei, ex manager della fiat in Argentina, ma centrato sulle proiezioni di Leontief e dell’incipiente industria Usa della conservazione.
La Trilaterale era una reazione alla contestazione (da Hannah Arendt già studiata nella forma della “disobbedienza civile”), che aveva fatto “perdere” la guerra del Vietnam, e in previsione del multicentrismo, di quella che sarà chiamata la globalizzazione. “La crisi della democrazia” fu nel 1975 il primo rapporto della Trilaterale, redatto dal direttore Zbgniew Brzezinsky, centrato sulla “definizione della «governabilità»”. Brzezinsky, futuro segretario di Stato,  portava il “Federalist” a supporto, con John Stuart Mill e Ralph Dahrendorf, per evitare quella che chiamava la “democrazia anomica”, al meglio un “consenso senza scopo”. Il teorico del raggruppamento era Samuel Huntignton, famoso all’epoca per vaticinare il conflitto di civiltà, tra l’Occidente (Usa-Europa) e il resto del mondo. La Trilateral dubitava che le democrazie fosse governabili, insidiate dall’anomia. E ipotizzava che  bisognasse “limitare” la democrazia, che gli affari sarebbero andati meglio per tutti se lavoratori, neri e poveri avessero contato meno. Puro Orwell, “1984”: “L’aumento della ricchezza minaccia le gerarchie mondiali”.
La democrazia è in crisi in Italia
La “crisi della democrazia” viene dunque da lontano, e ha radici conservatrici. È anche limitata e non universale. In Europa solo l’Italia se ne può dire affetta. Altrove le costituzioni e le rappresentanze politiche reggono, e prendono anzi decisioni importanti. Per esempio nella Gran Bretagna di Margaret Thatcher, e poi in quella di Blair, che si sottostima, o nella Germania di Schröder. La democrazia funziona in tutta Europa, e quindi funziona, poiché stiamo parlando di un mondo ancora chiuso seppure globalizzato: le democrazie saranno alcune diecine nel mondo, e per due terzi sono europee. La Trilaterale ha del resto cessato presto le sue riunioni, avendo gli Stati Uniti dopo nemmeno dieci anni reintegrato la marcia del consenso nazionale e dell’egemonia senza contestazioni. Fino alla formidabile “prova democratica” dell’elezione di Obama nel 2008.  
La crisi è un’anomalia italiana, dunque. E ha cause precise. Che però non si vogliono vedere, per primi gli studiosi di scienza politica. Si dice che la causa è Berlusconi. Ma Berlusconi è un effetto e non la causa. Lo è sempre stato ma nelle elezioni del 24 febbraio in modo incontestabile. Già prossimo al ritiro, se fosse stato al Giro d’Italia, fu portato vincente al traguardo da quella che è la vera causa della crisi italiana: il postcomunismo.
L’Italia aveva un enorme partito Comunista, molto più imponente e importante della sua pur vasta base elettorale, e lo mantiene, nelle forme della faziosità, dell’intolleranza, dell’odio, dell’oltranzismo. Una orwelliana “politica dell’odio” che ha avvelenato senza ipocrisie le votazioni presidenziali.Col sostegno infetto di una giustizia ancora fascista, di toghe e ermellini, al di sopra delle leggi. E con quello truffaldino dei media, la cosiddetta opinione pubblica, che al meglio è autoreferente: la Rai, che è il nodo del traffico d’influenze,  e la grande editoria, di Mediobanca, Bazoli, Fiat, Caltagirone, Confindustria e, curiosamente, lo stesso Berlusconi (Mondadori, Mediaset). All’insegna del “tutto pur di non essere governati”: l’Italia come zona franca, di bande e banditi. 

Il sistema Mediobanca distrugge valore

Si ponga mente all’implosione di Rcs, da maggior gruppo editoriale al solito aumento di capitale senza un’idea o un progetto. Non è difficile, lasciandosi da parte la garrula superficialità giornalistica, degli stessi giornali Rcs: è un fatto evidente e drammatico. Ed è l’ultimo di una serie di fatti evidenti e drammatici, tutti chiusi col fallimento o minacciato fallimento. Tutti a opera del “salotto buono”, la “crema”, la “galassia” del migliore capitale italiano. Prima stretto attorno a Cuccia ora intorno a Bazoli. Della Milano buona, la capitale morale d’Italia. Sempre unanime, sempre chiusa, sempre fallimentare – e forse non per incapacità.
Una galassia velenosa peraltro per i reietti. Pochi ne sono rimasti fuori e ancora sopravvivono. Anzi, solo Berlusconi e la Fiat di Marchionne – il ragioniere italocanadese che doveva liquidarla e invece è riuscito a rilanciarla, evidentemente non era difficile, bastava liberarla dalla grinfie del salotto buono. Ma non è detto, il salotto non dimentica e alla fine uccide, da ultimo Fazio, Profumo, Geronzi, don Verzé.
È la Milano asfittica che ha chiuso il credito - solo si occupa dell’aumento di capitale del “Corriere della sera”, una questione di potere. In cui Bazoli si é sostituito a Cuccia, l’uomo di sacrestia al laico sulfureo, ma con lo stesso tasso di sterilità. La Cariplo del pio Giordano Dell’Amore poteva vantare la creazione di 350 mila aziende nei trent’anni al 1980, il raggruppamento di Bazoli, forse non altrettanto pio, che la Cariplo ha cannibalizzato, non può vantarne un millesimo in questi suoi trent’anni, e tanto più se si contano i fallimenti che provoca.