Con perfidia presaga, Giorgio Mulé aveva
scaricato già tre settimane fa online, dopo la condanna irrogatagli dalla
giudice Interlandi, cosa aveva detto Messineo interrogato a Milano sulla sua
causa penale per diffamazione. Dall’interrogatorio si arguisce che al Pubblico
ministero “dottoressa Mentasti “ (la dottoressa si chiama Lorena, ma non ha
nome), che evidentemente poi ha chiesto la condanna, la questione non interessa.
Che alla giudice Interlandi interessa poco: ogni tanto si distrae e trova
troppo lungo l’articolo di “Panorama”. Che Messineo conferma che non solo “Panorama”,
ma anche “La Stampa” e “Repubblica” lo avevano trattato male. Ma soprattutto
che il Csm lo aveva già scagionato di tutte le vicende di cui ora gli fa colpa.
Si può cambiare opinione, ma chissà perché il Csm lo ha fatto alla (quasi)
unanimità.
Buona parte dell’interrogatorio, soprattutto quello
dell’avvocato Smuraglia che rappresentava lo stesso Messineo, riguarda la
divisione alla Procura di Palermo fra “caselliani” e “grassiani”. Una faida,
non c’è altra parola. Qualsiasi altro giudice ne sarebbe rimasto impressionato.
sabato 15 giugno 2013
Il giudice da non credere
Il giudice con la barba Oscar Magi ha scritto
al “Corriere della sera”. Contro un articolo di Ostellino. Una lettera più
lunga dell’articolo. Laicità oblige e
Ferruccio de Bortoli l’ha messa in prima pagina. Senza replica di Ostellino.
Cui ha concesso oggi di rispondere nella pagina dei commenti.
Dice il giudice Magi che lui (ma precisa: “il
collegio” - cioè lui e la giudice Guadagnino, che sempre s’infila nei processi
di Berlusconi) non ha condannato Berlusconi perché ha pubblicato la frase di
Fassino a Consorte: “Abbiamo una banca”. Ma perché ha pubblicato una frase. Mettiamo
che Fassino avesse detto: “Oggi è una bella giornata”., e Berlusconi avesse
pubblicato la frase, il giudice con la barba, pardon “il collegio”, l’avrebbe
condannato uguale. Sarà vera la barba del giudice?
Ostellino, probabilmente l’ultimo panda
liberale allo zoo, merita leggerlo per intero:
http://archiviostorico.corriere.it/2013/giugno/15/Segreti_ufficio_liberta_giudizio_co_0_20130615_986ede76-d580-11e2-96ac-a92e9f2e217a.shtml
Ma anche il giudice con la barba merita la lettura – anche se per il lettore-contribuente la lettura sarà un torcibudella:
http://archiviostorico.corriere.it/2013/giugno/15/Segreti_ufficio_liberta_giudizio_co_0_20130615_986ede76-d580-11e2-96ac-a92e9f2e217a.shtml
Ma anche il giudice con la barba merita la lettura – anche se per il lettore-contribuente la lettura sarà un torcibudella:
Per chi non avesse voglia di leggere tutto il
giudice, valga l’estratto centrale: “Il contenuto della conversazione, quindi,
è del tutto irrilevante, mentre non lo è il movente che, secondo la sentenza,
ha indotto Silvio Berlusconi a concorrere nella sua diffusione, vale a dire l’offuscamento
d’immagine che ne sarebbe derivata al Pd e all’allora suo segretario, da
sfruttare nella successiva tornata elettorale. L’attività di appropriazione e
divulgazione di notizie che avrebbero dovuto restare segrete, dunque, è reato, indipendentemente
dalla loro eventuale portata offensiva, nei confronti di chicchessia”. Abbiamo
una banca, cioè, è irrilevante. Anche se di eventuale portata offensiva. Non solo, doveva restare segreto.
Questo dopo aver ribadito di aver condannato
Berlusconi per “rivelazione di segreto d’ufficio”. Abbiamo una banca era un
segreto d’ufficio? Di quale ufficio? Roba da non credere.
Compromesso venefico, per i comunisti
“Un’altra maggioranza se Berlusconi decide di
far cadere il governo”. Sembrerebbe ovvio, ma è una minaccia al governo. Il
messaggio che Bersani ha fato passare oggi, con Cazzullo e il “Corriere della
sera”, è che Letta non avrà vita facile. Il giorno dopo che la sua corrente
riorganizzata ha minacciato fuoco e fiamme a Renzi. Sembrerebbe normale
attività politica e invece non lo è.
Il governo alternativo intanto non è possibile.
È quello che Bersani ha ridicolmente tentato per un paio di mesi, e non può
fare affidamento sui transfughi di 5 Stelle. L’ipotesi è un “avvertimento” a
Letta: ti renderò la vita difficile. In tale senso è accreditato dai bersaniani.
Il tutto ha un’aria di già visto. Da vecchia
Dc, si dice. Ma più specificamente da Andreotti, che se le segnava tutte, e
segnò la fine via via di Moro, Forlani, De Mita, la Dc. Il lato oscuro, sporco,
criminale, della vecchia Dc in senso proprio, fra stragi e scandali.
Il compromesso ha lasciato vivi e anzi
irrobustito i democristiani, e ha intossicato i comunisti?
La libertà americana di opinione
Si fanno statistiche mondiali, di vari watch,
osservatori, transparency, su questo o quell’aspetto della vita pubblica: la
libertà d’opinione, i diritti civili, le carceri, la corruzione, eccetera. Di
organismi solitamente inglesi (o olandesi, che è la stessa cosa), oppure
americani. Nelle quali l’Italia, per essere la sede della chiesa cattolica,
viene normalmente collocata verso la fine, tra Palau, per dire, e Vanuatu. Gli Usa,
invece, la Gran Bretagna, i paesi più corrotti, normalmente vengono in cima. È
una colpa che bisogna pagare, e pazienza.
Ma come la cosa si concilia, per esempio la libertà
d’espressione e i diritti civili, con la sorveglianza elettronica di ogni atto,
gesto, o detto di ogni cittadino? Basta digitare due volte una parola
sensibile, bomba, o Israele, o Maometto, e gli Usa immediatamente ci fanno
schedare. Da un giovanotto che non ha nemmeno terminato il liceo. E forse è
spia della Cina, ci dicono ora. Ma non lo smentiscono.
Anche per Wikileaks, hanno perseguito chi ha
pubblico i documenti. Ma a che livello di democrazia dobbiamo collocare i vari
socialwatch e transparency international che assolvono gli Usa, le interferenze
Usa in ogni dove nel mondo? O fanno anch’essi parte del sistema di controllo?
L’autorità è materna
È
la scoperta che Luisa Muraro fece nel 1991, in “L’ordine simbolico della
madre”, dell’autorità “in quanto forza che agisce in maniera inconfondibile dal potere e dal
diritto”. L’argomento può cozzare contro le tante specie di autoritarismi che
l’Europa ha vissuto nei fascismi, ma è un’altra cosa. È un esito della
differenza sessuale. Che ora, un paio di decenni dopo, è incontestata – la
donna in carriera non è tutto e non il più importante (fare la marine, per esempio, è del tutto
inutile, e forse dannoso): “La semplice presenza fisica personale non basta a
modificare tradizioni e istituzioni che rispecchiano una visione mutilata del
mondo”. Nella differenza femminile, la funzione materna (generazione,
gestazione, lingua, cibo, cura) genera autorità: “Il senso dell’autorità inizia
con la relazione materna”. E viceversa, l’autorità arricchisce (sostanzia) la
funzione materna. La riproduzione.
È
un bene? È una necessità. Luisa Muraro si muove tra Galileo, nel nome della
natura, e Montaigne, nel nome dell’io – “«il fondamento dell’autorità» nelle
parole di Montaigne riprese dal suo lettore Pascal, è un genitivo soggettivo:
significa che l’autorità è fondante, non fondata”. In una mezza dozzina di
vignette (istituzioni, scienza, arte, famiglia, costumi, lingua) illustra i
diversi aspetti dell’autorità necessaria o utile.
L’erba voglio
Per
una nata nel 1940, cioè per una del Sessantotto, e una delle prime pedagogiste
antiautoritarie, con Elvio Fachinelli, de “L’erba voglio”, l’autorità cozza col
bisogno totale di libertà. Ma all’apparenza: “L’autorità risponde a un bisogno
di tipo non materiale ma simbolico (simile in ciò alla voglia d’imparare a
parlare, nelle creature da poco venute al mondo)… È un bisogno simbolico ed è
al tempo stesso bisogno di simbolico: di parole, gesti, immagini, arte, poemi,
monumenti, cerimonie…”
Un
ritorno all’ordine. Un altro. Si rivoluziona una vita per poi tornare ai
fondamentali. Succede dunque pure in filosofia, come nella sperimentazione in
letteratura - dove si finisce con Umberto Eco che vorrebbe rifare Dumas.
Qualcosa resta della scintilla, ma spenta, tipo cenere – le riconversioni
raramente convincono, i surrogati.
Le
crisi lo fanno, impongono questi richiami. La guerra civile lo fece con Hobbes,
che Muraro non cita. L’hitlerismo con Simone Weil, e la guerra con Hannah Arendt,
alle quali Luisa Muraro si rifà. Bisogna riprendere il bandolo della
convivenza, e in qualche modo restaurare l’autorità – nel significato di
autorevolezza, per abbreviare, e non di autoritarismo. Simone Weil, alla fine
del percorso che Muraro segue, conclude perentoria in “Radici” che l’ordine dell’autorità
“è sempre gerarchico”. Che è vero, specie in pedagogia, ma Luisa Muraro lo
rifiuta. Con Hannah Arendt concorda sull’essenziale, che “la vita pubblica
senza l’autorità e senza l’indipendenza che questa dà nei confronti del potere,
toglie alla politica «dignità e grandezza»”. Ma non sull’origine “fondativa”,
tradizionale, dell’autorità. Per concludere: “Senza cultura dell’autorità, l’esperienza
di una qualche superiorità altrui genera invidia, dipendenza o ribellismo, e il
principio di uguaglianza diventa piatto: si traduce in un’accanita ricerca
della parità, e rischia la sterilità simbolica, come una pianura in cui le
acque ristagnano”
La sterilità
simbolica
In
“Che cos’è l’Autorità?”, 1954, un quarto di secolo prima della “disobbedienza
civile”, che ne avrebbe alterato le percezioni, in senso libertario non
eversivo, H.Arendt era suggestionata dalla lezione di Alessandro Passerin d’Entrèves.
Italianista a Oxford per ragioni di cattedra, ma filosofo dello Stato, Passerin
d’Entrèves fu l’unico intermediario tra sé e Hobbes che Arendt dopo la guerra
trovava, il quale l’Auctoritas riconduceva
al mito fondante di Roma. L’autorità Muraro vuole minuscola per differenziarla
dalle forme del potere, ma è l’Auctoritas
di Passerin d’Entrèves e Arendt, l’autorevolezza.
Muraro
parte dalla pedagogia, la forma autoritaria più sensibile e più complessa. In
senso proprio, l’educazione dei bambini, dove è totalitaria. E in senso lato,
di formazione continua e della sana epistemologia. Galileo, che per primo e con
successo contestò il principio di autorità rispetto alla ricerca, al “gran
libro della natura”, rinchiuse le due figlie in convento per poter lasciare
tutto al figlio maschio. E d’altra parte, scrivendo “Il Saggiatore”, dove
contesta l’autorità dei libri già scritti, “l’autore Galileo aveva bisogno di
autorità”. Di cui c’è troppo, insomma, e troppo poco.
Muraro
parte dalla pedagogia in quanto “relazione materna”. Una delle “figure di
scambio” in cui si forma la conoscenza. Alla fine “l’autorità non offre
garanzie, ma si offre come un’opportunità, chiede di essere riconosciuta e
praticata per quello che promette. Che cosa promette? Se stessa in quanto forza
simbolica alternativa a ciò che ci schiaccia, persone o cose o problemi,
compresi quei problemi che ci pesano internamente”. Allora attraverso la
psicoanalisi, per esempio, o la fede, la preghiera.
Agli
inizi della breve trattazione, Luisa Muraro sembra credere che l’autorità sia
stata minata dalle verità scientifiche e dalle competenze. Cioè da due
ideologie – “verità” scientifiche? Che per quanto influenti, non sono decisive.
No, è stata minata dalla democrazia sussidiaria, dall’assoggettamento
dell’opinione e dello spazio decisionale del singolo (il voto, essenzialmente)
a gestori nemmeno tanto occulti.
Luisa
Muraro, autorità, Rosenberg &
Sellier, pp.110 € 9,50
venerdì 14 giugno 2013
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (173)
Giuseppe Leuzzi
Cancale
è il posto delle ostriche in Bregagna, gli ostricari si succedono a centinaia con chioschi grandi e piccole, terrazze,
buffet, attorno al vivaio. Se ne possono avere di gustose, per esempio le
belon, a prezzo modico. Se non si chiede il limone: una fettina di limone, sottile,
una goccia per ogni ostrica, costa quanto mezza dozzina di ostriche.
I
campionati nazionali di calcio sono in realtà regionali, la A del Nord, la B
del Sud. Nella A giocano tredici squadre del Nord e tre del sud, con quattro
del centro, Roma e Toscana. In serie B giocano dieci squadre del Sud, e 8 del
Nord, con quattro al solito del Centro.
Le
iniquità sul Nord
Su “Repubblica” Valentina Conte illustra
uno studio della Cna, la confederazione dell’artigianato, sull’eccessiva
pressione fiscale che grava le piccole imprese. Gli oneri sono ugualmente eccessivi,
al Nord e al Sud. La pressione fiscale è alta a Bari e Napoli come a Bologna. Il
piccolo imprenditore a Bologna è il più tassato, ma solo di un punto più che
Roma e di due più che Bari e Napoli. Unico anche il responsabile: il
federalismo fiscale, che ha praticamente raddoppiato gli oneri – quelli dello
Stato non sono diminuiti in corrispondenza.
“Un raddoppio «insostenibile»”, conclude
Conte, “che lascia all’imprenditore solo il 39 per cento del suo reddito (il 30
a Bologna, il 34 a Roma, il 41 a Milano, il 43 a Catanzaro”. Ma dopo una
sintesi di un altro aspetto dello studio, l’incidenza dei diversi valori
catastali nelle varie province, che ora diventa rilevante a causa dell’Imu. La
Cna ipotizza un laboratorio semicentrale di 350 mq., con annesso magazzino e
spazio espositivo di 170 mq.. Il valore catastale ai fini Imu del laboratorio
varia tra i 603 mila euro di Bologna e i 66 mila di Palermo. Quello del negozia
varia tra i 397 mila euro emiliani e i 100 mila di Potenza. “Una variabilità –
una «iniquità», scrive la Cna – che incide sul peso del prelievo locale”.
La Cna inalbera orgogliosa l’articolo di
Valentina Conte in cima al suo sito. Ma solo il capoverso della “iniquità
geografica”. Lo intitola con questa parole, “iniquità geografica” e con quete
lo richiama su google.
Siciliani
contro
Antonio Canepa, che nel 1933 è al
manicomio (voleva invadere San Marino), quattro anni dopo pubblica tre tomi di
“Sistema di dottrina del fascismo” ed è professore di Storia e dottrina del fascismo
e di Storia della dottrine politiche all’università di Catania, poi via via
spia inglese, separatista, comunista, giellino, attentatore, capo militare del
separatismo siciliano. A questo punto, siamo al 1945, ha solo 32 anni. Siamo
quindi al centenario della nascita, che la Sicilia gattona lascia passare incognito.
L’attività di Canepa nella resistenza
sembra inventata, ma non lo è. Ai suoi guerriglieri, giovani di campagna, dava
da leggere e commentare “If”, la poesia di Kipling, seppure in italiano. E un
decalogo di suo pugno. La resistenza – stiamo parlando del 1944, dopo che l’italoamericano
colonnello Poletti, che conosceva i suoi polli, ebbe lasciato l’isola - era
contro l’idea d’Italia, o forse solo della Repubblica.
Nello stesso 1945 Canepa sarà ucciso dai
carabinieri a un posto di blocco. In questo caso scopertamente: sapevano chi
era, e lo uccisero mentre si allontanava in macchina coi suoi uomini, uccisero
solo lui. Tre carabinieri contro Canepa e cinque guerriglieri, che non
spararono un colpo. La bara di Canepa poi scomparsa per evitare le esumazioni è
invece la parte ripetibile del canovaccio.
Canepa in parte era predestinato. Figlio
del giurista insigne e accademico Pietro, e allievo dei gesuiti. Prima a
Palermo, poi nel collegio esclusivo di Acireale. E poi era, naturalmente,
isolano. “Quante volte i siciliani
sono andati al governo, da Crispi a Orlando, che bene ne ha veduto mai la
Sicilia?” è la parte migliore del suo manifesto politico, “La Sicilia ai
Siciliani!”, del 1944.
Andrea
Camilleri, che ricorda Canepa in un testo ripreso nella sua ultima
compilazione, “Come la penso”, vi ripubblica anche un lungo scritto, “Cos’è un
italiano”, che è un pattume dei più biechi luoghi comuni. Rinfrescati come lui
sa, per far ridere, e perciò tanto più irritanti.
Si
penserebbe che sia una parodia, magari mal riuscita, degli stereotipi sugli
italiani. E invece no: Camilleri informa grave che il “saggio” è stato pubblicato
in forma di libro in Germania e in Francia. Si penserebbe allora che ne abbiano
fatto un libro proprio perché risponde alle frasi fatte sull’Italia che hanno
mercato in quei paesi. Ma Camilleri non lo sospetta.
Canepa
redivivo dovrebbe dunque dire: “Da Crispi a Camilleri”.
Ma in
realtà si comincia con La Farina, grande italianista, subito dopo la
liberazione a opera di Garibaldi.
Milano
Sultana Razon, pediatra, 81 anni, moglie
di Umberto Veronesi, ha passato sventure enormi nella sua vita. Ma quella che
più la colpisce nelle sue memorie, “Il cuore, se potesse pensare”, è il marito
che “in macchina disse improvvisamente: «Ti devo fare una confessione. Ho un
altro figlio da quattro anni»”. La colpisce, ancora a distanza di tempo, forse
perché non c’è il nemico da combattere – i nazisti del lager di Bergen-Belsen, il rene malato, il tumore.
Il peggio è ancora meglio dell’Italia,
di Milano, del grande milanese Veronesi, con la sua “casa chica” che fa tanto
Sud America senza rimedio.
Il sovrintendente Lissner lascia la
Scala per l’Opera di Parigi, Senza dubbi. La Scala si dà per
sovrintendente Alexander Pereira, che
nel 2005 aveva rifiutato la chiamata, preferendo l’Opera di Zurigo. Poi Pereira,
austriaco, è finito a dirigere il Caracalla di Salisburgo, la stagione estiva.
Ma Milano si dice lo stesso la capitale d’eccellenza della lirica.
Sui
471 milioni di entrate per multe stradali comminate nel 2012, il Comune di
Milano ne ha incassati solo 135, meno di un terzo. Obiezione fiscale?
Milano
ha molte meno macchine di Roma, 810 per mille abitanti contro 955, una
popolazione che è meno della metà di Roma, e una propensione all’uso urbano
dell’auto inferiore, poiché ha un migliore sistema di trasporto pubblico
metropolitano. Ma ha elevato nel 21012 contravvenzioni per 471 milioni, contro
i 281 di Roma. Che non è la città più incidentata, lo è anzi meno di Milano
(paga meno Rca).
Come
il caffè, la multa è più cara a Milano?
Leggendo
i giornali, si vive in una città che se non è New York poco ci manca. Girando
per la città, è un deserto urbano. S’incontrano anche enormi isolati di
fabbricati abbandonati. Non in periferia, a San Siro: le ex scuderie proprio
sotto lo stadio, un piccolo grattacielo di ferro vetro. In vi Carlo Botta, non
lontano dal Duomo, la piscina storica Caimmi è una discarica – ma ogni tanto la
ripuliscono.
La
città si celebra del design, l’architettura, il trendy. Tra i palazzi
abbandonati, capita d’imbattersi in Piacentini, Viganò, perfino un grattacielo,
la Torre Galfa, trenta piani che sanno di architetto. Che morale ci fa Milano
di queste macerie urbane?
Si
moltiplicano a Milano le scoperte e le condanne della ‘ndrangheta. Che agiva
alla luce del sole. È la ‘ndrangheta che aveva conquistata Milano, o Milano che
se ne serviva?
Non
sarà un’altra guerra di mafie? Chi porta la cocaina ora a Milano?
Non
è facile fare affari a Milano, alla ‘ndrangheta sì. Secondo i tribunali milanesi.
Che non ci dicono però come mai. Gli ‘ndranghetisti sono anche brutti, in
genere – il tipo da cui negli Usa uno non comprerebbe una macchina usata. Non
si nascondono.
La Lega paga a Bossi un “appannaggio”
annuale di 850 mila euro. È meno di quello della regina Elisabetta, ma Bossi è
il re di che cosa?
Non si stracciano per questo le vesti le
vestali lombarde.
La cosa è anche ridicola, ma nessuno ne
fa la satira.
Unicredit tratta, in perdita, anche per
conto della Roma, la squadra di calcio. Lo spiega il presidente del Napoli, De
Laurentiis. Milano si è preso anche il calcio di Roma. Per meglio liquidarlo?
La mafia imprenditrice
In
“L’intoccabile” Marisa Merico tratteggia la sua vita da giovane mafiosa, figlia
e nipote di mafiosi, di Emilio Di Giovane, re della coca (e delle evasioni) a
Milano negli anni 1980-1990, e della nonna Maria Serraino, la madre di Emilio. Maria Serraino, qui sempre la Nonna, con rispetto, con
affetto, fu a suo modo un’imprenditrice di grande successo. Spietata quanto
ogni altro imprenditore di successo.
È
evidente che, in una città e una società molto chiuse come Milano, le Serraìno
fanno comodo, per i rifornimenti di droga, di cui lei dispensava peraltro largamente
i profitti, specie ai tutori dell’ordine, ai giudici come agli sbirri. Quando
il business scantonò nei rapimenti di
persona, fu rapidamente circoscritto e bloccato. E quando il mercato della
droga trovò migliori performer, la
famiglia di Maria fu segata, con arresti e ergastoli.
E
tuttavia Maria Serraìno è senza confronti una imprenditrice di successo. Emigrata negli anni 1960 a Milano col marito e alcuni
figli, analfabeta, dieci anni dopo era la regina del contrabbando nella zona
attorno piazza Prealpi dove abitava, e vent’anni della droga, eroina dapprima,
poi, dopo la morte per overdose di un paio di figli e nipoti, di erba e
cocaina. Al commercio ha infatti applicato i tanti figli, una dozzina, che si
era portati dietro dalla Calabria o aveva fatto a Milano. Un impero che con
difficoltà è stato smantellato negli ultimi anni. E solo grazie alla
collaborazione del figlio più amato, Emilio. Che le ha valso un ergastolo – per
un omicidio che probabilmente non ha commesso.
Questo
- Marisa Merico non lo evidenzia - conferma che il Sud, la donna, l’analfabeta,
il povero, non è fatalista, o il tipo criminaloide di Lombroso e
dell’eugenetica, ma uno a cui sono chiusi gli sbocchi. Un animale come gli altri
– gli animal spirits – ma tenuto in
prigione, in cattività.
La
famiglia mafiosa è stata per Marisa Merico “una scuola privata”. Lo capisce quando, al carcere duro in
Inghilterra a 24 anni, madre di una figlia di pochi mesi, si scopre combattiva.
Una che non molla, tra regolamenti severissimi e compagne di cattività cattivissime
(pluriomicide, serial killer, assassine di bambini, anche dei propri figli). In
questa scuola privata, si rende conto, “dovevi essere forte, far fronte coi
tuoi soli mezzi pur obbedendo alle regole”. E così pure si scopre alla fortuita
liberazione pochi anni dopo: “Ero stata stoica e forte, e decisi di restare
tale per sopravvivere all’esterno”. Diventando scrittrice, di successo.
leuzzi@antiit.eu
Il condono mafioso
Emessa
dall’autorità religiosa e non civile, ma valida anche ai fini civili, a Roma e
ovunque il potere civile vi si acconciasse, la bolla “Taxae cancellariae et
poenitentiariae romanae”, del 1477, è un prototipo di condono mafioso. L’unico
che ancora non si è tentato. A fin di bene naturalmente: l’elemosina cancella i
peccati. L’art. 6 perdona la falsa testimonianza in tribunale, dietro versamento
di un obolo. L’art. 10 la subornazione dei giudici, dietro obolo. Eccetera – a differenza
delle successive indulgenze per l’obolo di san Pietro la bolla non suscitò obiezioni.
Nel
1992 avevamo immaginato in “Fuori l’Italia dal Sud”, con doppia copertina di
Alberto Casiraghi, un supplemento: “Il condono mafioso”. Fuori l’Italia per “risolvere
la questione meridionale”. Il condono mafioso per “risolvere la questione
Italia”: “All’inizio era un’immagine: il presidente del consiglio Giulio
Andreotti, avendo aumentato l’aumentabile, tasse, tariffe, ticket, bolli,
multe, senza far quadrare i conti, si affaccia a palazzo Chigi, si toglie la maschera,
e con essa la romana nasalità, e con voce ferma annunzia il condono mafioso. Poi
l’idea è fermentata, grazie anche a occasionali studi sull’economia del
Cinquecento, il secolo italiano per eccellenza, in particolare le tasse
camerali e il credito, e più specialmente la politica del «vessare per esigere»
(ebrei, ladri, nobili, prostitute). Per riempire la casse prosciugate dal
fisco, lo Stato si rivolge ai mafiosi, e in cambio di una cosa che non costa
nulla, la rispettabilità, ritorna anch’esso rispettabile”. Andreotti non c’è
più, ma il resto sì, peggiorato.
Camilleri,
riscoprendo la “bolla di componenda”, sembra dire che anche questo non
funziona, la crisi fiscale dello stato è insanabile. Ma non si sa mai. Erano
anche gli anni, 1992-1993, dello Stato-mafia: qualche approccio c’è stato?
Andrea
Camilleri, La bolla di componenda
giovedì 13 giugno 2013
La giustizia malata dei giudici
Messineo, dunque, l’uomo di carisma, che scriveva
su “Repubblica” e parlava alla Rai, era un mafioso. Non un concorrente esterno,
o un associato, proprio uno dentro la mafia. Se ha evitato la cattura di
Messina Denaro, ha favorito alcuni mafiosi nei processi, ha congiunti stretti
mafiosi, come altro definirlo? Fatto tanto più grave per essere Messineo Procuratore Capo di Palermo.
Il Csm lo dice, e non abbiamo motivo di dubitare. Ma perché non lo arrestano?
Come minimo.
C’è
operò anche l’ipotesi avversa: che il Csm abbia agito contro Messineo
arbitrariamente. Contro un gentiluomo cui rinfaccia accuse infondate, dalle
quali l’aveva già assolto. Per favorire un potere più forte – diciamo Napolitano
(pover’uomo, non voleva la rielezione, e aveva ragione…). Che non è probabile,
ma si può dire.
Perché tutto si può dire, tutto il peggio? Come
mai la giustizia è un troiaio?
La testa del serpente è a Milano
È a Milano la testa del serpente?Appena due
settimane fa tre giornalisti sono stati condannati al carcere, senza le
attenuanti né la condizionale di cui per legge dovevano beneficiare due di
essi, incensurati, per aver detto, in forma attenuata, e senza la parte
criminale e infamante, le stesse cose che il Csm dice a carico di Messineo. La
sentenza è milanese, ed è tutto dire, la città è infetta. Ma in questo caso c’è
di più.
È infetta la giustizia milanese. Che infetta la
giustizia. Un errore giudiziario è sempre possibile, ma quello della giudice milanese
Interlandi non è un errore: è un pregiudizio. Corporativo, anzi castale.
Abietto. Di cui lei non deve rendere conto. Lei come nessun altro giudice, le
sentenze non sono sindacabili. Ma questo solo a Milano. Altrove, per esempio a
Palermo, magistrato mangia magistrato – e le sentenze si sindacano perfino in
anticipo.
Al tempo delle faide sanguinose alla Procura di
Palermo, venti e trent’anni fa, si cercava “la testa del serpente” e non la si
trovò. Ora invece è chiaro: la giustizia ha paura della giustizia milanese. Se
la giustizia fosse una mafia, la cupola, la testa del serpente, il capo di capi
dovrebbe dirsi milanese.
La vita buona è una buona politica
È
il discorso che la filosofa ha tenuto l’anno scorso al ricevimento del premio
Adorno. Molto impegnata contro la politica israeliana nei territori occupati,
la filosofa femminista si pone il problema della giustizia e della libertà nel
sistema generale liberista nel quale tutti viviamo, e in quello israeliano
della violenza di Stato sui palestinesi. Rifacendosi a Adorno.
All’Adorno
del quesito di “Minima moralia”: “Non si dà vita vera nella falsa”. Vita? Vera?
E buona? Detto così, sembra un groviglio più che un problema. La “vita buona” è
un postulato aristotelico, in una concezione della morale legata all’agire
individuale. Adorno, “Problemi di filosofia morale”, lo pone in modo
diverso, ma lo risolve anche lui: “La condotta etica, o la condotta morale o
immorale, è sempre un fenomeno sociale”. E in conclusione: “Tutto ciò che
possiamo chiamare morale si mescola oggi alla questione dell’organizzazione del
mondo. Potremmo addirittura dire che la ricerca della vita buona corrisponde alla
ricerca della giusta forma della politica”.
L’ottica
messianica, nella quale la stessa Butler si pone, si risolve praticamente: si
danno politiche brutte, e bruttissime, e politiche possibili. Meno mercato e
qualche diritto per i palestinesi.
Judith
Butler, A chi spetta una buona vita?,
Nottetempo, pp. 80 € 7
mercoledì 12 giugno 2013
Mani pulite mani sporche
Quelli di Mani Pulite o della Seconda
Repubblica saranno stati i vent’anni peggiori della Repubblica, se non della storia
d’Italia, guerre escluse, col crollo del 1992-94 (1,7 milioni di posti di
lavoro cancellati) e quello senza argini di questi anni, che minaccia di cancellare
l’Italia dalle grandi economie. Generati e alimentati da un branco di giudici
che, al coperto dell’irresponsabilità, suppostamente costituzionale, e all’insegna
della questione morale, hanno disgregato la politica e gli affari. A favore dei
peggiori interessi degli stessi affari e della stessa politica, manovali del furbesco
partito della crisi: nel nome della questione morale hanno assoggettato
l’Italia alla peggiore corruzione mai vista, in Borsa, nelle banche, in
Parlamento, nelle assemblee locali, nei Comuni, negli appalti, al coperto di
legislazioni impossibili, nel sottogoverno (aziende pubbliche, a partire dalla
Rai, autorità, enti, università, ricerca).
La cancellazione delle forze politiche che se
ne fecero scudo e piedistallo, la Lega, l’ex Msi, l’ex Pci, per conto delle “galassie”
lombarde, ingombra ancora il campo di macerie. Ma gli italiani hanno votato,
con l’astensione e con la protesta, e i tre ex partiti non esistono più.
La scomparsa del Pci
L’unico in grado di parlare per loro è un ex
socialista, Epifani. Ha anche la testa sul collo, e sa di che cosa è fatta la
politica. Gli altri sono tutti scomparsi, i figli e figliocci di Berlinguer,
del popolo diverso: stanno lì, e la cosa è raccapricciante, ma è come se non ci
fossero, mummie senza volto, forse imbalsamati viventi.
Il Pd che si pensava ex Pci avrà esalato l’ultimo
respiro col no a Prodi. Dopodiché si è rigenerato confessionale, se non proprio
prodiano. E ha occupato tutti gli spazi con Letta e Renzi – Epifani è un
traghettatore. In attesa di riprendersi il Quirinale: la campagna contro
Napolitano è già cominciata, sulla giustizia e sulle riforme.
Tutto è confessionale. Chi muove il dibattito. Chi muove le risorse. E forse, chissà, pure i voti: quelli di Casini, di Berlusconi, della protesta. L’ex Pci conta ancora nell’editoria, ma ancillarmente agli interessi costituiti: il potere è tornato all’ex Dc.
È il vero buco politico dell’Italia. Tanto
più in questo momento di supposto trionfo della sinistra: la mancanza di una
sinistra. Come schieramento e come proposta. La terza forza socialista è stata
eliminata dall’ex Pci. Che poi si è dissolto.
Tutto è confessionale. Chi muove il dibattito. Chi muove le risorse. E forse, chissà, pure i voti: quelli di Casini, di Berlusconi, della protesta. L’ex Pci conta ancora nell’editoria, ma ancillarmente agli interessi costituiti: il potere è tornato all’ex Dc.
L’italiano nudo Camilleri
Anche qui
Camilleri è facondo, ma a volte divertente, quando non è insopportabile. È una raccolta
di scritti vari, lezioni magistrali, relazioni a convegni, prefazioni, recensioni,
articoli, e non poteva dare che il solito Camilleri, militante e ambiguo. Blagueur amabile, dall’aneddotica lieve
e divertente, e opportunista. Mentre accumula scemenze di saggezza.
Quelle del
“saggio” centrale, “Cos’è un italiano?”, sembrano impossibili – è inutile
riassumerle, sono insensate. Tanto più in una compilazione che segnala non meno
di cinque lauree honoris causa all’autore
del “saggio”, in prestigiose università italiane, in: Storia dell’Europa (qui siamo al
dottorato di ricerca), Psicologia applicata, clinica e della salute, Filologia
moderna, Lingue e letterature straniere, Sistemi e progetti di comunicazione.
Più l’inaugurazione di un anno accademico. Il “saggio”, Camilleri ci preinforma
orgoglioso, è “diventato un libro in Germania e in Francia”. Non per le frasi
fatte? Lui non lo sospetta, poiché l’italiano di Camilleri è Camilleri – che
per questo è anche esterofilo: per Camilleri di buono ci sono i dialetti e l’Estero,
qualunque sia. E i dieci milioni di Montalbano, anche alla terza replica, dopo
le lauree? Questi italiani sono camilleriani.
Però, la
raccolta è di scritti in italiano, volendo si possono leggere. Con qualche
godimento anche. Più frequente nei ricordi di personaggi, siciliani o molto
camilleriani “amici e maestri”. Come Sciascia, che se ne tiene a distanza. “La
difesa di un colore”, del giallo narrativo, italiano e non, è quasi perfetta. L’antiberlusconismo obbligato assurge in più punti al cabaret.
Da ultimo nelle note favole. Dalle quali ha espunto quella in cui augura la
morte al Cavaliere. Non stava bene, essendo il Cavaliere lo stesso che immortala
Camilleri nei suoi “Meridiani” e ne tiene su la linea in convegni e seminari. O
forse perché è cominciata l’appopriazione gesuitica del cadavere del nemico. O
anche semplicemente perché, volendosi comunista, lo scrittore ha scoperto che nessun
comunista vuole la morte del suo nemico, sia pure cattivo. Camilleri lo aveva fatto per sgherzo, perché è siciliano e guitto, mezzo Ficarra Picone.
Dovendo
parlare di lui, poiché è di lui che il libro parla (“Alcune cose che ho dentro
la testa” è il sottotitolo), si conferma che Camilleri non si può dire
ipocrita. È anzi esplicito: il suo compaesano Pirandello amava le maschere, lui
è per l’uomo nudo. Invitato a un convegno del Csm rimprovera i giudici con
asprezza. Ma non si sa vestire. Nel primo gruppo di scritti, sul cinema,
critica naturalmente la Fininvest, che ha “abbassato” la qualità della tv. Per poi
dare voce a un esperto americano che gli rimprovera, in quanto produttore Rai,
“l’assoluta eleganza” di “Studio Uno”, il varietà del sabato sera di Antonello
Falqui: “Voi sprecate cinque, sei star in un’ora. Da noi una star dispone al
massimo di un ospite. Sarebbe troppo costoso produrre e vendere uno spettacolo
simile”. La vera “America”, si sa, è a viale Mazzini - talvolta con l’Iva.
Ha anche qualche
complesso, sembra che il fascismo lo abbia tarantolato. Per essere stato fascista
fino al 1943, ai diciassette anni. Onorato l’anno prima, sedicenne, con l’invito
a tenere una relazione sul teatro giovanile, al raduno fiorentino del Nuovo
Ordine Europeo, le gioventù hitleriane del famigerato Baldur von Schirach. Sembrerebbe
un complesso di colpa, ma Camilleri ha appena plaudito Amerigo Bartoli, altro fascistone simpatico, che su “Primato”,
la rivista del fascismo, nel 1942, anno trionfale, ha ridotto Croce a storico
di “storielle”. Non ha preso dalla sua creatura Montalbano, che non si
angustia, non per la memoria. Ora, poiché è felicemente a un libro a
quindicina, aspettiamo il camilleriano colpo al cerchio e uno alla botte sul
governo delle larghe intese.
Andrea
Camilleri, Come la penso,
Chiarelettere, pp. 340 € 13,90
martedì 11 giugno 2013
Lo scandalo è la spia
Essere stato un agente speciale a 19 anni.
Senza studi e senza competenze. Addetto a una cellula di spionaggio della Nsa,
o della Cia, all’università del Maryland. Con villa alle Hawaii e un contratto dopo
dieci anni di 200 mila dollari. Lavorando da esterno, da consulente. Dopo
essere stato diplomatico spia in Svizzera. Per controllare i provider europei.
Uno
scandalo sicuramente c’è, nello scandalo delle intercettazioni in America: la
figura del denunciante. Non per le colpe sue, ma del sistema. Della Rete si
sapeva, che è un sistema interamente americano, sia vera o non la rivelazione
che lo spionaggio si serve anche dei maggiori server, Google, YouTube,
Facebook, Skype, Yahoo, Aol, PalTalk, Apple, Microsoft. Internet è monopolio Usa in
tutti i sensi: logistico, tecnico, legale, commerciale, finanziario, e per ciò
stesso di interesse nazionale.
Lo
scandalo sarà legale, come dice il presidente Obama. Ma conferma un sistema di
spionaggio di tipo sovietico, cioè totalitario, dall’università alla Rete –
mancano solo i Morosov, i bambini che controllano i genitori, e i
capifabbricato.
Il presidente rieletto va azzoppato
Se
rieletto, il presidente va “azzoppato”. Il termine è improprio, il lame duck è in politica chi, alla scadenza
del mandato e non potendo per un qualsiasi motivo essere rieletto, si permette all’ultimo
momento decisioni impopolari o di potere di cui non pagherà politicamente le
conseguenze. Come un tempo il “gol dello zoppo”: una zampata da chi meno ci se
l’aspettava. Ma è più vero nel senso originario, del gergo di Borsa come lo
definì Horace Walpole nel 1761 scrivendo a Sir Horace Mann: “Sa che cosa sono
un Orso e un Toro e un’Anatra Zoppa”? Per lame
duck intendendosi quello che oggi si chiama il parco buoi, l’investitore
individuale, non coperto da una cordata o un gruppo, e per questo facile preda.
Il presidente americano rieletto, non potendosi
più candidare, è per quattro anni nella posizione del lame duck nel senso proprio della scienza politica: diventa
politicamente irresponsabile, e quindi può prendere decisioni impopolari, o
sciogliere d’autorità nodi controversi. Soprattutto nella politica estera, per
quanto riguarda la questione mediorientale.
È stato il caso di Nixon, dopo che a Kennedy la
rielezione era stata impedita con l’assassinio. Di Reagan con l’affare
Iran-Contra. Di Clinton con Monica Lewinsky. Di Bush jr. con l’atomica
inesistente di Saddam Hussein. E ora di Obama con le intercettazioni – tanto
più per non essere un vero scandalo, non di Obama, non illegale.
Tutte le donne del presidente
Obama è sotto accusa per uno spionaggio legale
per essere inscalfibile alle donne. Non si sa allora se non è meglio uno
scandalo di donne.
È quando non c’è nulla di meglio, infatti, che
si fa ricorso alle donne. Quando non c’è un vero capo d’accusa, cioè, che
colpisca l’avversario legalmente più che nell’opinione. Negli Usa è avvenuto
con Clinton: appena rieletto a fine 1992 (non prima) una serie di relazioni
improprie, in costanza di matrimonio, con donne di più o meno facili costumi fu
fatta emergere: Gennifer Flowers, Paula Jones, Kathleen Willey, Juanita
Broaddrick, Elizabeth Ward Gracen, Monica Lewinsky. L’altro presidente giovane
prima di Clinton, Kennedy, aveva avuto relazioni facili, sempre in costanza di
matrimonio, ma gli erano state perdonate – contro di lui si procedette per vie
spicce. Successivamente, riscontratane l’incidenza facile sull’opinione, lo
scandalo sessuale è stato applicato con larghezza e in anticipo ai concorrenti
elettorali, e perfino nelle camarille tra i generali.
Il procedimento si può dire ora uno standard americano
– Berlusconi pagherà se non altro questa colpa, da “amerikano” convinto, di non
avere imparato questa lezione elementare. Se non si trova traccia, almeno un profumo,
di corruzione, concussione, favoritismi, finanziamento illecito, evasione
fiscale o contributiva (basta una baby sitter non regolarizzata), si ricorre
alla donne. Se ne trovano sempre, di amanti reali, seppure di una notte come
per Clinton, o immaginarie. Ma sempre fantasiose, come le prostitute si
immagina che siano: del lo dico e lo nego, le allusioni, il ricattino,
l’esibizionismo.
Moravia co(mi)nformista
“Il volto
dell’Unione Sovietica è l’austero, grigio, grave volto dell’umanità operaia”. È
un complimento. Ma svagato, come tutto, grigio in proprio. L’effetto di uno dei
tanti viaggi “organizzati”, come usava, tutti uguali. Con la solita scrittura
delle quattro verità: un po’ di sociologia, un po’ d’economia, un po’ di
politica, e un po’ di escatologia. Moravia vi aggiunge la notoria abulia al suo
picco. Dei russi, oltre al grigiore operaio, solo ci dice che il cuore,
solitamente “insondabile e complicato”, essi hanno “insondabile”. Leningrado limita
alla cameretta di Dostoevskij, seppure in dettaglio. Mosca al mausoleo di Lenin
e Stalin.
Locupletata
di un sontuoso apparato storico-critico di molte pagine, tanto più questa
riedizione stringe il cuore. La sorpresa è solo Beria sciupafemmine – questa è
sfuggita a Malaparte. Ma finisce in tre righe. La curiosità è: perché Moravia
vi si è assoggettato, nel 1957, l’anno dopo il ferale 1956? Anzi: perché peggiora
il già malfatato genere? Il viaggio nell’Urss è stato un genere molto frequentato
senza produrre niente che si ricordi - a parte Robert Byron di striscio,
Malaparte pure, e forse Alvaro (Céline e Gide ne fecero l’occasione di una
denuncia politica, ma a essa niente sopravvive nemmeno dei loro viaggi).
Moravia accomuna Majakovsky e Fadeev nel suicidio (specifichiamo: Fadeev,
suicida alla destalinizzazione, è il nulla che sostituì Gor’kij all’Unione
scrittori, per andare ai congressi della pace e acclamato dire: “Se gli sciacalli
imparassero a scrivere a macchina e le iene a usare le biro scriverebbero le
stesse cose di Henry Miller, Eliot, Malraux e i vari Sartre”.). i scrittori, suicida alla destalinizzazione). Parlare
dell’Asia come terra incognita. Albergatrice di religioni rozze e violente. O
dell’ortodossia come una religione di servi. dell’asservimento. Moravia co(mi)nformista?
Alberto
Moravia, Un mese in Urss, Bompiani,
pp. LXVI + 125 € 9,50
lunedì 10 giugno 2013
L’elettore di destra è stupido
L’en
plein della sinistra nelle città, a due mesi da un risultato di parità fra
destra e sinistra nel voto politico, conferma che l’elettore di destra è in
Italia difficilmente mobilitabile: non si entusiasma, non va a votare per le
amministrative – a meno di un interesse diretto. Oggi si direbbe cool. Che dovrebbe essere un
complimento, ma non lo è.
Il successo della sinistra è il successo del governo Letta: gli elettori del Pd questa volta non si sono astenuti – il partito della crisi è in crisi: Berlusconi non basta più, come straccio rosso si è stinto. Ma più che una vittoria della sinistra, questa è una sconfitta della destra. O meglio la conferma della sua stupidità.
Il successo della sinistra è il successo del governo Letta: gli elettori del Pd questa volta non si sono astenuti – il partito della crisi è in crisi: Berlusconi non basta più, come straccio rosso si è stinto. Ma più che una vittoria della sinistra, questa è una sconfitta della destra. O meglio la conferma della sua stupidità.
All’elettore di destra sfugge la basilare
nozione che la sconfitta amministrativa indebolisce politicamente il suo
schieramento. Si dice per questo la
destra qualunquista. Ma non è corretto: è una destra che, pur astretta al ruolo
di avida bottegaia, non si fa i conti. Si veda a Siena, dove poche
centinaia di voti bastavano per un risultato epocale, un sindaco non comunista,
e invece il quasi-eroe ha avuto molti meno voti che quindici giorni fa, un buon
15 per cento dei votanti di allora avendo disertato le urne, benché Siena sia
tutto sommato una piccola città. È una destra spensierata, e quasi
aristocratica. Per questo perdente.
L’opera di Alemanno è di Muti
È difficile perdere come Alemanno. Non solo il Campidoglio
ma tutti i quartieri, i venti o
quindici municipi, ex circoscrizioni,
che amministrano la città. Alemanno ci
è riuscito. E non fortuitamente, come gli era avvenuto di vincere cinque anni
fa, perché allora tutti gli ex Pci si erano rifiutati di votare Rutelli. È difficile
perdere con tale distacco, quale quello di Alemanno nei confronti di Marino,
candidato peraltro improbabile. E soprattutto lasciando gli elettori a casa,
vuoi perché freddi, vuoi perché i capobastone della destra hanno così
consigliato per metterlo fuori gioco. A Roma ha votato un terzo degli aventi
diritto, e quasi tutti per Marino.
Se Roma è la capitale dell’impolitica è forse proprio
per questo sindaco, che sembra non avere capito nulla. Mai un’idea o una cosa
fatta. Collaboratori incapaci, infedeli, corrotti, quasi tutti sotto processo.
Un trasporto pubblico talmente mal gestito che è difficile pensarlo – da ultimo
coi mille autisti che rimpolpano gli straordinari col cachet di scrutatori ai
seggi, lasciando a terra i possibili elettori.
L’unica cosa di questi anni è la resurrezione
dell’Opera. L’Opera lirica. Fa sensazione andare all’Opera e leggere: presidente
Alemanno, vice-presidente Bruno Vespa. Ma ancora più sensazione è vedervi i
migliori spettacoli di questi anni, e soprattutto un organico che era stato
abituato per trent’anni a non lavorare, orchestra, coro, corpo di ballo, amministrativi,
diventato all’improvviso solerte e efficiente. Se non che questo è l’esito della
venuta a Roma di Muti, licenziato dal soviet della Scala, un apulo-milanese. E
di Catello De Martino, il sovrintendente, che da nome si direbbe napoletano.
La destra svanita
Con Alemanno l’ultimo personaggio ex Msi
svanisce. Evapora, senza traccia, neanche la nuvoletta di fumo. È singolare l’inettitudine
politica di Fini e i suoi colonnelli – e da apprezzare tanto più forse Berlusconi,
che ne ha spremuto qualcosa. La destra-destra non ha espresso niente al governo,
di progetti, di legge, di orizzonte culturale: da fascista si è voluta
liberale, ma senza idee. E niente negli enti locali, di buona amministrazione.
A Roma, che generosa li ha più volte votati, non hanno dato nulla e si sono
dovuti subito rimpiazzare: Storace, Polverini, Alemanno, per incapacità manifesta, talvolta con ignominia.
L’unica traccia è antistorica, nei movimenti
migratori che l’ex Msi ha voluto occupare. Dove ha fatto tutto il contrario di
quanto la situazione esige. Con la Bossi-Fini ha reso l’obbligatoria, utile, regolarizzazione degli immigrati un percorso da gioco dell’oca. Mentre col voto
agli emigrati ha rilanciato lo jus sanguinis quando si era fisiologicamente già
spento, alla terza o quarta generazione. Con masse di latinoamericani che ogni
volta, invitati perentoriamente dai consolati, devono chiedersi febbrilmente cosa è il partito Democratico, se non è quello di Berlusconi.
Il cuneo della sinistra Dc
Contro chi rema Renzi? In questo momento contro
i suoi, la sinistra Dc. La sinistra della vecchia Dc, cioè. Non per mettere in
difficoltà il governo, ma per evitare le trappole che lo portarono alla
sconfitta contro Bersani. Questo è un Renzi che conosce bene i suoi polli.
È stato impossibile fare una Grande Coalizione
in Italia finora. E anche le formule che più le si sono avvicinate, il centro-sinistra
e poi il compromesso storico, sono state sempre periclitanti. Per un fatto che
non si analizza: il cuneo della sinistra Dc. Oggi impersonata da Rosy Bindi e
Zagrebelsky, ma attiva da sempre.
È la sinistra del Centro (se si semplifica la Dc
come Centro), che si ritiene esautorata, messa fuori ruolo, dagli accordi tra
grandi forze politiche più nettamente caratterizzate. Un a forza tipicamente di
contrasto, con una posizione di rendita cioè derivata dalla sua localizzazione
in uno spazio mediatore. Che salta se Destra e Sinistra s’incontrano
direttamente.
Le Rosy Bindi e gli Zagrebelsky sono gente
senza voti. Ma così è sempre stato per la sinistra Dc: gente senza voti ma
temibile. Grazie a uno schieramento di potere che ha sempre avuto dietro,
indichiarato ma subdolo. Oggi impersonato dalle banche, con il “Corriere della
sera”, e da De Benedetti, col suo gruppo L’Espresso-Repubblica. Lo schieramento
cioè del governo del non governo, del governo della crisi.
È in questa ottica che Renzi, che voleva
vincere le elezioni per fare la Grande Coalizione, oggi la critica. Non per far
cadere il governo Letta ma per mettere la museruola a questi minuscoli ma
temibilissimi avversari interni.
Essere ebreo per essere italiano
Sei storie
di varia umanità a Firenze e in Toscana tra Cinque e Seicento. Di povertà e
ignoranza, di dileggio e furberia, tra ori potabili e apparizioni, di
conversioni più o meno opportuniste, di un mondo italianissimo nella diversità
- l ‘unico altro, il diverso, fu a lungo in Italia l’ebreo. Che ne fa la
lettura accattivante, benché Toaf non indulga in paradigmi né in indizi.
Un saggio
racconta dell’ebraico tradotto per secoli, contro le intenzioni, nell’italiano
popolare, il romanesco, il fiorentino, a Livorno il bagitto. Ma tutto il libro esprime
una psicologia di radicamento. Naturale senza residui o riserve. Per la lingua specialissima
di questo storico. Nel giro della frase, non da scienziato ma da amabile
padrone di casa. Nella scelta della lingua, non ancora televisiva o
globalizzata, specie nel ricorso - spontaneo, non artificioso – a vocaboli
desueti: i sommommoli caldi, “la bruna torta di ceci – la cecina! – che a
Livorno e Pisa piace bassina e cotta bene”, le ribotte, il caratello… Nella “scoperta”
del lazzo, e non della persecuzione, quale strumento per colpevolizzare il diverso
– gioco reciprocato.
Di più si parla
del ghetto di Firenze. Di storie minute cioè, essendo quella comunità ebraica
piccola e incolore. Ma il vero argomento è la convivenza. Storie vere.
Ariel
Toaff, Storie fiorentine, Il Mulino,
pp. 216 € 16
domenica 9 giugno 2013
Ombre - 179
Di
Alemanno non c’è nulla da aggiungere. Di Marino, che domani sarà sindaco di
Roma, fa sempre senso l’aria assente, al punto di non sapere che Roma ha due
squadre di calcio, nemiche. Ma è sempre quello che, chirurgo d’avanguardia dei
trapianti di fegato, ha abbandonato quindici anni di carriera per candidarsi a
ogni elezione possibile. Non è mai troppo tardi?
Dopo De
Magistris anche il suo capo di gabinetto rientra nell’ordine: il moralista
immorale. Il colonnello dei carabinieri Auricchio è accusato di appalti di
favore per le regate dell’America’s Cup. Famoso per le inchieste fasulle
costruite con De Magistris a Catanzaro, e poi per gli ascolti selezionati su
Calciopoli. La Juventus sì, l’Inter no, e Collina non ne parliamo, che ogni
settimana andava a pranzo con l’uomo del Milan, e dallo sponsor del Milan,
Opel, s’era fatto dare una ricchissima consulenza.
L’indagine
sugli appalti napoletani per l’America’s Cup è condotta da Francesco Greco, uno
dei pochi giudici che si sa muovere nei reati economici. Gli indagati sono
importanti. Le cifre sono imponenti, 10 milioni. Ma non fanno notizia. “Repubblica”
ci fa tre servizi, ma solo il giorno degli avvisi. Il “Corriere della sera”
uno, striminzito, e niente più. Non che manchi lo spazio: una pagina è per le
fidanzate di Berlusconi, non nuove.
“Nel linguaggio cifrato che Berlinguer usava
per inviare messaggi al Vaticano”, scrive Lucrezia Dell’Arti su “Sette”, “il segretario era «il rettore
dell’università», Paolo VI il «prete bianco», e mons. Giovanni Benelli, omonimo
di una marca di moto, il «motociclista»”.
Il
titolo è: “Ciao Enrico, profeta della questione morale”. Profeta di che morale?
Sempre
Lucrezia Dell’Arti su Berlinguer profeta: “Quando Bettino Craxi, accompagnato
da Gianni De Michelis, andò a trovare Berlinguer in coma a Padova…. la moglie e
i figli si rifiutarono di incontrarlo”.
“Sette”
dà Gianni Clerici, del tennis, professore di Ironia e Classe all’università di
Pavia. Senza ironia. Con classe?
Gli
intercettatori italiani si scandalizzano delle intercettazioni Usa. Autorizzate
da Obama, che sarebbe il loro idolo. Un caso di split personality? No, d’ignoranza: il grande orecchio è uno. Se
cessa in America cesserà anche in Italia.
“Ho trattato
Marquinhos e Lamela con Unicredit”, dice De Laurentiis, il patron del Napoli:
“Ho offerto 40 milioni. Ma loro volevano darmi Osvaldo”.
Unicredit,
la banca. Queste banche spolpano tutto, ora anche il calcio dopo il “Corriere
della sera”.
“A proposito
di cause”, chiede “La Nazione” a Di Pietro, “perché non ha querelato «Report»
come aveva promesso?” “La causa penale non serve a niente. Io faccio solo cause
civili. Quella contro «Report» la stiamo preparando, e mi interessa molto per
ché la Rai si soldi li ha”.
Valori
del portafoglio – la questione morale all’italiana.
Con
caratteristica disinvoltura Gustavo Zagrebelsky scomunica il
semipresidenzialismo: “Semipresidenziale è pure la Russia di Putin”. Senza dire
che l’Italia non è la Russia.
Però Zagrebelsky
non ha torto: da vecchio professore e giudice costituzionale democristiano,
della Dc più integralista, è diventato un’icona della sinistra. Dove è stato
infiltrato dal “partito della crisi”, per “difendere la costituzione”, cioè per
impedire all’Italia di sopravvivere. La Russia l’avrebbe tollerato?
“Nuova
pista o tutti a casa”, intima il presidente della Regione Toscana Rossi, Pd, al
sindaco di Firenze Renzi, Pd. Non una pista politica, ma quella dell’aeroporto
di Peretola. È un ultimatum di quattro anni ormai, da quando Rossi s’è
insediato, con Renzi. Una riedizione dei duellanti? All’insegna della novità. E
della buona amministrazione.
Corrado
Clini, manager cattolico della sanità e direttore generale del ministero
del’Ambiente, di cui è stato ministro, dice che i giudici di Taranto hanno
colpevolmente ritardato di sei mesi l’avvio del risanamento del siderurgico.
Come non detto, i giudici sono intoccabili.
Matteo
Renzi dà gli incarichi a piacimento – a chiamata diretta. È la prassi politica
peggiore, il fulcro del sottogoverno. Ma lo sappiamo per caso, perché una sua
nominata s’è fatta beccare a copiare il tema nel finto concorso d’assunzione. E
senza scandalo. Questa politica è nuova per essere vecchia?
La
Fondazione Lorenzo Guarnieri paga una pagine del “Corriere della sera-Firenze”
per protestare contro la condanna mite a un ubriaco drogato che tre anni fa in
macchina uccise il giovane ventenne cui la Fondazione è intitolata - per la
prevenzione degli incidenti. Sia il giudice che la Procura ritengono
l’alcolismo e la droga attenuanti e non aggravanti.
La Pubblico
Ministero di Napoli De Luca si aggrappava all’astrologo, quand’era in servizio a Potenza dieci anni fa. La capitale
lucana dev’essere pestifera , anche l’altro Pubblico Ministero napoletano,
Woodcock, smaniava, lui con processi inventati. Su Potenza poi vigilava un
altro napoletano eminente, De Magistris, in esilio a Catanzaro. Che intercettò
tutta la Lucania. Eccetto la Pm De Luca.
Si
pubblica la sentenza che condanna Berlusconi per la pubblicazione della
telefonata di Fassino su Unipol-Bnl, e
non c’è dubbio. Berlusconi è condannato, anche se non è parte del “Giornale”,
per la pubblicazione di un segreto investigativo. È la prima condanna del
genere in Italia, e dunque merito va dato al giudice Magi, e alla sua vice
Guadagnino, che su Berlusconi non transigono, almeno su di lui.
Almeno
una cosa vera Luigi Bisignani la dice a Madron nel libro intervista che hanno
pubblicato: il napoletanismo accentuato del giudice Woodcock. La giustizia pazzariello.
“Clientele,
tangenti e burocrazia. Sono questi i problemi da porci”, titola il “Venerdì”.
Da porci nel truogolo?
La virtù delle donne è la misura
Un piccolo trattato della parità dei
sessi. Contro lo stereotipo, di origine classica, della donna fragile, umorale,
cosmetica. O lo stereotipo rovesciato delle folli tragiche. Senza militantismo,
pro o contro, e senza rovesciamento dei fronti: non la guerra dei sessi ma una visione simbiotica. Oggi per questo
trascurato, ebbe grande fortuna in tutto il Rinascimento, da Baldessar
Castiglione a Montaigne, e nella querelle
delle saccenti alla corte di Francia nel Seicento.
Il catalogo delle buone donne non è nuovo.
C’è in Omero, che ne fa passare le ombre in rivista a Ulisse, al canto XI
della “Odissea”, vv. 225-330. Ma questo è moderno, anzi contemporaneo. Ventisette
ritratti di società femminili o di eroine, normali: razionali, coraggiose,
padrone delle emozioni. Senza l’agiografia: Plutarco è narratore esperto,
sa intrattenere con punti di vista, stratagemmi, tipologie, stati civili
(alcune donne sono “barbare”, una è prostituta). L’aneddoto è ricorrente, che
durerà fino a Caterina Sforza sugli spalti di Imola assediata da papa Giulio
II, delle gonne alzate, per ricacciare i vigliacchi (“non potrai rientrare
qui”) e sfidare i cattivi (“ce n’è sempre un altro”), ma senza scurrilità
naturalmente. Tutto naturale in
Plutarco, cioè misurato.
Plutarco, Virtù delle donne, Il Melangolo, pp. 87 € 9