sabato 29 giugno 2013

La meravigliosa tragica vita inesistente

Una vita immaginaria vera che è uno scrigno di sorprese e gentili ironie, incluso della vita e delle biografie - dell’arte di scrivere. Di un candido senza nome, senza nascita, senza luogo, senza arte, senza voce, che si condanna a morte – quando la rivulsione arriva, che lui attende, i rivoluzionari lo fucilano. Di un uomo politico e scrittore di cui Mao rivendicherà l’eredità nella “rivoluzione culturale”, contro tutte le verità.
È anche, curiosamente, un Pulcinella, le busca sempre. A conferma che la Cina è Napoli, seppure in grande? Gusto melodico, spaghetti, manualità, pirotecnia, teatro, industria delle copia, con Pulcinella fanno più di un artificio. 
Lu Xun, La vera storia di Ah Q, Robin, pp. 127 € 5 

O Torino o morte

È un aggiramento, di Bazoli più che del velleitario Della Valle, in vista di un armistizio. Oppure è l’inizio di una rivincita di Torino su Milano, dopo la resa senza presidi dell’Avvocato Agnelli con Romiti. Se così fosse, sarebbe una buona notizia per l’Italia: Torino, che ha già ripreso con la Chrysler il suo tradizionale ruolo d’innovazione e crescita (finanza, organizzazione produttiva, globalizzazione), rispetto alla tardigrada, affaristica, cinica Milano, è un’apertura di speranza per l’Italia.

Perimetrare Bazoli non è però un partita che si possa concludere qui. Nessuno c’è riuscito in questi venticinque anni, a partire da Cuccia. E si può essere certi che il banchiere reagirà. Ha un pelo sullo stomaco alto fino al cielo, e quindi si possono anche prefigurare sfracelli. Nella sfida con Torino è riuscito far condurre al “Corriere della sera”, con Mucchetti e senza, e malgrado la direzione del non antipatizzante de Bortoli, una insidiosissima campagna contro Exor e la Fiat. 

Figura eroica di imprenditore lombardo

Muore Rotelli, subito dopo aver venduto la proprietà del “Corriere della sera” a John Elkann, e non si dice perché. Né perché l’aveva comprata, rimettendoci. Né come è diventato padrone di diciotto ospedali, compreso il gigante San Raffaele. Si dice che aveva ereditato una clinica dal padre chirurgo. Ma dal padre aveva ereditato debiti, e di suo era un funzionario della Sanità lombarda.
La verità non si può dire? Che era l’uomo di paglia di Bazoli. Rotelli ha comprato tutto senza mai un debito in banca.
Rotelli ha pagato il San Raffaele 725 milioni, che il suo giornale dichiarava tecnicamente fallito – fallito un gruppo che fatturava come la Rcs e aveva debiti per meno della età, 320 milioni. Ma si sa che i devoti sono tra di loro feroci.

Il gruppo Rotelli fattura 850 milioni. Dei quali 700 sono assicurati dalla Regione Lombardia. Senza scandalo.

venerdì 28 giugno 2013

Mani Pulite fece le prove con Sofri

Oggi venticinque anni fa il giudice Pomarici formalizzava il caso Sofri, l’imputazione a Sofri dell’assassinio Calabresi. Il colonnello Bonaventura, che ne fu l’artefice, è morto, ma tutti gli altri attori del caso sono vivi, giornalisti, giudici, testimoni, e potrebbero raccontare la verità. Marino soprattutto, che non è perseguibile, un bel libro di memorie potrebbe scrivere. A sgravio di coscienza. Nell’attesa riepiloghiamo il fatto.
“Per il sostituto procuratore Ferdinando Pomarici non ci sono dubbi: Leonardo Marino dice il vero quando confessa daver guidato lauto, quando accusa Ovidio Bompressi d’aver sparato, quando dice che i mandanti furono Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Undici mesi esatti dopo i mandati di cattura, diciassette anni dopo lomicidio, linchiesta sulla morte del commissario Luigi Calabresi è chiusa” – “la Repubblica”, 29 giugno 1989. Ma il vero processo è ancora da fare.
Subito le indiscrezioni passate all’“Unità” e a “Panorama”. Ogni pochi giorni una notizia scaccia notizia, tutte infondate, tutte gravi: covi di armi, cascine nascoste, l’arma del delitto, testimonianze anonime sicure, partigiani sbandati, arresti e controarresti. Infine, dopo un anno, l’accusa formale. La fantasia malvagia non difetta, o l’arsenale della disinformazione: “Panorama” era allora di sinistra, la scelta dei cronisti giudiziari mostra in radice la “costruzione” del caso. Era tutta qui l’“inchiesta” di Pomarici. Col patrocinio di Borrelli, il futuro Grande Inquisitore, inaugurando la serie di processi, di fonte quasi sempre oscura, che s’imporrà come Mani Pulite. Col sistema dell’indiscrezione pilotata, prima che la vittima possa difendersi.
Nella fattispecie, il rinvio a giudizio inaugurava una serie di dibattimenti che resteranno una vergogna del sistema giudiziario, con giudici violenti in aula, irridenti nelle sentenze, o apertamente truffaldini. Una sentenza d’assoluzione fu scritta in modo che venisse cassata. A carico di uno che sicuramente non ha organizzato, né chiesto, l’assassinio di Calabresi. Senza nessun riscontro, l’arma, le automobili, i testimoni oculari, Dario Fo ci poté fare una “commedia” piena di mancanze, col tempo e le distanze variabili. Sull’unica prova dell’accusa di Marino, livorosa ma incerta. Si doveva colpire Sofri, e fu fatto. La controprova è che i suoi correi, Bompressi e Pietrostefani, vennero trattati l’uno con clemenza, dopotutto era per l’accusa l’assassino, l’altro nemmeno cercato, al suo lavoro in Francia. Anche Marco Boato e Paolo Liguori furono inclusi nell’eliminatoria, ma in qualche modo la scapolarono – Marino, per loro come per gli altri, a giorni ricordava a giorni no, ma per loro alla fine fu deciso per il no.
Il caso dei servizi
Il giudice Pomarici lavorava con i servizi segreti. Il colonnello Umberto Bonaventura, carabiniere, veniva dalla famigerata divisione “Pastrengo”, quella dello stupro di Franca Rame, ed era dei servizi segreti, specialista della controinformazione – tratterà lui il “Dossier Mitrokhin”, che infamerà non pochi giornalisti onesti. Collaborano (collaboravano) con i servizi molti dei sodali di Sofri – forse non molti, ma alcuni sì. Nacque con questo caso la commistione letale media-giudici. Letale per la democrazia, i condannati in genere poi vengono recuperati - quelli disponibili, non Moro per esempio.
Molto si fa pesare, specie dall’ex Pci, la violenza della campagna di stampa di Sofri contro Calabresi. Ma un assassinio non è un articolo di giornale – a parte il fatto che le responsabilità di Calabresi, che c’erano, non si sono volute cercare, nella detenzione di Pinelli e nell’imputazione degli attentati agli anarchici, solo la sordida curia ambrosiana può pensare di beatificarlo. Per restare a Milano, e al connubio giudici-media, la violenza delle sentenze Magi e Turri contro Berlusconi è ancora più sproporzionata. E tuttavia, se qualcuno uccidesse Berlusconi nessuno potrebbe dire che i giudici sono stati i mandanti. Nessuno del resto imputa all’ex Pci e ai suoi editori e giornali, i beneficiari del conto Rodetta e delle altre tangenti svizzere liquidate con l’Urss, tramite Valerio Occhetto e Vittorio Veltroni, i “fratelli minori”, le loro violente campagne di stampa - l’ex Pci ha molto da farsi perdonare, prima, durante e dopo la caccia alle streghe, ma questa è un’altra storia.
Sofri ha deciso di non far valere le sue ragioni. E anzi, onestà vuole che si dica, di stare coi suoi persecutori. Ma quelle della giustizia non si possono obliterare: un giorno bisognerà rifare il processo Sofri. Non per la giustizia, che è dei giudici, cioè di una corporazione fascista. Ma per la verità. E soprattutto mettere a nudo, prima che i comprimari se la squaglino, giudici, giornalisti, spioni, lo squallore che lo ha ispirato, se non fu un  progetto eversivo.

Il Nord vittima del Sud

Vito Teti ripropone l’antologia sulle “Origini del pregiudizio antimeridionale”. Con una’ampia introduzione per i quasi vent’anni trascorsi – il libro, scritto nel 1992, uscì vent’anni fa, nel 1993, in pieno spolvero del leghismo. A ridosso allora del libro, una “questione settentrionale” è stata imposta, a ulteriore condanna del Sud. Di cui lo storico e antropologo dell’università della Calabria fa l’anamnesi. Compresi i “dettagli” che ora si rimuovono. Il razzismo di Miglio, dichiarato. O “Libero” che ripropone la passione di Cristo a opera dei Bruzi – i calabresi di duemila anni fa. Molta aneddotica derivando da uno scrittore che non cita, Antonio Delfino: la panoplia d’insulti del “popolo del Nord” al parroco di San Luca, o la sceneggiata Bbc della droga a Reggio Calabria per una “diretta”.
Tutti i problemi dell’Italia vengono imputati al Sud, senza del quale il destino sarebbe stato felice: “Il profondo Nord mistificava o colpevolizzava” il profondo Sud. “Profondo” è il Nord dell’omonima trasmissione tv di successo di Gad Lerner. Imitata due anni dopo da “Milano Italia” di Gianni Riotta e poi Enrico Deaglio: “I libri e le trasmissioni televisive d’inizio anni Novanta che si propongono di capire i mutamenti intervenuti al Nord, di segnalarne le insoddisfazioni e le ansie, finiscono con il descrivere la nascita di una questione settentrionale quasi come esito di una politica che avrebbe avvantaggiato il Sud”.
Era anche un’altra Italia, quella che s’imponeva: mentre la questione meridionale rispecchiava un’Italia attenta ai problemi sociali, alla povertà, agli squilibri, la questione settentrionale “guardava prioritariamente all’impresa, alle ragioni dell’evasione fiscale, a imprenditori e a padroni che volevano arricchirsi ancora più velocemente”. Un “rovesciamento paradossale”. Giacché “il Meridione, che aveva conosciuto”, con l’unità, “espropriazioni, distruzione di economie e di culture, svuotamento di paesi e di campagne, esodi biblici, diventava – anche per colpa del ceto politico e delle classi dirigenti meridionali – il responsabile delle difficoltà e dei ritardi del Settentrione in rapporto ai pesi del Nord europeo”. Il dominio di “Milano” nacque su questi falsi presupposti – come tutto il resto, si può aggiungere, della emprise ambrosiana sull’Italia.
Il razzismo è socialista e siciliano
L’antologia riesuma il dibattito che suscitarono a fine Novecento il razzismo dichiarata di Alfredo () Niceforo e, in parte, di Lombroso. Con gli interventi di Colajanni, Pasquale Rossi, Ciccotti, Salvemini, Giuseppe Sergi e Fortunato. Una ripresa, di cui Teti sa però riallacciare con vivezza i fili della continuità. Anche per non privarsi, benché posato studioso, dello “scarto”, imprescindibile in ogni calabrese, anche incolto – da cavallo degli scacchi imbizzarrito. La “lentezza”? è la fame atavica. La dieta mediterranea? Chi se la poteva permettere. E il classicismo, la tradizione, etc., di un paese che non ha storia o non se ne cura.  Critica anche la retorica dei personaggi negativi”, pr esempio Alarico - ma lui stesso è celebratore di Uccialli, o Uccialì.
Resta da dire che Niceforo, autore di “Italiani del Nord e Italiani del Sud”, 1901, dove ipotizza la “razza maledetta”, nonché di “La delinquenza in Sardegna”, 1897, e “L’Italia barbara contemporanea”, 1898, si riteneva uno scienziato, ed era un socialista, siciliano – era nato “imparato”: nel 1901 aveva venticinque anni.
Vito Teti, La razza maledetta, Manifestolibri, pp. 301 € 30

giovedì 27 giugno 2013

Quando Grillo era Bossi

Venticinque e vent’anni fa l’anomalia Grillo era il miracolo Bossi. Tutto lombardo o quasi. Alle regionali del 1990 la Lega di Bossi fu la vincitrice, sfiorando il 20 per cento in Lombardia. Alle politiche del 1992, che dovevano scatenare Milano con Mani Pulite, la Lombardia votò Bossi al 25,1 per cento.
A livello nazionale la Lega passò dallo 0,5 per cento del 1987, praticamente il voto lombardo a Bossi, all’8,7 per cento. Al successo di Bossi concorsero le altre regioni ultrappenniniche, ma in misura minore: Piemonte 19,4 per cento, Veneto 18,9, Liguria 15,5.
Il successo a Milano fu duraturo. Alle politiche di due anni dopo la Lega subì la concorrenza dell’alleato Berlusconi e scese all’8,4. Ma alle politiche del 1996 arrivò al 10,1 per cento del voto nazionale, terzo più grande partito, dopo Forza Italia e il Pds, sebbene solo lombardo con uno spruzzo veneto. E fece l’unanimità della Milano vera e propria, a partire dal suo cuore finanziario, politico, culturale e d’opinione, Milano 1.

Il mondo com'è (140)

astolfo

Complotto - “Non abbiamo un solo libro sull’azione del Kgb in Italia”, lamenta Piero Craveri sul “Sole 24 Ore” domenica, “mentre per altri paesi europei e della Nato interi scaffali”. In Italia dove il Kgb fu il più attivo, va aggiunto, con Secchia subito, coi suoi epigoni a Praga, poi con Moretti e le sue Br, e con vagonate di pellami, oro, dollari e skorpion. Le fonti non difettano. C’è un censore? Occulto?
Tantissime storie si ordiscono di complotti, ma nessuna del Kgb.

Comunismo – Non ha sconfitto la povertà. Ancora oggi non vi si applica, nel Nicaragua, a Cuba.
Per l’economia di guerra che ovunque lo minaccia? La Cina pre Deng non era minacciata. Né si può dire una guerra il boicottaggio Usa nei Caraibi.
Ogni altro regime, compresi i più biechi, i fascismi e perfino il nazismo, vi si è applicato e ci è riuscito in misura molto maggiore. Anche in economie di guerra.
È un disegno di potere.

Destra-sinistra – La concorrenza è forte anche sul web. La rete è come si sa “gestita”. Da aggregatori, motori di confronto, etc., software nati a scopi commerciali ma sfruttatissimi a fini informativi – disinformativi. Poiché sono in grado di oscurare o rilanciare le news, i commenti, i blog, ogni cosa. Più abili quelli di sinistra, che sono anche pagati – funzionari o consulenti a contratto – e quindi più attenti a inzeppare i meccanismi giusti nei software di controllo .
In realtà l’ “intercettazione” (gestione) della rete è totalitaria, contro il nemico e contro il dissidente. Non sarebbe quindi di sinistra, se la parola ha ancora un senso. Da qui l’odio speciale per Casaleggio, più che per Grillo. Una certa sinistra è solo performativa: ha ragione chi vince.

La posta dei parlamentari 5 Stelle è stata violata da hacker del Pd. Con la protezione della Procura della Repubblica di Roma, che doveva intervenire – la violazione della posta è un reato. ’attivissimo Procuratore Capo Pignatone, che pure è democrat, se ne è dimenticato. Democrat di quale democrazia?  

Germanesimo  - Beda Romano e Alessandro Merli sul “Sole 24 Ore”, come già Sergio Romano sul “Corriere della sera”, e germanisti vari per interesse di bottega, lunghi articoli si producono per giustificare la Germania. Dirla buna e gentile. E anzi vittima nella crisi, che al più si difende. Mentre il punto non è se il tedesco è cattivo, ma se non lo è la politica della Germania. Cha ha indotta una crisi spaventosa sull’Italia – non c’è altar parola – e su mezza Europa, con atti insistiti, e ancora non le basta.
Rileggendo il 1933 nella pubblicistica inglese, e anche francese, s’incontra la stesa disponibilità alle buone ragioni della Germania. Le stesse ambivalenze: i tedeschi sono buoni, ma le condizioni internazionali sono avverse. L’analogia si ferma qui, Merkel certamente non è Hitler. Ma si può dire che la Germania di Angela Merkel ha ottenuto con le buone quello che i suoi predecessori non avevano ottenuto con le armi, Hitler e il kaiser coglionastro: il Nuovo Ordine Europeo, l’ordine germanico.
Nessuna analogia terrificante neanche in questa dizione. Ma è un Ordine che la Germania non ha negoziato, al meglio di tutti i partecipanti, l’ha imposto. Con la tattica degli Orazi e i Curizai, o del divide et impera. Sovvertendo la procedura partecipativa e collettiva dell’Unione Europea. Senza dirlo, ecco tutta la novità.

Pio XII – C’è una curiosa guerra di Israele contro questo papa. Rilanciata da ultimo da due biografie americane, di Robert Ventresca e Frank Coppa. E dallo storico e diplomatico israeliano  Sergio I. Minerbi. Nell’ultimo numero di “Nuova Storia Contemporanea”  Minerbi,  che pure fu salvato nel 1943 al San Leone Magno, allora aveva quindici anni, si diverte irridente ad accreditare l’ipotesi, diffusa ad arte dai tedeschi, che Pio XII sapesse in anticipo della razzia del 16 ottobre 1943 – lo fa divertito, come a un videogame, quindi cinicamente irridente. Anche il declassamento di Giovanni Palatucci, da Giusto delle Nazioni a fascistello disorientato, è mirato in realtà alla figura di Pio XII. La cosa ha indignato Anna Foa, che ha deciso di spiegarla sull’“Osservatore Romano”. La storica lamenta che di Palatucci, vice-questore a Fiume, sia stato trasformato da Giusto in persecutore per slittamenti progressivi – propri della disinformazione, andrebbe aggiunto – dal possibile ridimensionamento del numero degli ebrei da lui salvati. Da cinquemila a poche centinaia o decine. Per questo e altri casi, “siamo in realtà di fronte a un problema di mancanza di documentazione”, spiega, che non era possibile tenere per un vice-questore come per i conventi, e solo è ricostruibile in base alle testimonianze. Ma nella fattispecie c’è di più: “L’impressione è che in realtà la questione sia un’altra, quella della Chiesa di Pio XII, e che in Palatucci si voglia colpire essenzialmente un cattolico impegnato in un’opera di salvataggio degli ebrei, un supporto all’idea che la Chiesa si sia prodigata a favore degli ebrei, un personaggio sottoposto a una causa di beatificazione.  Ma questa è ideologia, non storia”.
Nella classe politica israeliana quello contro il papa è un odio condiviso - Israele non ha mai avuto simpatia per il papa, fino all’attuale presidenza di Shimon Peres. Si ricorda la prima visita di un primo ministro israeliano al papa, Golda Meir nel 1974, il papa era Paolo VI Montini, che lasciando il Vaticano disse sprezzante: “Quell’uomo”.
Ma quello contro Pio XII è anche e anzitutto un odio specificamente tedesco. Fu in Germania, nell’ultima coda del Kulturkampf dopo la guerra, che se ne creò la fama sinistra. A opera di Hochhuth col “Vicario”. Era anche uno spostamento di focus sulla Colpa, dalla Germania alla chiesa - un tema sensibile che il drammaturgo sfruttò abile (dopo il papa puntò Churchill e l’Inghilterra). Ma il sionismo è tedesco anche in questo? Golda Meir, ebrea polacca, parlava tedesco.

Sviluppo  - È ora all’età del credito, che Ludwig von Mises, teorico liberale, diceva “prosperità illusoria”. Realista più che profetico


Gli studiosi dei cicli economici sono concordi su tre grandi cicli espansivi. Il primo, dal 1750 al 1830, è il prodotto del motore a vapore, della sgranatrice del cotone, e dall’avvio del trasporto meccanico e veloce, con la ferrovia e il piroscafo. Il secondo è quello della vera e massiccia rivoluzione industriale, dal 1870 al 1910: elettricità, motore a combustione interna, dall’auto all’aereo, il telefono, la radio, il fonografo, il cinema, la manipolazione chimica, il fordismo (automobile per tutti, standardizzazione, tempi e metodi). Il terzo parte dagli anni1970, con la robotica e la computerizzazione, di cui fa parte internet, fino alla carta di credito, il bancomat, e l’ “illusione del credito”.

astolfo@antiit.eu 

L’opera comica di Patrì

Una poesia – figurata – sempre più discorsiva, “naturale”. Spontanea come una conversazione, benché sapiente, di ritmi, assonanze, risonanze. Non esclusa quando è necessario la rima, e allora incantevole carillon. Attorno al “destino”, più o meno figurato, del qui, noi, oggi:- “Ostinarsi a far parlare il nulla\ a cercare parole che non hanno voglia”, è l’incipit – “Che meraviglia\ essere in vita,ci si può persino lamentare”. Per la lievità, tutto sommato, della condizione umana, sempre gratuita: “Se i miei numeri non vincono\ anche quando non li gioco”. Patrizia Cavalli non delude,  anche se, o perché, parca e non intrusiva, il lettore esigente e quello svagato.
“La patria”, “lunga tiritera”, che è madre, vedova (ma “ci sono sempre i nonni,\ le zie con le pensioni,\ non mancheranno mai canne e birrette”), magari “quel padre che ha nel nome”, o “donna giovane, ma austera”o “una scostumata”, perché no, “una pazza\ che dorme per strada”, o il solito “corrusco angelo di nordiche\ ascendenze che siede con lo sguardo\ diretto chissà dove”, fino a portare “allo scoperto, bello compatto, il padre”. Se non è il “macellaietto,\ guance rosa, che forse più che patria\ è patriota, visto che grida sempre\ Ciao Patrì”.
Ricorrente è l’apoteosi dell’ipocondria, rivoltata in irrisione, burlesca. Una vindicatio - volersi malati è da torturatori. Con qualche gigioneria. L’innamorata metereopatica del libretto d’opera “Tre risvegli” (non musicato?) rischia il capolavoro, specie nei recitativi, e avrebbe potuto reinventare l’opera buffa, senza l’aria di bravura – non quella canora, quella stilistica.
Patrizia Cavalli, Datura, Einaudi, pp. 123 € 12

mercoledì 26 giugno 2013

Eco

La ninfa Eco seguiva fedelmente Narciso.
Non si può dire che Eco sia una ninfa,
ma Narciso sì. 

A letto con papà, a fare i conti

Una lettura revulsiva – per chi ama il prosciutto. E anche per gli altri: una profanazione. Mirata a un succès de scandale, che non è mancato. E ovvio premio Sade - che l’autrice ha rifiutato, ma non si vede perché. Una scommessa forse, una serie da primato di atti osceni in pubblico, dettagliati, ripetuti, in sole cento pagine. Firmata, anzi calligrafica, ma insostenibile. Si vuole violenta ma è della cultura dei dolori, che da Werther è arrivata alle Wertherine. Ossessiva, le divagazioni non prenderanno una pagina. L’occhio vigile di Cesbron per lei, il dimenticato autore cattolico di best-seller – quello che lei guarda sempre, a pancia in su o a pancia in giù, “Cane perduto senza collare”, ha venduto più della Bibbia, 4 milioni di copie solo in Francia (l’altro titolo, che lei si propone di leggere, è inventato, “Les Six Compagnons”). “Le Monde” per lui, paravento laico-laido nelle pause, brevi, tra un assalto e l’altro. Al culmine lei ha sul muro un crocefisso, e ricorda la prima comunione.
È il tempo in cui Franco muore. Che non vuole dire niente se non che anche Christine aveva quindici anni. Come l’“eroina” muta, è lasciato supporre, degli interminabili assalti. Christine, nata Schwarz, riconosciuta dal babbo linguista a quindici anni, l’età di questo memoir, ha raggiunto la celebrità nel 1999 con “L’incesto”. Lui, il “paparino” linguista del racconto, specialista della W, che in francese suona u quando non è tedesca come in wagon-wagen, è Trintignant più bello. Per accentuare l’umiliazione, il paparino illustra rapito alla ragazza la foto gioiosa dei figli “legittimi”.
Scittrice whimsical, divertita e divertente, fa teatro, lo scrive e lo recita, Christine Angot pratica l’autofinzione, e questo è il solo gusto della vicenda. Altrimenti insopportabile – in filigrana, per chi segue la scena francese, c’è pure la parodia di Houellebecq, l’autore generazionale, sgradevole per programma. Lei nega di praticare l’autofinzione, “che sa sempre di autobiografia” – “il mio io è immaginario”. Ma le piace esporsi – è anche una bella cinquantenne. Anche a costo di cambiare editore a ogni libro. E fare i conti: l’autofinzione è tribunalizia, l’autore contro tutti. Citata in giudizio, per i due ultimi libri prima di questo, dalla compagna dellex marito, per interferenza con la sua vita privata, è stata condannata – lo dice lei stessa, è presumibile, nella sua bio wikipedia, se ne vanta. E quindi anche di questo, forse, si può ridere, benché a fatica: il suo io s’immagina un paparino ributtante, la profanazione è, malgrado tutti i suoi abusi, di lui..
Christine Angot, Una settimana di vacanza, Guanda, pp. 105 € 13

Ombre - 181

Mancano dalle indagini sui contratti truccati il Cagliari e il Bologna. La Finanza ha voluto risparmiare i colori rossoblu?

Ci ha messo venti giorni Marino, sindaco di Roma plebiscitato, per fare la giunta – e forse non ci riesce. Dovendo darne conto a tre partiti e cinque correnti, ferrei gli uni, più ferree le altre: Pd, Scelta Civica e 5 Stelle, tre correnti dl Pd, due di Scelta Civica.

La severa giudice Turri esibisce per la sentenza una chioma di riccioli gonfi. Non è la sola a Milano: le giudici – quelle vere, le presidenti – esibiscono queste acconciature, a somiglianza delle parrucche della giustizia inglese.  Colorate di nero, però, aggressive. Mentre quelle inglesi esibiscono la patina grigia, insegna di saggezza.

L’unica professionale professa nella corte di Berlusconi è Conceiçao. È anche l’unica di cui la giustizia si fida. Tutte le altre la giudice Torri ha “condannato” per falsa testimonianza – le ha deferite alla Procura, è lo stesso.

Ruby “è una ragazza intelligente, furba, ha l’obiettivo di entrare nel mondo dello spettacolo e fare soldi”. Quindi è una puttana, ricattattrice, imbrogliona . Logica inappuntabile, si potrà dire “logica boccassiniana”. Come dire: Boccassini “è intelligente, furba, ha l’obiettivo di fare carriera”.

Non s’è solo Josefa Idem che fa gli imbrogli con la case, il vizio è diffuso. Lo argomenta il “Corriere della sera” – il solito “tutti ladri nessuno ladro”. Purtroppo Pierluigi Battista vi si presta.

Dunque, “la donna” è morta. Barbara D’Anna, che ha lavorato una vita per l’Afghanistan e gli afghani hanno ucciso. Quel terribile “una donna italiana” dei notiziari , più che cinismo, o mancanza di pietas (demo)cristiana, testimonia la remoteness in cui il nazionalpopolare che ci opprime (abbia pazienza Gramsci) confina le guerre umanitarie che l’Italia combatterebbe.

“Al governo una fiducia con 100 assenti”, segnala il titolista del “Corriere della sera”: “Mancava un deputato pdl su 5”. Diavolo di un Berlusconi, s’è preso 500 deputati?

I deputati  Pdl sono 97. Con Fratelli d’Italia 106. Poiché ne mancava un quinto, come segnala Galluzzo, a Letta sono mancati una ventina di Pdl. E un’ottantina di Pd. Fatto politicamente
ben più interessante: questa sì che sarebbe stata una notizia, 80 deputati che non votano il proprio presidente del consiglio.
Il giornalismo si fa con le veline? Democrat?

Che il calendario del governo sia determinato da un pubblico ministero, anzi da un De Pasquale,
sembra eccessivo. E lo è. Ma lo stabilisce la Corte costituzionale. Che pensarne?

Massimo Mattei, assessore di Renzi a Firenze, ospitava in un appartamento della cooperativa sociale Il Borro, di cui è il patron, un’amica. Che si prostituiva. “Non lo sapevo”, si giustifica. Senza scandalo. Senza colpa.
L’assessore era l’unico in città a non saperlo. Ma anche se fosse: si può dare gratis, a un’amica, un appartamento che una cooperativa sociale ha dal Comune?

Marino Sinibaldi ha ringraziato, e ha detto no: si tiene la direzione di Radio Tre invece dell’assessorato alla Cultura di Marino, il neo sindaco di Roma. Non senza ragione: l’incarico è politico, è revocabile, è remunerato poco, pro forma. È anzi solo ragionevole.
Resta da sapere perché tanti concorrono a ministro o sottosegretario, incarichi altrettanto labili, lasciando posti  remuneratissimi.  Passera, per esempio, amministratore delegato della banca più grande.

Però, che tutti i primati romani, Rodotà compreso, rifiutino la collaborazione al neo sindaco Marino la dice lunga sulla società civile. Il dare e avere prima di tutto.

Il nodo è il fisco, non il mercato del lavoro

Si diffondono i contratti di solidarietà, e il part-time. In tutte le banche, in tutte le aziende, grandi (Telecom) e piccole. Per rimediare alla crisi, sono chiamati “contratti difensivi”, ma anche senza la crisi: sono una maniera di ridurre il costo del lavoro del 20 per cento per quattro anni (al Sud per sei).
I contratti di solidarietà sono la vera riforma del lavoro in Italia. Come già le innumerevoli specie di prestazioni  “a contratto”, per cifre irrisorie. Quelle che in Germania sono chiamate mini-job - la differenza è che in Italia non sono contabilizzate nell’occupazione. 
Il problema in Italia non è la rigidità dl mercato del lavoro. E il fisco abnorme, e più dopo il governo Monti. E la recessione, da esso indotta.

martedì 25 giugno 2013

L’Europa asimmetrica di Angela Merkel

Il lavoro dei giovani con l’Italia, la banca con Cameron, la Robin Hood tax con Hollande – dopo Tremonti. Tanti accordi o intese bilaterali hanno sostituito, su impulso di Angela Merkel, l’unanimismo sui cui si basava storicamente l’Europa unita. Lo stesso fiscal compact, che esula dai trattati Ue e Euro, Merkel ha imposto bilateralmente, seppure tra 24 stati su 27. E intende procedere bilateralmente, con chi ci sta, allo scambio automatico delle informazioni bancarie.
È un esito del raddoppio della Ue, ora verso una trentina di membri, che rende difficile l’unanimità. E del bisogno di agire che la crisi impone. Ma anche del metodo cosiddetto “federativo”, in realtà asimmetrico, di Angela Merkel di esercitare l’egemonia: ogni problema si definisce in rapporto all’interesse della Germania.
Le intese bilaterali non erano escluse in passato. Ma si limitavano alle aree su cui la Ue non aveva competenza, per interdizione di questo o quel paese: la difesa, he la Francia no ha voluto integrata, e la politica estera, su preclusione britannica. Il metodo Merkel esprime e consolida la polarizzazione Ue sulla Germania. 

La modestia del papa pugnace

“Vedere le persone presenti”, a ogni scena della Bibbia, “udire quello che dicono”. Vivere i testi sacri, è questo il Dio di cui Ignazio di Loyola si professava soldato, nelle specie del papa. Un combattimento di cui questi esercizi sono un allenamento sul campo. Riportato “sul mercato” dal papa Francesco, è la sua verità e la sua forza – il papa argentino è francescano d’abito, modesto cioè all’apparenza, ma gesuita di formazione e carattere, in realtà un duro.
Il gesuita moderno si distingueva, forse, per il casuismo – è la colpa che gliene fece il Sette-Ottocento. Quello del fondatore è un combattente. Che ogni anno deve farsi lungamente, per almeno tre giorni, l’esame di coscienza di una vita - porsi “avanti agli occhi stesa e spiegata la sua vita,... scorrendola tutta pensatamente”.
Tra le fonti della raccolta (Ignazio non scrisse nulla) Hugo Rahner mette la vita propria del santo, per quanto avventurosa, anzi per questo. Altri  gli influssi orientali, per quanto improbabili – moreschi? via Francesco Saverio? Ma è indubbio da questi “esercizi” che Ignazio è il santo della volontà, acquisitivo – dell’Occidente?
Ignazio di Loyola, Esercizi spiritiuali

L’Alitalia vittima dei suoi sindacati

L’Alitalia ha rischiato di essere salvata. In vari modi e momenti. In previsione del fallimento definitivo dell’azienda dopo l’estate, si moltiplicano le memorie e i capi d’accusa. A Edoardo Borriello, specialista decano del settore, da Airnews, l’agenzia specializzata, e da “Repubblica”, basta raccogliere gli articoli che via via ha pubblicato su questa tragedia voluta per dire le cose come stanno.
Uno dei progetti abortiti, non eversivo se si guarda con l’occhio del dopo, fu quello di Roberto Schisano nel 1994-95. Un manager proveniente dalla Texas Instruments – subito ribattezzato il Texano - di cui aveva fatto un grande operatore europeo grazie allo stabilimento abruzzese. Nominato a capo dell’Alitalia nel febbraio del 1994, su indicazione di Romano Prodi allora presidente dell’Iri,  Schisano progettò uno snellimento di molte funzioni pletoriche,  tra esse le prenotazioni, e un progressivo “ritorno al mercato” del contratto superprivilegiato dei piloti. Il 19 ottobre 1995 era già fuori dell’azienda, dopo appena un anno e mezzo. In estate avevano scioperato i piloti, in autunno il personale di terra.
Una storia che non rivela nulla più di quanto si sapesse, ma con una morale stringente che è utile non trascurare. Schisano era allontanato dall’Iri, che già da mesi insisteva per le sue dimissioni. Dall’azionista pubblico, cioè, che lo aveva nominato. Nella persona di Michele Tedeschi, diligente esecutore succeduto intanto a Prodi. Ma non è questo il punto. Il punto è – Borriello non lo dice ma lo mostra - il ruolo distruttivo del sindacato. Sia pure autonomo, sia pure quasi personale (è il caso oggi del personale del Colosseo, non più di una trentina di uscieri). Specie nelle ristrutturazioni, in cui la prassi e la legge ne fanno un partner obbligato.
Edoardo Borriello, Il texano e l’Alitalia, Airnews International, pp. 191 € 10

Peccare è peccato

Sono tanti i referendum e i processi intentati contro Berlusconi: per mafia, droga, evasione fiscale, abusivismo, intercettazioni, false concessioni tv, e molte altre fattispecie. Mancava il sesso. Perché i suoi giudici pensavano che in Italia non fosse dirimente, come negli Usa per esempio, o in Gran Bretagna, nel puritanesimo. Invece si scopre l’arma vincente.
Scopare è ora un peccato, e perfino un reato. Svelato e perseguito come sempre dalla sacrestia - che, come sempre, indulgente in fatto di furto, si rifà sul sesso. Nel processo a Berlusconi la giudice Turri ha condannato per questo anche i testimoni – li ha deferiti alla Procura perché le procedure sono cambiate, ma l’incolpazione è la stessa, da Inquisizione.
La novità è che l’incolpazione si fa ora con successo pieno perché incontra la coscienza laica (moderna, civile, di sinistra) della nazione. Non per errore, o per un pregiudizio politico – chi è che vuole la morte di una persona, sia pure un avversario? No, in tutta sincerità. Scopare è antigienico, all’ora dell’ecocompatibile – l’orgasmo si può solo col solare e l’eolico?

La peste con gli untori

Sandro Veronesi è deluso. Si aspettava una tragedia sui gradini del palazzo di Giustizia, seduto al caffè di fronte, e ha visto solo una decina di pensionati, in piedi per ore, lieti infine di poter dire: “Berlusconi a piazzale Loreto”. Ma dentro l’ambiente era revulsivo. Procuratori della Repubblica riveriti coma valvassori, cronisti giubilanti, avvocati locupletati, l’onorevole Santanché in cerca di telecamere, la giudice cotonata laccata. Le pieghe alla bocca di disgusto, che sono delle bacchettone. La strafottenza. La mediocrità. Il tanfo anche, forse di aria morta. O della pretesa morale della città più corrotta d’Europa, in Borsa, in banca, nella moda, tra modelle e cocaina, nei giornali, al palazzo di Giustizia. Dove emeriti venduti dirigono il traffico. Non per condannare questo o quello – non condannano in realtà Berlusconi (per questo bastava molto meno, molto prima) e anzi lo rafforzano – ma per tenere schiavi i governi e l’Italia.
La peste è nota: Bossi, Berlusconi, Di Pietro, Monti e i suoi ministri, le banche, la curia. Gli untori pure: i suoi giudici, ora molto ambrosiani (una volta erano napoletani), e i suoi giornali. Ma quando finisce? Non si vede cosa Milano può fare di più o di peggio per distruggerci. Da venticinque anni non consente un governo, mentre si prendeva gratis tutte le banche e i monopoli pubblici, azzoppava la Banca d’Italia, segava il Sud, e s’arricchisce coprendo l’Italia di tasse e disoccupazione. Gloriandosi della virtù senza peccato, l’ipocrisia violenta del suo santo Borromeo (controriformismo). E non ha finito?

Il Far West a Milano

Milano vuole la sua giustizia una ghigliottina, ma non ha nulla dell’orrida grandezza del terrore. Al contrario, è selettiva. È non ha un disegno politico ma di potere. Di piccolo cabotaggio ma bieco: il potere degli affari, che come le mafie sempre si mordono tra di loro.
Per un Berlusconi condannato, che non ha rubato nulla a nessuno e non ha mai licenziato nessuno, quanti robber barrons accertati, mai indagati o subito assolti: Umberto Agnelli, Romiti, De Benedetti, Colaninno, Gnutti, Tronchetti Provera, Moratti, la Rizzoli-Corriere della sera, le banche, grandi, medie e piccole. C’è sempre stata a Milano la libertà di rubare – “i soldi entrano in Borsa”, diceva Mattioli a Piovene nel 1957, celiando ma non del tutto, “e non si sa dove finiscono”. Da Mani Pulite, un quarto di secolo ormai (Mani Pulite cominciò col falso processo a Sofri nel 1989), con buona coscienza, impunità garantita dal palazzo di Giustizia, e poteri d’interdizione totali, sull’opinione e la politica.
In particolare Milano si è impossessata gratis degli ex monopoli pubblici, e dei banchi meridionali, Banca di Roma, Banco di Napoli, Banco di Sicilia. Azzoppando poi la Banca d’Italia, quando il governatore Fazio pretese di regolare infine le banche popolari, il fiume del sottogoverno lombardo – pronta la Procura lo ha azzoppato. Ora punta agli affari piccoli, quelli di Berlusconi.
È difficile non vedere che a Milano la giustizia è una resa dei conti tra bande. Il prossimo passo sarà la condanna di Berlusconi a pagare De Benedetti per aver salvato la Mondadori dal fallimento e la spartizione delle sue attività - di una parte dei suoi affari, le case editrici e la banca-assicurazione. Ma di più angoscia il peso enorme che questa città corrotta in ogni fibra ha preso sul nostro destino. L’immoralismo di Berlusconi, l’unico sanzionato dalla legge, è peccato minore a Milano. Dove si fa commercio di modelle, di droga, di riciclaggio, di cure sanitarie, senza mai un solo atto di contrasto.

I giudici tarantolati

In appello Berlusconi è atteso dal presidente Giuseppe Tarantola. E quindi è opportuno aprire un quadro d’assieme.
La Quarta Sezione Penale del Tribunale di Milano, nella quale siedono i giudici anti-Berlusconi, Giulia Turri, Orsola De Cristofaro, Maria Teresa Guadagnino, Monica Amicone, ha ora a presidente Oscar Magi, ed è specializzata nei reati contro la Pubblica Amministrazione e l’Amministrazione della Giustizia. In realtà si pronuncia su tutto quanto concerne Berlusconi, su disposizione della presidente Livia Pomodoro, l’ex capo di gabinetto di Martelli al ministero della Giustizia al tempo di Mani Pulite. Con peculiari concezioni del diritto, che Magi, laico ferrigno, ha esternato al “Corriere della sera”
Magi, per capirsi, è quello che ha condannato Berlusconi per aver diffuso il compiacimentodi Fassino con Corsorte - abbiamo una banca - per mettere in difficoltà Fassino e il suo partito: è insomma un garante democratico. Ma tutti fanno parte dei “tarantolati: è una sezione su cui non è passata invano, seppure remota, l’ombra di Tarantola. Il giudice che nel 1994 condannò Cusani, specialista di tangenti,  a una pena quasi doppia rispetto a quella chiesta dall’accusa, sebbene l’imputato fosse pentito - un pentito vero: superesperto di finanza, la lasciò per il volontariato, in carcere e dopo. La lezione è la stessa. Anche nel rispetto dei veri reati, contro la giustizia e la pubblica amministrazione. Mai perseguiti – non c’è altro colpevole a Milano all’infuori di Berlusconi, la Quarta Sezione lavora poco.
Tarantola è famoso anche per la condanna per diffamazione del politologo Giorgio Galli, che aveva dato del “toga rossa” a un giudice. Il giudice Tarantola e la manager Anna Maria, proprietari del digestivo Braulio, valtellinesi doc, sono praticanti di curia - il giudice condannò Cusani al doppio della pena perché si professava socialista. Ma “toga rossa” è comunque un epiteto, e un epiteto, ha sancito, ha sempre “valenza diffamatoria” e “certamente denigratoria”.
Anna Maria si è segnalata per aver gestito la Vigilanza Banca d’Italia che ha fatto fuori Fazio e la stessa Banca d’Italia. E poi, assunta alla presidenza della Rai, per essere stata la vestale romana di Monti, del Partito-che-non-c’è - allora, quattro mesi fa, poi non ci fu - malgrado l’ingente spiegamento di forze. A lei risalgono i controlli carenti sul Monte dei Paschi di Siena. Sia sull’acquisto “incauto” di Antonveneta a prezzo fuori mercato. Sia sulle obbligazioni remunerate al 10 per cento. Nel 2008, a crisi bancaria già aperta. Sia sui derivati accesi per pagare quel 10 per cento.
Giuseppe Tarantola fu il presidente che affossò lo scandalo Rcs.Corriere della sera, il più grave del dopoguerra, sul nascere nel 1994 -1.300 miliardi erano spariti per malversazioni accertate. Passato dopo Cusani dal penale al civile, approfittò di un vecchio esposto in quella sede di un piccolo azionista contro la controllante della casa editrice, la finanziaria Gemina, per archiviare la pratica. Il fatto è così ricordato in G.Leuzzi, “Mediobanca Editore, Edizioni Seam, p. 31 (un libro clandestino e tuttavia letto, ancora leggibile): «I bilanci sono in regola», aveva sentenziato il giudice Gianfranco Gilardi, in forza all’VIII Sezione del Tribunale di Milano, di cui è presidente Giuseppe Tarantola, il giudice del processo Cusani che comminò pene più severe di quelle chieste dall’accusa. Gilardi, magistrato impegnato, esperto di diritto societario – è autore di un «La responsabilità civile degli amministratori e dei sindaci nelle società di capitali» - ha esaminato il caso con apparente svogliatezza: la sentenza reca tra le date anche il 31 giugno”.

lunedì 24 giugno 2013

Parafrastica

Tutto muta tutto è immutabile – Eraclito 2

Grillo è la prosecuzione di “Micromega” con i voti – Von Clausewitz, “Della politica”

Datemi una lega, e vi solleverò Basiglio (o Brusuglio?) – Archimede

Giudici vili di Berlusconi, voi risuscitate un uomo morto! – Maramaldo

Voi battete il martello, noi faremo da incudine – Pier Capponi a Angela Merkel

Da qui all’inferno, con Mario Monti e Giorgio Napolitano – Fred Zinneman

L’antropologia della Calabria su due piedi

Un viaggio a casa, l’idea è affascinante. La casa di Santoro è la Calabria, dove è vissuto nella prima metà dei suoi 36 anni. Che decide di farsi a piedi, per una trentina di giorni nell’estate di due anni fa. È già molto, Pasolini se la fece in un giorno, 800 km. di costa, scrivendone per il settimanale “Tempo”. Santoro ne scrive ogni giorno per il “Quotidiano di Calabria”.
È difficile farsi la Calabria a piedi, si finisce per seguire le statali, ma Santoro ci riesce. Anche se non in solitario. Assistito dallo smartphone, il blog che lui stesso cura, vecchi compagni di scuola, e specialisti prestigiosi. Alcuni in persona: un giorno Vito Teti, un altro Paolo Jedlowski, o Alessandro Jedlowski, sociologi e antropologi, Vittorio Cappelli, storico, Leonardo Seeber, geologo-camminatore della Columbia. Altri coi libri: Federico Varese di Oxford, Kim Ragusa di New York, figlia di un calabrese e un’afroamericana, i cui genitori non volevano il genero, considerandolo negro, e tanti altri.
La preziosa collana di Valerio Cappelli, rilegata e copertinata, che accoglie il viaggio, ci aveva abituati ad altri messaggi e messe a fuoco, di occhi esterni, più o meno simpatetici, sempre curiosi. Questo nasce filiale. Per il padre le prime parole, che ha appena perduto la memoria, simbolicamente?, a seguito di un’operazione “di routine” (a Brescia, però). Per la madre le ultime, cui “qualcuno vorrebbe impedire di raccontare la sua regione come ha sempre fatto”. Ma di suo Santoro è come se dicesse: “Vediamo un po’”, scettico.
Non è in realtà un viaggio, malgrado i trenta giorni a piedi. O è spettrale: il viaggiatore non incontra nulla e, in fondo, nessuno – giusto gli amici noti. E non è letteratura: “Non parlerò di tarantelle, rinogaetanismi, briganti, soppressate”, premette. Il reportage è di se stesso, dell’amore parentale da cui è impossibile staccarsi, mentre dalla Calabria peninsulare sì – le radici sono familiari. La Calabria, in particolare, non c’è, se non a specchio di qualcos’altro. Raro peraltro l’uso degli strumenti linguistici etnici che s’intuiscono del padre e della madre come di ogni calabrese: l’umoralità per esempio,  più addictive del peperoncino, sotto le specie del sarcasmo. La ricerca del silidrillo, la lamentazione, la ‘ndrangheta multinazionale più grande e più efficiente d’Italia, pagine d’antologia, si vogliono isolate. O è negativa: delle politiche pionieristiche dell’immigrazione, a Badolato e Riace, dell’empatia di Wim Wenders per questa voglia di “continuare a esistere” di borghi abbandonati - Wenders lo fa per i soldi della Regione, gli immigrati ci stanno per scomparire meglio.
Tom Joad-Henry Fonda di “Furore”, il forte film di John Ford, è lusinghiero, per dire del bracciante calabrese. Ma di solito Santoro non è indulgente. Il suo mondo è un altro - sono altri. Il viaggio fa a imitazione di Wu Ming 2, che si è fatto a piedi da Bologna, piazza Maggiore, a Firenze, piazza della Signoria. Arriva alle gole del Raganello partendo da san Cristobal sopra il Chiapas, all’entrata della Selva Lacandona. Alle periferie che sono divenuti i paesi in Calabria guarda da Tor Pignattara a Roma, dove abita contento. Ritrova Rocco Palamara sulle tracce di “Africo”, il libro di Corrado Stajano del 1979, “un piccolo classico dell’inchiesta sociale”. L’ironia ritrova nella sua Cosenza perché ce l’ha trovata Piovene nel “Viaggio in Italia”, 1957.
La prospettiva a ritroso non è sbagliata, forse: la Calabria sarà pure questa, che, a furia di espellere (di espellersi), è rimasta sola con qualche santo, ma con pochi parroci, e indolenti, e con i politici dell’ultimo notabilato, quello della Dc popolare, paffutelli, che si carezzano le manine tonde, segno della cessata fatica. O migrare non è più una specialità. Si può dire andare e venire, questi verbi anodini rispecchiano meglio il fatto. Ma allora c’è poco da dire.
Le buone intenzioni
Di Russo, meridionalista emerito del “Corriere della sera”, il libro è una raccolta di vecchi articoli. Bene intenzionati – ma il meridionalismo è sempre bene intenzionato, non si può dire, anche quello selvaggio, vuole bene ai meridionali, è la sua colpa. All’ombra dei padri nobili dimenticati: Fortunato, Salvemini, Dorso, Compagna, Rossi Doria. Con le novità dell’epoca, le “macchie di leopardo”, che Russo non manca di cogliere. Effetto di investimenti riusciti – sì, ci sono investimenti riusciti al Sud. O di buona amministrazione.
Spiace tornare all’antico, ma non si può non apprezzare. Ricordando com’era il cosentino negli anni 1950, una regione grande come l’Umbria dove, fuori dai pini della Sila, si girava per un deserto, anche in senso proprio (il marchesato, l’Alto Jonio), e ora sembra la Toscana. A opera di Giacomo Mancini – e di tanti altri, ovvio, di Costantino Belluscio quarant’anni fa a Altomonte per esempio, o di Francesco Principe a Rende. Con un’università a Cosenza-Rende che in pochi anni ha acquisito status internazionale - e naturalmente oggi si vorrebbe mafiosa.
Santoro sa di Mancini, ma come uomo di potere, senza visione, senza capacità. È difficile, certo, vedere la gente che sa lavorare, che c’è – non tutta evidentemente arberëshe. Ma è come se mancasse la voglia. L’orizzonte è fisso alla disappetenza – degrado, mafia, corruzione.
L’odio-di-sé meridionale
L’odio-di-sé, benché rispettabile autocoscienza, presenta al Sud varie distorsioni – non è una novità in questo sito. La più comune è delle persone sensibili al tema della dipendenza ma cieche a quella di casa. Più attiva in Calabria, dove la dipendenza si sniffa ovunque, per la “natura”, ribellistica, anarcoide, di chi “sa” alla Pasolini, sapeva già prima del terzomondismo, molto prima degli studi di Arrighi, di Spivak, di Butler. Ma inerte nel proprio caso, anzi dirompente, disfattista: sempre e solo resta il mondo dei vinti.
L’odio-di-sé meridionale è una forma mentis, indelebile alle migliori intenzioni. Di esso è parte il lamento, di cui si può ridere con Santoro – anche se in realtà è uno scongiuro. Ma può essere per questo irrealistico, e quindi indisponente. Vito Teti si sorprende qui che, nel 150mo dell’unità, chi denuncia l’unificazione piemontese ignori il Risorgimento meridionale. Perché, c’è qualcuno che lo insegni? A Cavallerizzo, un paese ricostruito a tempo di record dopo una frana rovinosa, Santoro trova tutto da condannare. Non avendone sentito parlare, uno legge con interesse. Ma a fronte non trova un singolo atto di corruttela, giusto una pronuncia del Tar dl Lazio, non il più fededegno, che decreta “illogica” – non una colpa, i giudici sanno il senso delle parole - “la deroga alle procedure” di rito. Santoro, che è stato all’Aquila, dove le procedure impediscono da quattro anni alle miriadi di sfollati l’uso della minima suppellettile di casa, dovrebbe saperne il senso - Cavallerizzo, frazione di Cerzeto, non ha più di una quarantina di famiglie. E Cosangeles - per i tardigradi: Cosenza-Los Angeles, il consumo del territorio? Il consumo del territorio in Calabria è minore che altrove, e al novanta per cento non è mafia né speculazione, è il bisogno represso nei secoli e l’avidità delle banche che se ne approfittano. Per cui si può solo costruire la struttura in cemento armato, e chiudere alla meglio un piano coi mattoni forati e un po’ d’intonaco, per poi passare il resto della vita a sudare per il mutuo, e più la notte con gli incubi. Per figli e nipoti che non hanno mai avuto nessuna idea di abitare il “palazzo”.
Il tutto è inzuppato al solito di ‘ndrangheta, ubiqua, onnipotente: abusivismo, fusti tossici, centri commerciali, saloni di automobili, le spiagge, le pizzerie. Dove c’è. Ma anche dove non c’è. Paventando il turismo di massa, che in Calabria si distingue per l’assenza, se non per una o due settimane a Ferragosto. L’eroe è Uccialì, preso in ostaggio da bambino sulla costa crotonese, e cresciuto ammiraglio a Istanbul di feroci scorrerie turche. È così che la colpa si accumula in Calabria anche senza colpe.
La sfida con se stesso
Dalla “sfida con me stesso” Santoro non esce pacificato. Questo viaggio estivo è cupo – in effetti non c’è mai la luce, che in Calabria s’impone, mite o imperiosa. Dove solo emerge una “borghesia mafiosa”. E forse nemmeno quella - la borghesia è mafiosa, ma in Calabria c’è una borghesia? È rimasto “spaesato”, dice, cosa che probabilmente non si potrebbe dire di suo padre: “Nel mio piccolo, mi sono chiesto spesso che differenza ci fosse tra raccontare la Calabria ai non calabresi e farlo per quelli che in questa terra ci sono nati, ci vivono e sono continuamente oggetto di bombardamenti retorici, pregiudizi e stereotipi”. Ma non sfugge alle reti della falsa Italia. Delle false realtà che l’Italia impone.
Da questo punto di vista un viaggio a Milano sarebbe stato più proficuo alla collana – Milano resta ancora da scoprire. Dove c’è la borghesia, per esempio. Dove si fa la Calabria, come tutto il resto. Milano sarebbe stato il viaggio “vero”, la scoperta di Milano, la vera riserva di oggi, sociologica, politica e anche etnologica: c’era la Calabria dei Borboni, c’è quella di Milano. Santoro lo sa, se la ‘ndrangheta è grande multinazionale: ma come, perché, con quali fidi, quali bonifici? La ‘ndrangheta, se ha una funzione (un mercato), è di portare la droga a Milano indisturbata – e a Roma, certo, già che ci si trova.
Santoro non ne è succube, sa di che sta parlando, ma non si sottrae al “discorso su” che purtroppo sostanzia e esaurisce la Calabria, un mondo senza storia – se si eccettua il feudo, che la distingue per non esserci stato, e oggi la ‘ndrangheta.  Alla gabbia dell’opinione dominante, che non si fa in Calabria. Rocco Palamara va ricordato come Santoro lo ricorda, per essersi opposto ai soprusi in Africo Nuovo, ricostruita dopo l’alluvione, con la pistola, sparando a chi gli sparava, ma resta nella storia come la fonte di Stajano per “Africo”. Che condusse Bobbio e il “Corriere della sera” a chiedere il filo spinato verso certe regioni. Dopo aver spaventato un po’ lo stesso Stajano. Mentre la pietas di Stajano è totale, e anzi l’estrema indulgenza, verso i delitti veri, continuati, della sua Milano, “La città degli untori”, malversazioni, scempi.
Non si sottrae il viaggiatore all’antropologia a volo d’uccello – la Calabria ne è l’ultima vittima, perfino la Sardegna se n’è liberata. Senza averne alcun lume sulle differenze, queste “essenze” antropologiche. E all’amoralismo che denuncia – ne sarà sorpreso, anche lui ha buone intenzioni, ma così è. Amoralismo in Calabria? Dove tutti temono l’inferno – Banfield che l’ha coniato è della stirpe dei viaggiatori, un Lear meno scherzoso, un Robert Byron meno perspicace.
Questo viaggio è generazionale? È possibile, anche qui abbiamo Berlusconi a ogni piega (voleva comprarsi pure Badolato…), la Tav, e la birra con l’aperitivo.
Giovanni Russo, Nella terra estrema. Reportage sulla Calabria, Rubbettino, pp. 140, € 14
Giuliano Santoro, Su due piedi. Camminando per un mese attraverso la Calabria, Rubbettino, pp. 170 € 7,90

domenica 23 giugno 2013

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (174)

Giuseppe Leuzzi

Cade nel vuoto lo scandalo del latte avariato in Friuli. A opera degli stessi contestatori delle quote europee del latte. I cui sforamenti costano all’Italia quattro miliardi di multa. Che paghiamo tutti quanti noi, non loro.
Una truffa anche miserabile, poiché avvelenava i bambini. Ma non interessa a nessuno. Nessun cronista, nessun fondista, nessun commentatore, nessun giornale. Perché non è successa a Napoli?

Non ci sono antropologi a Milano, a Torino, a Bologna, a Roma. Ce ne sono invece, in cattedra, a Palermo, a Cosenza, ovunque in Sardegna. Pure Napoli privilegia la lettura “antropologica” dei suoi geni.

Il Tg 2 fa vedere un ragazzo che da Corigliano Calabro è a Dsseldof per lavoro. “Lavoro in una società di pulizie”, dice, “in attesa di un’occasione”. Guadagnerà 400 euro, al mese, i famosi mini-job del miracolo tedesco, che “occupano” sette milioni e mezzo di persone? La giornalista non lo chiede, ma il ragazzo sembra incerto.
La cugina che l’ha preceduto a Düsseldorf dice: “Opero nello stesso settore”. In attesa dell’occasione? Ma lei è in età.
I due cugini a Corigliano mai avrebbero lavorato in una società di pulizie. Benché potessero risparmiare sull’affitto. Siamo soprattutto sperduti, provinciali.

Verga fascista? Ma non era morto prima? Lo dice Quirino Principe sul “Sole 24 Ore” di domenica scorsa. Dopo aver lamentato la scarsa attenzione che si presta a Dante, per colpa del ’68. La disattenzione – con gli ascolti di Benigni, le fole di Sermonti? – è “frutto”, dice Principe, “da un lato dell’imbecillità del 1968 e seguenti, quando giovani analfabeti sostennero essere Dante un reazionario da sostituire con il proletario Verga (ignorando che Dante fu un ribelle irriducibile e Verga un sostenitore del fascismo in Sicilia”.
È vero che Verga fu antifascista, nel senso che oppose i Fasci siciliani, il socialismo, ma questa è un’altra storia. Più che altro è vero che la Sicilia resta remota, e Verga.

Breve storia segnaletica della Sicilia
I siciliani sono francesi. Sono stati arabi prima, poi francesi.
Quando erano punici e greci, erano in realtà siculi di lingua punica e greca.
Poi gli spagnoli sono venuti, ma non si sono mischiati.
Visi s’incontrano sbalzati dalle tappezzerie di Bayeux. Intagliati nell’alabastro, le code degli occhi leggermente all’insù, visi ovali, ricciolini, minuti, occhi chiari. È impressionante quanti se ne incontrino.  I nomi francesi sono in maggioranza, i nomi anagrafici – i luoghi sono sempre greci e arabi.
I normanni, seminomadi, curavano poco il territorio, molto il clan, il gruppo familiare. Gli angioini il gusto della cultura, che è anch’esso molto siciliano – gli angioini influirono sulla Sicilia ben oltre i pochi anni di dominio diretto, fino a Eleonora d’Angiò e oltre.
Quando la Sicilia avrà riavuto l’onore e creerà un vero servizio anagrafico, come nelle public libraries Usa, le ascendenze francesi saranno incontestabilmente acclarate.
Ammesso che lo vogliano, perché i siciliani amano nascondersi. In una favola ripresa in “Come la penso”, Andrea Camilleri ricorda la storia di Tespi, il primo attore - hypokrites, colui che dà le risposte - vittima della ragione di Stato. La quale poi impone a chi vuole apparire diverso la maschera e i coturni. Fra le tante maschere di hypokrites i cataloghi ne registrano una di “Siciliano”.

Mafia
Leonardo Vitale aveva raccontato nel 1973 che la mafia nel 1973 voleva eliminare Mauro De Mauro, un anno prima della sua sparizione, e Bruno Contrada, vent’anni prima della sua liquidazione legale. Di che far dubitare che i motivi addotti per la brutta fine dei due, l’uno per aver pestato i piedi all’Eni, il secondo per complicità mafiose, non sia stata altro che una “traggedia” montata dai mafiosi e i loro consigliori e sodali – un depistaggio.
La storia di Leonardo Vitale, di cui abbiamo raccontato la vicenda umana in “Fuori l’Italia dal Sud”, è spiegata in esteso da Salvatore Parlagreco in “L’uomo di vetro”, l’unico libro di mafia introvabile. Fu  il primo pentito di mafia, e quello che ha denunciato per primo il ruolo di Riina e di Ciancimino. Quando fece il nome di Riina i giudici lo mandarono al manicomio – ci mandarono Vitale, non Riina.
“Anche i giudici gli volevano bene”, commenta Parlagreco, “per questo lo facevano passare per pazzo”. Molto siciliano, romanzesco, non fosse che non gli credevano, mostravano di non credergli. “Certo, si trattava di uno psicopatico”, dirà Falcone a Marcelle Padovani, “ma era stato prodigo di tante affermazioni vere che avrebbero meritato ben altra considerazione”. Tutto quello che, undici anni dopo, Buscetta dirà a Falcone, nel 1984, era stato anticipato da Vitale. Il suo giudice, Domenico Signorino, accusato nel 1992 dal pentito Mutolo, altro bene informato, di collusione con la mafia, si suiciderà.
Vitale si era pentito nel vero senso della parola, da solo, senza spinte, senza premi. Disse anche che si volevano morti il giudice Terranova e il capitano dei carabinieri Russo. Che saranno uccisi.
Fra i delitti di Vitale c’era il rapimento dell’ingegner Luciano Cassina. Una ragazza aveva annotato la targa dei rapitori (omertà?), quella della Lancia Fulvia del futuro pentito. Ma questo non bastò a incolpare Vitale, che si fece pochi giorni di cela, confortato dai pizzini che gli spiegavano cosa dire.

Dice Andrea Camilleri ai giudici, invitato a un convegno del Csm nel 2007: “Mi ha sempre disgustato vedere i giudici spingere con l’inganno e le false speranze di favori o del perdono il criminale a confessare la sua azione, e adoperare in ciò la frode e l’impudenza. È una giustizia perfida, non meno ferita da se stesa che da altri”. Senza reazione del consesso dei giudici.

Lo Stato è mafia se lo dice Massimo Ciancimino? Anche un carabiniere pluricondannato, il colonnello Riccio, è vero.

leuzzi@antiit.eu

Niente amore, tutti narcisi – niente futuro

Pesa l’indifferenza – la promiscuità sessuale, un colpo e via, che male c’è. Ma più pesa la singletudine, o “erosione dell’Altro”, la “narcisisizzazione”, lento veleno. Semplice: “L’Eros riguarda l’Altro”. Perciò, nell’Inferno dell’Uguale, a cui la società contemporanea assomiglia sempre più, non c’è alcuna esperienza erotica”. Alcuna è eccessivo, però: “Viviamo, oggi, in una società che diventa serpe più narcisistica. La libido è investita, in via primaria, nella propria soggettività”.
Più ancora pesa la “civiltà dei consumi” – chi l’avrebbe detto, cinquant’anni dopo il ’68 (che, come si sa, cominciò nel ’63). Domina il principio di prestazione, “teso soprattutto verso il risultato”. L’alterità, altro-da-sé, negativa, irriducibile, è ridotta a differenza – l’atopico è trasformato in eterotopico: “Oggi la negatività sparisce ovunque. Tutto viene livellato come oggetto di consumo”. Siamo solo alla terza pagina, e tutto il resto è citabile, Han procede lento come un rullo compressore, incontestabile. Filosofo all’università berlinese delle Arti (Han, cioè “Cinese”, ingegnere coreano cattolico, si è germanizzato con la filosofia, addottorandosi trent’anni fa con la tesi “Heideggers Herz”, il cuore di Heidegger), ci intrattiene per dieci pagine sulla “Melancholia” di Lars von Trier, il film, ma è veniale: il peccato lo sconta subito dopo con le “Cinquanta sfumature di grigio”,  il ragionamento fila sempre. Con Lévinas e Marsilio Ficino, contro Agamben e Eva Illouz (“Consuming the Romantic Utopia: Love and the Cultural Contradictions of Capitalism”, 1997). “L’«etica del Sé» di Foucault” è buona per opporsi al potere esterno, repressivo, “ma è circa d fronte alal violenza della libertà sottesa all’autosfruttamento”. La “violenza della libertà”. In forza della cancellazione dell’Altro: “Il capitalismo è soltanto colpevolizzante – un rimando indiretto al - e una conferma del – seminale “Il debito del vivente” di Elettra Stimilli qualche anno fa.
Il titolo è sull’eros, il contenuto è il narcisismo. Che annulla e umilia: “L’odierno soggetto di prestazione ricorda il servo hegeliano”.  Ne è prova la depressione. Il disagio, se non è morbo, dell’epoca: “La depressione è una patologia narcisistica. Vi conduce l’esagerata autoreferenzialità, che è deviata in modo patologico”. Con effetto boomerang: “Il soggetto narcisistico-depressivo è esaurito e logorato da se stesso”. Han non lo dice, ma è dell’Europa che parla, che si mangia la coda. “La società della prestazione è interamente dominata dal verbo modale potere, in contrapposizione alla società disciplinare che esprime divieti e si serve del dovere”. Ma a nessun effetto, non accrescitivo, espansivo. È una società che si morde la coda: lo sfruttatore è lo sfruttato. Il soggetto è al tempo stesso vittima e carnefice”.
Byung-Chul Han, Eros in agonia, nottetempo, pp. 97 € 7