Giuseppe Civati, Pippo per gli amici e i (residui) lettori di giornali, confonde l’Italia con l’Egitto o la Siria. Offendendo gravemente i due paesi, che pure sono amici dell’Italia.
Civati in sé non farebbe notizia. È un ex studente di filosofia, ex consigliere regionale lombardo, e “twittatore forsennato”. Uno dei tanti insomma. Se non che per Milano è la speranza del partito Democratico, di cui si vuole leader, e quindi dell’Italia. Se così è, la cosa è preoccupante.
Farà pure parte del buon’animo lombardo e dei suoi grandi giornali appaiare l’Italia a paesi del Terzo mondo. Ma il Terzo mondo inevitabilmente si offende quando l’Italia le viene buttata addosso. Un tempo l’Argentina o il Sud America, oggi, non studiandosi più la geografia a scuola, i paesi di cui alle cronache del giorno. Che sarebbero felici di essere o avere un decimo di quanto l’Italia è e ha, ma si sentono irrisi non riuscendoci o non potendolo.
sabato 20 luglio 2013
La moda a Milano
Dolce & Gabbana non si sentono a loro agio a Milano, dove pure hanno otto negozi e un ristorante. L’erede Trussardi sibila: “Milano e la moda? Zero, zero, zero”. Prada se ne tiene lontana, dopo le vicissitudini del collocamento in Borsa. Armani non vende, ma… E questa è tutta la moda a Milano.
Zero non è la cifra giusta, Milano i capitali per la moda ce li ha messi, un po’. Non si può dire che non abbia fatto niente. Ma niente di più. È una città senza glamour e senza qualità – impossibile fare a Milano la conversazione che è possibile a Parigi, New York, Londra, le capitali del bello. Che a lungo si è chiesta cosa fare della moda, a parte farsi le modelle, dopo averle rimpinzate di coca.
La moda a Milano è casuale. Quarant’anni fa, quando la cosa nasceva, aveva sarte, ma non di più né più qualificate che Roma o Firenze, Biki e poche altre. Aveva un’industria tessile (l’eredità di un’industria tessile: erano già i tempi di Felicino Riva). E una forte domanda, soprattutto per la prima alla Scala. Ma non aveva un decimo del richiamo di Firenze o Roma.
Il caso fu la mostra del design italiano progettata dall’Eni nel quadro di un rinnovo d’immagine dell’Ente, di gruppo tecnologico espressione di un paese all’avanguardia nelle tecnologie e i servizi. Che l’Ente realizzò a New York nella sede e con la collaborazione del Moma – se ne occupò per circa un anno Carlo Robustelli, uno dei dirigenti delle pr del gruppo petrolifero. Il litigioso mondo della moda fu zittito d’autorità, e le sperse energie del design, lombarde, piemontesi, toscane, sinergizzate e magnificate nella mostra. Che ebbe un successo oltre ogni aspettativa.
Il Museum of Modern Arts a New York fece suo il progetto: l’idea del principato, l’arte, il lusso, e la vita delle idee, la creatività, la tradizione, la razionalità del secondo grado, e il finanziamento dell’Eni - il finanziamento è negli Usa la parte preponderante dei progetti culturali. Il Moma seguiva da tempo alcuni architetti italiani e il progetto cominciò da lì: il disegno applicato agli oggetti di consumo, il disegno industriale, la figura dello stilista, il disegno applicato all’eleganza – l’ingegneria della vita bella. Nacque il made in Italy – era un buon titolo – e Milano fu lesta a metterci il cappello sopra, i “markettari” e le banche.
Zero non è la cifra giusta, Milano i capitali per la moda ce li ha messi, un po’. Non si può dire che non abbia fatto niente. Ma niente di più. È una città senza glamour e senza qualità – impossibile fare a Milano la conversazione che è possibile a Parigi, New York, Londra, le capitali del bello. Che a lungo si è chiesta cosa fare della moda, a parte farsi le modelle, dopo averle rimpinzate di coca.
La moda a Milano è casuale. Quarant’anni fa, quando la cosa nasceva, aveva sarte, ma non di più né più qualificate che Roma o Firenze, Biki e poche altre. Aveva un’industria tessile (l’eredità di un’industria tessile: erano già i tempi di Felicino Riva). E una forte domanda, soprattutto per la prima alla Scala. Ma non aveva un decimo del richiamo di Firenze o Roma.
Il caso fu la mostra del design italiano progettata dall’Eni nel quadro di un rinnovo d’immagine dell’Ente, di gruppo tecnologico espressione di un paese all’avanguardia nelle tecnologie e i servizi. Che l’Ente realizzò a New York nella sede e con la collaborazione del Moma – se ne occupò per circa un anno Carlo Robustelli, uno dei dirigenti delle pr del gruppo petrolifero. Il litigioso mondo della moda fu zittito d’autorità, e le sperse energie del design, lombarde, piemontesi, toscane, sinergizzate e magnificate nella mostra. Che ebbe un successo oltre ogni aspettativa.
Il Museum of Modern Arts a New York fece suo il progetto: l’idea del principato, l’arte, il lusso, e la vita delle idee, la creatività, la tradizione, la razionalità del secondo grado, e il finanziamento dell’Eni - il finanziamento è negli Usa la parte preponderante dei progetti culturali. Il Moma seguiva da tempo alcuni architetti italiani e il progetto cominciò da lì: il disegno applicato agli oggetti di consumo, il disegno industriale, la figura dello stilista, il disegno applicato all’eleganza – l’ingegneria della vita bella. Nacque il made in Italy – era un buon titolo – e Milano fu lesta a metterci il cappello sopra, i “markettari” e le banche.
Iperborei, una fantasia
Iperborei non sta per arborei, è una sorta di Iper Nord, “oltre i monti Rifei” – da bora, che spira dal Nord. Menghi ne parla come di un’utopia classica, che ritraccia in Ecateo di Mileto, Erodoto, Strabone, Seneca, Plutarco. Tolomeo. Assomigliandola alla Nuova Atlantide di Bacone, all’Atlantide platonica, all’isola di Thule, all’Utopia di Thomas More e alla “Città del sole” di Campanella. Trovandoci, venticinque anni fa, “affascinanti affinità con la Scandinavia nell’Europa del nostro secolo”. Anzi, curvando un po’ i reportage di Cesare e Tacito in ammirazione, nei popoli germanici. Ma è più una fantasia, una diversa parola per popoli noti e limitati.
Nei fatti quello degli iperborei è un regno di Apollo. Che non è l’apollineo di Nietzsche, è un po’ torbido. Non c’erano popoli iperborei, non c’erano nemmeno i monti Rifei. Il lessema risponde alla devozione dei popoli del Nord al santuario di Apollo a Delo, al quale un tempo mandavano il tributo con tre vergini, poi lo mandarono per i buoni uffici dei popoli confinanti. Forse mandavano l’ambra, ma non si sa. Sicuramente era un Nord un po’ basso, tra il Mar Nero e l’Adriatico – poi si diranno slavi. Per Virgilio erano gens effrena, popoli selvaggi. Delo era il più grande mercato di schiavi della Grecia.
Martino Menghi, L’utopia degli iperborei
Nei fatti quello degli iperborei è un regno di Apollo. Che non è l’apollineo di Nietzsche, è un po’ torbido. Non c’erano popoli iperborei, non c’erano nemmeno i monti Rifei. Il lessema risponde alla devozione dei popoli del Nord al santuario di Apollo a Delo, al quale un tempo mandavano il tributo con tre vergini, poi lo mandarono per i buoni uffici dei popoli confinanti. Forse mandavano l’ambra, ma non si sa. Sicuramente era un Nord un po’ basso, tra il Mar Nero e l’Adriatico – poi si diranno slavi. Per Virgilio erano gens effrena, popoli selvaggi. Delo era il più grande mercato di schiavi della Grecia.
Martino Menghi, L’utopia degli iperborei
venerdì 19 luglio 2013
Refuso
Al topo manager
Di quest’Italia corretta
Geniale genitale
Immorale immortale
Tra i segni di sogni
E i sogni di segni,
E il verum factum, verum fictum
Che non è un refuso:
La verità è all’origine
Finzione e invenzione,
E senza non ha argomenti.
Di sognatore
Disegnatore
Di chiese chiuse
Recapitato
Decapitato
Che rode le orde
Gli umori del prato
O gli amori del prete,
E l’adulterio degli adulti,
Avviato avvitato o avvistato,
Perché il sesso è spesso
Pei corruttori di bizze
La porcellona di casa,
E il lattante latitante,
Nel puzzo della solitudine
- O pazzo, pizzo, pezzo –
Di favori segno o regno,
E afrori con trafori,
Tra carretti corrotti
Dalla banda d’affari,
Nella noia ch’era gioia
E divertiva Freud.
La moglie del sardo che in realtà è la moglie del sordo, invenzione di Larbaud, che trascorrerà afasico gli ultimi vent’anni, il Corriere la attribuisce a Grazia Deledda – il Corriere della serra, che non è refuso ma citazione di autorevole giornale a Parigi
(Mare madre è invece
gioco di parole
del Saba freudiano)
Per slittamenti si va
Di senso o slinguamenti
Che in bocca lasciano l’amaro:
Il poeta peta
La gastrite è verbale.
Di quest’Italia corretta
Geniale genitale
Immorale immortale
Tra i segni di sogni
E i sogni di segni,
E il verum factum, verum fictum
Che non è un refuso:
La verità è all’origine
Finzione e invenzione,
E senza non ha argomenti.
Di sognatore
Disegnatore
Di chiese chiuse
Recapitato
Decapitato
Che rode le orde
Gli umori del prato
O gli amori del prete,
E l’adulterio degli adulti,
Avviato avvitato o avvistato,
Perché il sesso è spesso
Pei corruttori di bizze
La porcellona di casa,
E il lattante latitante,
Nel puzzo della solitudine
- O pazzo, pizzo, pezzo –
Di favori segno o regno,
E afrori con trafori,
Tra carretti corrotti
Dalla banda d’affari,
Nella noia ch’era gioia
E divertiva Freud.
La moglie del sardo che in realtà è la moglie del sordo, invenzione di Larbaud, che trascorrerà afasico gli ultimi vent’anni, il Corriere la attribuisce a Grazia Deledda – il Corriere della serra, che non è refuso ma citazione di autorevole giornale a Parigi
(Mare madre è invece
gioco di parole
del Saba freudiano)
Per slittamenti si va
Di senso o slinguamenti
Che in bocca lasciano l’amaro:
Il poeta peta
La gastrite è verbale.
Lichtenberg, il tedesco asistemico che si rifiuta
La più ampia silloge degli aforismi e le lettere, in vario modo brillanti, del fisico e satirista che fu l’attrazione della migliore fisica della sua epoca, a partire da Alessandro Volta, e poi della migliore filosofia: Kant, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche lo hanno letto con profitto. Benché praticasse di proposito la scrittura asistemica, e anzi frantumata, e non volesse insegnare nulla – fu pubblicato postumo: Schopenhauer lo chiamava Selbstdenker, pensatore indipendente, anticonformista.
Anacleto Verrecchia, che è il suo miglior lettore in Italia e l’aveva già proposto una cinquantina d’anni fa in edizione ridotta per Einaudi, ha triplicato la scelta e la fa precedere da un lungo saggio - prende un terzo del volume ma si legge come un romanzo. Figlio di pastore, specie in Germania prolifica di umanisti, Gryphius, Telemann, Lessing, Lenz, Wieland, Nietzsche, ultimo di diciassette figli, della stessa madre, piccolo, gracile e gobbo, è aforista cattivo e, a suo modo, allegro – scherzoso spesso, talvolta affettuoso. Non si privò del resto di nulla.
Fu giovanissimo professore, matematico e astronomo, alla stessa università di Gottina, Georgia Augusta, creata dai re hannoveriani d’Inghilterra per coprire e formare l’“ariano”, la storia provvidenziale che poi sarà hegeliana. Dove aveva studiato con una borsa di studio del langravio della sua città, Ludwig VIII. Alla scuola specialmente di Abraham Gotthelf Kästner, direttore dell’osservatorio astronomico e egli stesso satirista. Insegnante seguitissimo, scienziato presto di fama – a casa sua furono di casa tutta la scienza e le lettere tedesche, Volta a lungo. Fu antiaccademico - le scoperte, spiegava, sono opera di geni autodidatti: Franklin era un farmacista, Watt un meccanico, Herschel un organista, i Montgolfier industriali della carta. Ebbe non meno di dieci amanti, tante ne sono state rintracciate, tutte di modesta e modestissima condizione sociale. Con una di esse, venditrice di fragole, si sposò, avendone una mezza dozzina di figli, il primo prima del matrimonio – altri ne ebbe da altre amanti, lo chiamavano Augusto il Forte, dal duca di Sassonia che fece non meno di 350 figli. Sapeva il latino, il greco, l’italiano, il francese, l’inglese, ed era in grado di leggere in lingua originale tutta la letteratura europea.
Al liceo aveva imparato, come Voltaire, a fare la calza. E si era prodotto, tra le tante, in due dissertazioni (temi in classe) che si ristampano, su Grozio e sul suicidio – di cui redasse l’apologia anche in latino. A quarant’anni fu vicino al suicidio: s’era invaghito di una ragazza che vendeva fiori per strada, Marie Dorothea Stechard, di “un po’ più di tredici anni” (ma ne aveva dodici, Verrecchia l’ha accertato) , che dopo poco tempo mori. Della “Stechardi” sembra essere stato veramente innamorato, ma non si uccise.
“Ogni uomo ha anche le sue natiche morali, che non mostra senza rossore e che nasconde ilpiù possibile con i calzoni della buna creanza”. Del pio Böhme, il calzolaio mistico, dice l’opera un picnic, “in cui lui mette il suono, il lettore il senso”. Ma non voleva essere cattivo, c’è una filosofia anche fonetica, una coloratura filosofica: fu amabile più che profondo. “Si conquistò un buon cuore solo con il brio e la leggerezza;: per esso ora ha perso l’uno e l’altra”, disse infine di se stesso.
Devotissimo sempre al “quasi sovrumano Newton”, di cui acquistò commosso la maschera mortuaria. Non “scrisse”, disprezzando con Baretti i “cacalibri”, ma scrisse molto, svagatamente.
Commuove anche per impersonare la tradizione tedesca, che è di leggerezza, prima del prussianesimo e
della politica di potenza, anche accademica. Molto tedesca pure l’attrazione che subiva, una sorta di identità sdoppiata, per il doppio - ”un vero e proprio teologo della Duplicität” lo vuole Verrecchia. Uomo dalla dodici malattie e dalle interminabili incontrollabili pulsioni, con una qualche “Dolly” a chiusura della giornata in mancanza della moglie o dell’amante del momento. Un inno alla vita. Ma è probabilmente questa di Verrecchia l’unica riedizione di Lichtenberg disponibile in libreria, sicuramente quella più ampia. Anche in tedesco: la Germania non lo ama.
Georg Christoph Lichtenberg, Lo scandaglio dell’anima, Bur, pp. 659 € 13,50
Anacleto Verrecchia, che è il suo miglior lettore in Italia e l’aveva già proposto una cinquantina d’anni fa in edizione ridotta per Einaudi, ha triplicato la scelta e la fa precedere da un lungo saggio - prende un terzo del volume ma si legge come un romanzo. Figlio di pastore, specie in Germania prolifica di umanisti, Gryphius, Telemann, Lessing, Lenz, Wieland, Nietzsche, ultimo di diciassette figli, della stessa madre, piccolo, gracile e gobbo, è aforista cattivo e, a suo modo, allegro – scherzoso spesso, talvolta affettuoso. Non si privò del resto di nulla.
Fu giovanissimo professore, matematico e astronomo, alla stessa università di Gottina, Georgia Augusta, creata dai re hannoveriani d’Inghilterra per coprire e formare l’“ariano”, la storia provvidenziale che poi sarà hegeliana. Dove aveva studiato con una borsa di studio del langravio della sua città, Ludwig VIII. Alla scuola specialmente di Abraham Gotthelf Kästner, direttore dell’osservatorio astronomico e egli stesso satirista. Insegnante seguitissimo, scienziato presto di fama – a casa sua furono di casa tutta la scienza e le lettere tedesche, Volta a lungo. Fu antiaccademico - le scoperte, spiegava, sono opera di geni autodidatti: Franklin era un farmacista, Watt un meccanico, Herschel un organista, i Montgolfier industriali della carta. Ebbe non meno di dieci amanti, tante ne sono state rintracciate, tutte di modesta e modestissima condizione sociale. Con una di esse, venditrice di fragole, si sposò, avendone una mezza dozzina di figli, il primo prima del matrimonio – altri ne ebbe da altre amanti, lo chiamavano Augusto il Forte, dal duca di Sassonia che fece non meno di 350 figli. Sapeva il latino, il greco, l’italiano, il francese, l’inglese, ed era in grado di leggere in lingua originale tutta la letteratura europea.
Al liceo aveva imparato, come Voltaire, a fare la calza. E si era prodotto, tra le tante, in due dissertazioni (temi in classe) che si ristampano, su Grozio e sul suicidio – di cui redasse l’apologia anche in latino. A quarant’anni fu vicino al suicidio: s’era invaghito di una ragazza che vendeva fiori per strada, Marie Dorothea Stechard, di “un po’ più di tredici anni” (ma ne aveva dodici, Verrecchia l’ha accertato) , che dopo poco tempo mori. Della “Stechardi” sembra essere stato veramente innamorato, ma non si uccise.
“Ogni uomo ha anche le sue natiche morali, che non mostra senza rossore e che nasconde ilpiù possibile con i calzoni della buna creanza”. Del pio Böhme, il calzolaio mistico, dice l’opera un picnic, “in cui lui mette il suono, il lettore il senso”. Ma non voleva essere cattivo, c’è una filosofia anche fonetica, una coloratura filosofica: fu amabile più che profondo. “Si conquistò un buon cuore solo con il brio e la leggerezza;: per esso ora ha perso l’uno e l’altra”, disse infine di se stesso.
Devotissimo sempre al “quasi sovrumano Newton”, di cui acquistò commosso la maschera mortuaria. Non “scrisse”, disprezzando con Baretti i “cacalibri”, ma scrisse molto, svagatamente.
Commuove anche per impersonare la tradizione tedesca, che è di leggerezza, prima del prussianesimo e
della politica di potenza, anche accademica. Molto tedesca pure l’attrazione che subiva, una sorta di identità sdoppiata, per il doppio - ”un vero e proprio teologo della Duplicität” lo vuole Verrecchia. Uomo dalla dodici malattie e dalle interminabili incontrollabili pulsioni, con una qualche “Dolly” a chiusura della giornata in mancanza della moglie o dell’amante del momento. Un inno alla vita. Ma è probabilmente questa di Verrecchia l’unica riedizione di Lichtenberg disponibile in libreria, sicuramente quella più ampia. Anche in tedesco: la Germania non lo ama.
Georg Christoph Lichtenberg, Lo scandaglio dell’anima, Bur, pp. 659 € 13,50
giovedì 18 luglio 2013
Il mondo com'è (142)
astolfo
Adulterio - Un tempo era femminile. Ed era scontato che la donna doveva sposarsi, solo dopo avrebbe trovato e gustato le occasioni per divertirsi – “gli uomini trascurano le donne che non danno la sicurezza dello stato coniugale”, sancisce Anatole France, intenditore e teorico, ne “La rivolta degli angeli”. Col divorzio è diventato maschile: è l’uomo che è ambito e più se lo gode, a condizione che sia sposato. Ma per una meccanica opposta a quella di Anatole France: l’uomo è ambito per farsi comunque sposare. Quindi meglio se coniugato, per la coazione dello scandalo.
Guerra - È generazionale, anch’essa? Va a cicli. Quella di Troia fu – si reputa – decennale. Ma più s’impone il ciclo trentennale. Dalla guerra del Peloponneso a quella dei Trent’anni propriamente detta. Anche quella della Germania all’Europa fu trentennale, dal 1914 al 1944. E quella anticomunista (sovietica) degli Usa, dal 1945 fino alla sconfitta in Vietnam nel 1975.
Con la Siria si chiude il ciclo trentennale della guerra “umanitaria?
Internet – È commercio. È il mercato, la piazza, il vecchio mercato in piazza. È il trionfo infine del porta-a-porta. Aggressivo, condizionante, vincente. Si dice che l’e-commerce non decolla, ma se è qualcosa Internet è per ora solo commercio, anche se spesso solo di parole.
È il commercio rovesciato: non sono più i clienti che si recano al negozio, ma i venditori che fanno negozio in casa del cliente, fanno per questo anche la fila, e impongono le loro condizioni. Anche minacciando, occupando gli spazi con gli spam, prospettando virus letali, e qualcuno anche inoculandolo.
Sono venditori anzitutto dello stesso business elettronico, per consentirgli di funzionare: venditori di sicurezza, di stampa, di sistemi di scrittura e archiviazione, calcolo, grafica, masterizzazione, è un assedio, le app sono già un numero infinito. Internet è una rete sopratutto a questo scopo: una gigantesca mailing-list con accesso garantito. Gli altri usi di Internet non sono rete: chat e blog sono passatempi, coperture del business.
Islam – È sempre forte della tradizione. Grazie alla quale mantiene identità forti, anche quando all’origine è il deserto o la tribù. Il radicamento culturale è comunque forte, più dell’eversione che la modernità introduce, con lo sviluppo e la necessità di igiene, sanità, lavoro, ricchezza.
Il khomeinismo ha arrestato la modernizzazione del mondo islamico, ripiegandolo su se stesso, livoroso e revanscista. In questo senso l’Iran khomeinista è stato più volte partner di fatto del nemico Israele, e ne ha anzi favorito l’ìntransigenza. Al coperto della religione i fattori tradizionali politicamente arretrati, antidemocratici, hanno preso il sopravvento in Pakistan, Afghanistan, Sudan, e anche in molti paesi già avanti con la modernizzazione, lo stesso Iran, l’Algeria, l’Iraq, i palestinesi, e in parte l’Egitto e la stessa laicissima Siria.
Un fenomeno a lungo marginale in Iran: l’ayatollah Khomeini era un religioso come tanti, che si era confinato a Kerbala in Iraq in odio allo scià, ma senza seguito politico nel paese. Finché non fu accolto in Francia, a Neuaphle-le-Château, dove, ben protetto dai servizi francesi, ebbe giornalmente i suoi messaggi amplificati con tutti i mezzi di comunicazione più avanzati, audiocassette, videocassette, un balcone, un pubblico di fedeli, e interpreti di eccezione, Michel Foucault ne fu uno, che ne amplificarono il senso. Fino a che gli stessi Usa, partner privilegiato dello scià, furono presi nell’image building del religioso, e il presidente Carter mandò a Teheran il generale Heuser per convincere lo scià a dare il potere a Khomeini. Khomeini era uno degli strumenti di mobilitazione dell’islam in Centro Asia contro l’Urss, e contribuì a isolare del tutto i sovietici in Afghanistan. Ma poi si rivolterà contro gli Usa.
Osama bin Laden ne ha ripetuto la storia a distanza di dieci anni. Volontario in Afghanistan contro i sovietici, nel 1989 chiedeva il boicottaggio degli Stati Uniti per il sostegno costante a Isrele. Nell’agosto del 1996 dichiarò guerra alle basi americane in Arabia Saudita. Nel febbraio del 1998 chiamò la jihad contro “gli americani e i loro alleati” in qualsiasi posto nel mondo.
L’islam mediterraneo ha vissuto il tardo Ottocento, e il Novecento fino a Khomeini, oltre un secolo, nell’accettazione piena e anzi nella ricerca dell’Occidente. È il modello dettato da Istanbul, dai sultani turchi e poi da Ataturk, e fatto proprio da qaggiari iraniani, poi dai pahlevì, e dai khedivé d’Egitto, fino alla repubblica dei Liberi Ufficiali, Nasser incluso. Che ambiva a copiare e ricostituire i modelli occidentali in ogni aspetto della vita associata, nella legislazione, nei comportamenti, nell’istruzione.
Povertà - La soglia di povertà ha introdotto Peter Townsend, economista e sociologo britannico, e si fissa al cinquanta o sessanta per cento del reddito medio nazionale. Ciò significa, partecipando i poveri al calcolo del reddito medio, che ce ne saranno sempre in grande numero. Anche in Svizzera, o in Svezia, qual è il paese più ricco. Anche se gli svizzeri poveri hanno il reddito medio italiano. E qualcosa come cinquanta o cento volte il reddito medio indiano, se esiste una cosa del genere - le statistiche hanno bisogno di quantità.
Il tenore di vita è semplice anch’esso, ma altrettanto complesso. Implica un reddito e dei beni (Petty, Lagrange, Lavoisier), la soddisfazione personale (Bentham), un’aspirazione sociale (Adam Smith), un livello minimo nazionale di reddito reale (Pigou), le strade, per esempio, l’acqua corrente, le scuole pubbliche, l’ospedale. La ricchezza è insaziabile. Se non che viene fuori l’indiano Amartya Sen, imparentato coi Rothschild e con Altiero Spinelli, con le ponderazioni variabili e gli ordini parziali, e l’equilibrio si ricompone. È come la commedia all’italiana, le corna non ci sono state.
Regine – Le più famose, modernamente, longeve e giudiziose, anche forti politicamente e di sicuro intuito, sono quelle a cui piace farlo. Fanno infatti molti figli: Maria Teresa d’Austria, la regina Vittoria, la stessa Elisabetta II, malgrado il marito pescesecco.
Romania – Si può dire il paese e la lingua del rifiuto. Da parte degli ebrei, che parlano e scrivono di preferenza in tedesco. Dei tedeschi, che dopo otto secoli si scoprono tedeschi. Dei rom, che ne affossano ogni ipotesi di convivenza. Degli anticomunisti di Ceausescu. Dei comunisti del dopo Ceausescu. E dei tanti rumeni, Ionesco, Eliade, Cioran, che vogliono una lingua veicolare cosmopolita. È un luogo, invece che un paese? È un paese che si ricompone scorporandosi?
astolfo@antiit.eu
Adulterio - Un tempo era femminile. Ed era scontato che la donna doveva sposarsi, solo dopo avrebbe trovato e gustato le occasioni per divertirsi – “gli uomini trascurano le donne che non danno la sicurezza dello stato coniugale”, sancisce Anatole France, intenditore e teorico, ne “La rivolta degli angeli”. Col divorzio è diventato maschile: è l’uomo che è ambito e più se lo gode, a condizione che sia sposato. Ma per una meccanica opposta a quella di Anatole France: l’uomo è ambito per farsi comunque sposare. Quindi meglio se coniugato, per la coazione dello scandalo.
Guerra - È generazionale, anch’essa? Va a cicli. Quella di Troia fu – si reputa – decennale. Ma più s’impone il ciclo trentennale. Dalla guerra del Peloponneso a quella dei Trent’anni propriamente detta. Anche quella della Germania all’Europa fu trentennale, dal 1914 al 1944. E quella anticomunista (sovietica) degli Usa, dal 1945 fino alla sconfitta in Vietnam nel 1975.
Con la Siria si chiude il ciclo trentennale della guerra “umanitaria?
Internet – È commercio. È il mercato, la piazza, il vecchio mercato in piazza. È il trionfo infine del porta-a-porta. Aggressivo, condizionante, vincente. Si dice che l’e-commerce non decolla, ma se è qualcosa Internet è per ora solo commercio, anche se spesso solo di parole.
È il commercio rovesciato: non sono più i clienti che si recano al negozio, ma i venditori che fanno negozio in casa del cliente, fanno per questo anche la fila, e impongono le loro condizioni. Anche minacciando, occupando gli spazi con gli spam, prospettando virus letali, e qualcuno anche inoculandolo.
Sono venditori anzitutto dello stesso business elettronico, per consentirgli di funzionare: venditori di sicurezza, di stampa, di sistemi di scrittura e archiviazione, calcolo, grafica, masterizzazione, è un assedio, le app sono già un numero infinito. Internet è una rete sopratutto a questo scopo: una gigantesca mailing-list con accesso garantito. Gli altri usi di Internet non sono rete: chat e blog sono passatempi, coperture del business.
Islam – È sempre forte della tradizione. Grazie alla quale mantiene identità forti, anche quando all’origine è il deserto o la tribù. Il radicamento culturale è comunque forte, più dell’eversione che la modernità introduce, con lo sviluppo e la necessità di igiene, sanità, lavoro, ricchezza.
Il khomeinismo ha arrestato la modernizzazione del mondo islamico, ripiegandolo su se stesso, livoroso e revanscista. In questo senso l’Iran khomeinista è stato più volte partner di fatto del nemico Israele, e ne ha anzi favorito l’ìntransigenza. Al coperto della religione i fattori tradizionali politicamente arretrati, antidemocratici, hanno preso il sopravvento in Pakistan, Afghanistan, Sudan, e anche in molti paesi già avanti con la modernizzazione, lo stesso Iran, l’Algeria, l’Iraq, i palestinesi, e in parte l’Egitto e la stessa laicissima Siria.
Un fenomeno a lungo marginale in Iran: l’ayatollah Khomeini era un religioso come tanti, che si era confinato a Kerbala in Iraq in odio allo scià, ma senza seguito politico nel paese. Finché non fu accolto in Francia, a Neuaphle-le-Château, dove, ben protetto dai servizi francesi, ebbe giornalmente i suoi messaggi amplificati con tutti i mezzi di comunicazione più avanzati, audiocassette, videocassette, un balcone, un pubblico di fedeli, e interpreti di eccezione, Michel Foucault ne fu uno, che ne amplificarono il senso. Fino a che gli stessi Usa, partner privilegiato dello scià, furono presi nell’image building del religioso, e il presidente Carter mandò a Teheran il generale Heuser per convincere lo scià a dare il potere a Khomeini. Khomeini era uno degli strumenti di mobilitazione dell’islam in Centro Asia contro l’Urss, e contribuì a isolare del tutto i sovietici in Afghanistan. Ma poi si rivolterà contro gli Usa.
Osama bin Laden ne ha ripetuto la storia a distanza di dieci anni. Volontario in Afghanistan contro i sovietici, nel 1989 chiedeva il boicottaggio degli Stati Uniti per il sostegno costante a Isrele. Nell’agosto del 1996 dichiarò guerra alle basi americane in Arabia Saudita. Nel febbraio del 1998 chiamò la jihad contro “gli americani e i loro alleati” in qualsiasi posto nel mondo.
L’islam mediterraneo ha vissuto il tardo Ottocento, e il Novecento fino a Khomeini, oltre un secolo, nell’accettazione piena e anzi nella ricerca dell’Occidente. È il modello dettato da Istanbul, dai sultani turchi e poi da Ataturk, e fatto proprio da qaggiari iraniani, poi dai pahlevì, e dai khedivé d’Egitto, fino alla repubblica dei Liberi Ufficiali, Nasser incluso. Che ambiva a copiare e ricostituire i modelli occidentali in ogni aspetto della vita associata, nella legislazione, nei comportamenti, nell’istruzione.
Povertà - La soglia di povertà ha introdotto Peter Townsend, economista e sociologo britannico, e si fissa al cinquanta o sessanta per cento del reddito medio nazionale. Ciò significa, partecipando i poveri al calcolo del reddito medio, che ce ne saranno sempre in grande numero. Anche in Svizzera, o in Svezia, qual è il paese più ricco. Anche se gli svizzeri poveri hanno il reddito medio italiano. E qualcosa come cinquanta o cento volte il reddito medio indiano, se esiste una cosa del genere - le statistiche hanno bisogno di quantità.
Il tenore di vita è semplice anch’esso, ma altrettanto complesso. Implica un reddito e dei beni (Petty, Lagrange, Lavoisier), la soddisfazione personale (Bentham), un’aspirazione sociale (Adam Smith), un livello minimo nazionale di reddito reale (Pigou), le strade, per esempio, l’acqua corrente, le scuole pubbliche, l’ospedale. La ricchezza è insaziabile. Se non che viene fuori l’indiano Amartya Sen, imparentato coi Rothschild e con Altiero Spinelli, con le ponderazioni variabili e gli ordini parziali, e l’equilibrio si ricompone. È come la commedia all’italiana, le corna non ci sono state.
Regine – Le più famose, modernamente, longeve e giudiziose, anche forti politicamente e di sicuro intuito, sono quelle a cui piace farlo. Fanno infatti molti figli: Maria Teresa d’Austria, la regina Vittoria, la stessa Elisabetta II, malgrado il marito pescesecco.
Romania – Si può dire il paese e la lingua del rifiuto. Da parte degli ebrei, che parlano e scrivono di preferenza in tedesco. Dei tedeschi, che dopo otto secoli si scoprono tedeschi. Dei rom, che ne affossano ogni ipotesi di convivenza. Degli anticomunisti di Ceausescu. Dei comunisti del dopo Ceausescu. E dei tanti rumeni, Ionesco, Eliade, Cioran, che vogliono una lingua veicolare cosmopolita. È un luogo, invece che un paese? È un paese che si ricompone scorporandosi?
astolfo@antiit.eu
Non ci salvano nemmeno gli angeli
Piovono angeli su Parigi. Che non per questo si distrae dalla sua ricerca del piacere. Satana vuole prendere il posto di Dio, Dio non si dispiace all’inferno. Un racconto “tumultuoso” e “confusionario”, come le assemblee cospirative dei suoi angeli ribelli.
Numerose letture sono state date a questa cospirazione angelica contro Dio, a partire dalla terra, anzi dalla peccaminosa Parigi, da ultimo quella concettosissima che Roberto Saviano premette a questa riedizione (dopo quasi novant’anni), ma France, se aveva delle ambizioni, le nasconde. Più che altro si diverte – il giovane Maurice “si proclamava antisemita e non frequentava che ebrei antisemiti come lui”, il genere è questo. Tra il bibliotecario impegnato a difendere i libri contro chiunque voglia leggerli (“conservatore di 360 mila volumi, aveva 360 mila motivi di allarme”), buoni cattolici antimassoni, e buoni massoni anticlericali, donne innamorate del piacere, giovani e meno giovani, anarchici, bombe, occhiute polizie, e artisti tanto innamorati dell’arte da copiarla senza vergogna. Di cui gli angeli sono presto la copia. Satana prendendo il posto di Dio a lui si conforma, mentre Dio all’inferno si riscopre umano, molto umano. Ma il ritmo e l’impianto sono da giallo, a parte i quattro o cinque capitoli centrali, una cinquantina di pagine in cui France rifà la storia del mondo: meritano che non si dica tutto. C’è anche la chiesa di Saint-Sulpice, che sarà ambientazione celeberrima col “Codice Da Vinci”.
Anatole France, La rivolta degli angeli, Meridiano Zero, pp. 318 € 10
Numerose letture sono state date a questa cospirazione angelica contro Dio, a partire dalla terra, anzi dalla peccaminosa Parigi, da ultimo quella concettosissima che Roberto Saviano premette a questa riedizione (dopo quasi novant’anni), ma France, se aveva delle ambizioni, le nasconde. Più che altro si diverte – il giovane Maurice “si proclamava antisemita e non frequentava che ebrei antisemiti come lui”, il genere è questo. Tra il bibliotecario impegnato a difendere i libri contro chiunque voglia leggerli (“conservatore di 360 mila volumi, aveva 360 mila motivi di allarme”), buoni cattolici antimassoni, e buoni massoni anticlericali, donne innamorate del piacere, giovani e meno giovani, anarchici, bombe, occhiute polizie, e artisti tanto innamorati dell’arte da copiarla senza vergogna. Di cui gli angeli sono presto la copia. Satana prendendo il posto di Dio a lui si conforma, mentre Dio all’inferno si riscopre umano, molto umano. Ma il ritmo e l’impianto sono da giallo, a parte i quattro o cinque capitoli centrali, una cinquantina di pagine in cui France rifà la storia del mondo: meritano che non si dica tutto. C’è anche la chiesa di Saint-Sulpice, che sarà ambientazione celeberrima col “Codice Da Vinci”.
Anatole France, La rivolta degli angeli, Meridiano Zero, pp. 318 € 10
mercoledì 17 luglio 2013
Quei cazzoni americani
I settant’anni della Liberazione della Sicilia la casa editrice di Palermo celebra con una pubblcazione beffarda, la guida all’isola dei liberatori commentata da Camilleri – “è una raccolta di stereotipi, luoghi comuni, conoscenze superficiali, omissioni vistose". Un divertimento, soprattutto per chi la Sicilia ce l’ha sulle scatole.
Il volumetto non celebra peraltro la Liberazione ma “lo sbarco in Sicilia”. Sul genere “cazzoni americani” - la guida è inglese, ma Camlleri la vuole americana. La cosa triste è che il manuale è un documento storico serio, a petto dello starnazzante Camilleri: sull’uso del coltello nelle campagne (ancora negli anni 1960…), sull’acqua poco buona (è come per un italiano oggi a Città del Messico o al Cairo), e perfino sulla mafia. Il generale Eisenhower, che Camilleri vorrebbe al soldo di Lucky Luciano, mette in guardia l’americano di trincea: “Un rapporto americano sostiene che il gangsterismo negli Usa ebbe origine proprio dall’immigrazione italiana”.
Guida del soldato in Sicilia, Sellerio, pp. 96 € 10
Il volumetto non celebra peraltro la Liberazione ma “lo sbarco in Sicilia”. Sul genere “cazzoni americani” - la guida è inglese, ma Camlleri la vuole americana. La cosa triste è che il manuale è un documento storico serio, a petto dello starnazzante Camilleri: sull’uso del coltello nelle campagne (ancora negli anni 1960…), sull’acqua poco buona (è come per un italiano oggi a Città del Messico o al Cairo), e perfino sulla mafia. Il generale Eisenhower, che Camilleri vorrebbe al soldo di Lucky Luciano, mette in guardia l’americano di trincea: “Un rapporto americano sostiene che il gangsterismo negli Usa ebbe origine proprio dall’immigrazione italiana”.
Guida del soldato in Sicilia, Sellerio, pp. 96 € 10
Un colpo all’Eni, con ricattino al governo neonato
È guerra dura in Kazakistan. Dove l’Eni ha avuto la fortuna di dirigere il consorzio che ha trovato tanto petrolio, con la Shell partner silente. È guerra di Londra contro Roma, per i ricchi affari, presenti e futuri, di Nazarbayev, l’uomo del destino del Kazakistan, che a Londra intrattiene una ricca rete di relazioni pubbliche, con ganci anche nei servizi britannici. Ben più efficiente di quella che mantiene in Italia - con Romano Prodi, è tutto dire. Il premier inglese Cameron aveva fatto condannare Ablyazov marito a un paio d’anni, chiedendogli indietro due o tre miliardi per conto di Nazarbayev, e il giorno in cui l’Italia si strappava i capelli per l’espulsione della signora Ablyazov era in Kazakistan a raccogliere i frutti del benfatto.
La vicenda è tutta qui, La sanno tutti, e quindi è impensabile che non la sapessero i tre o quattro capi di gabinetto che hanno estradato la signora Ablyazov. È una gara tra l’Italia e la Gran Bretagna per i favori di Nazarbayev. A cui l’Italia accede, si può dire, con colpe minori: ha solo espulso la signora, non l’ha carcerata né le chiede miliardi. Ma l’Italia perde sempre la battaglia dell’informazione: nessun giornale britannico avrebbe dato eco alla denuncia di una Amnesty italiana della carcerazione di Ablyazov marito. L’inverso invece è successo, succede normalmente, in Italia.
L’espulsione era venuta alle cronache, su “Oggi”, a fine maggio. Ma è diventata uno scandalo quando Cameron doveva recarsi in visita da Nazarbayev – “gli italiani sono inattendibili” è il messaggio, non surrettizio, meglio gli inglesi. Anche considerando che Ablyazov è sicuramente più criminale che oppositore politico, come tutti i gerarchi dell’ex impero sovietico. C’è pure un aspetto interno: la signora Ablyazov è stata espulsa tra il 27 e il 29 maggio. E dunque è una delle trappole tese al governo, fresco di giuramento, a tre settimane dal passaggio delle consegne: i grandi burocrati sono soliti uncinare i nuovi ministri con uno o due ricattini, roba non detta, detta male, detta tra mille altre. Ma il fatto è internazionale.
Robetta, sgambetti tra Grandi Signori della Signora Europa a spese di un’informazione barbina – forse i confidenti, che in ogni redazione ci sono, sono pagati, ma poco. Il contorno di Berlusconi (Sardegna, il compagno Zappadu, i sottomarini atomici…) è anch’esso da servizi segreti. La ciliegina è lo scandalo azionato tramite la Lega, a difesa di una kazaka, una “negra”. Questa è proprio da servizi segreti, gli spioni più che altro si divertono.
Anche il danno non è grave: gli inglesi ci hanno portati, sempre tramite i giornali, a fare una guerra vera, con gli aerei, le bombe e tutto, a Gheddafi nel nome della democrazia in Libia. Cioè ad abbattere un regime che privilegiava l’Italia a favore di uno che invece guarda a Londra e Washington. È la conferma che l’Italia se la passa male, se la bastona, oltre alla Germania, anche l’Inghilterra – ebbe da ridere perfino l’incredibile Sarkozy.
La vicenda è tutta qui, La sanno tutti, e quindi è impensabile che non la sapessero i tre o quattro capi di gabinetto che hanno estradato la signora Ablyazov. È una gara tra l’Italia e la Gran Bretagna per i favori di Nazarbayev. A cui l’Italia accede, si può dire, con colpe minori: ha solo espulso la signora, non l’ha carcerata né le chiede miliardi. Ma l’Italia perde sempre la battaglia dell’informazione: nessun giornale britannico avrebbe dato eco alla denuncia di una Amnesty italiana della carcerazione di Ablyazov marito. L’inverso invece è successo, succede normalmente, in Italia.
L’espulsione era venuta alle cronache, su “Oggi”, a fine maggio. Ma è diventata uno scandalo quando Cameron doveva recarsi in visita da Nazarbayev – “gli italiani sono inattendibili” è il messaggio, non surrettizio, meglio gli inglesi. Anche considerando che Ablyazov è sicuramente più criminale che oppositore politico, come tutti i gerarchi dell’ex impero sovietico. C’è pure un aspetto interno: la signora Ablyazov è stata espulsa tra il 27 e il 29 maggio. E dunque è una delle trappole tese al governo, fresco di giuramento, a tre settimane dal passaggio delle consegne: i grandi burocrati sono soliti uncinare i nuovi ministri con uno o due ricattini, roba non detta, detta male, detta tra mille altre. Ma il fatto è internazionale.
Robetta, sgambetti tra Grandi Signori della Signora Europa a spese di un’informazione barbina – forse i confidenti, che in ogni redazione ci sono, sono pagati, ma poco. Il contorno di Berlusconi (Sardegna, il compagno Zappadu, i sottomarini atomici…) è anch’esso da servizi segreti. La ciliegina è lo scandalo azionato tramite la Lega, a difesa di una kazaka, una “negra”. Questa è proprio da servizi segreti, gli spioni più che altro si divertono.
Anche il danno non è grave: gli inglesi ci hanno portati, sempre tramite i giornali, a fare una guerra vera, con gli aerei, le bombe e tutto, a Gheddafi nel nome della democrazia in Libia. Cioè ad abbattere un regime che privilegiava l’Italia a favore di uno che invece guarda a Londra e Washington. È la conferma che l’Italia se la passa male, se la bastona, oltre alla Germania, anche l’Inghilterra – ebbe da ridere perfino l’incredibile Sarkozy.
Ombre - 183
I diritti per il “Corriere della sera” vanno inoptati all’asta. Perché inappetibili? No, perché sono stati tolti di circolazione. E sono stati tolti di circolazione, redistribuendoli tra le banche, “per stoppare soci non graditi”. Nel 2013 non nel Medio Evo, in Borsa, sotto i “fari” della Consob. Sono quei fari ciechi? È il mercato a Milano.
La Regione Piemonte non vuole pagare a Dexia e San Paolo-Intesa le penali sui derivati sottoscritti sette anni fa, a protezione, si fa per dire, delle variazioni dei tassi d’interessei su due miliardi di obbligazioni. E si rivolge a un tribunale di Londra… Che naturalmente le addebita le spese processuali.
Perché la Corte dei Conti non addebita agli amministratori regionali l’inutile ricorso?
Crocetta dà un posto a Ingroia. Perché è un amico, il giudice non ha nessuna competenza per il posto. Poi dice che la destra vince le elezioni.
Ma dove li trovano? O anche Crocetta è “tenuto per le palle” da Ingroia, come il giudice è solito dire?
In una riviera affollatissima s’incontra una sola mamma, la mattina alle otto, che va al mare con la bambina. Forse due. Il mare la mattina è consigliato e anzi prescritto da tutte le riviste femminili, da tutti i supplementi salute dei quotidiani, da tutti gli esperti dei pomeriggi tv. Era anche buona norma quando le mamme erano bambine.
Il culto della fitness e del salutismo che imperversa è solo una forma di egotismo?
S’incontrano invece la mattina frotte di uomini e donne, giovani e in età, che accompagnano il cane per la passeggiata igienica. Qualcuno col telefonino, ma alcuni\e affettuosi\e.
O ci sono più cani che bambini in villeggiatura?
I carri del gay pride e le lance omosessuali sulla facciata del Duomo, la sera della festa della patrona, che a Palermo è santa Rosalia, di grande devozione, di chi l’idea? Non di un artista ella merda. Neppure di un satanasso. È di un democristiano, di chi altro? Naturalmente post – uno che da candidato alla segreteria Dc saltò al fronte giustizialista. Mentre metteva nel mirino, per Riina, il giudice Falcone. Sindaco sempre quando vuole, peraltro, a Palermo: Leoluca Orlando.
A leggere i giornali di Firenze, Renzi ha già vinto tutto. Ha liquidato Epifani e il Pd. Ha liquidato il governo Letta. Ha una sua propria diplomazia. E ha risolto il problema dello spread. Anche se non ha fatto nulla.
È informazione demenziale? La città non ha senso della misura? Renzi è più di un bluff?
Renzi chiede al governo, subito, indietro le caserme dismesse per destinarle alle giovani coppie. Il governo dice che le caserme sono già della città di Firenze da una ventina d’anni. Ma non si ride a Firenze: il sindaco ha sempre ragione
Firenze sogna, le bocche tremanti si parlan d’amor, sull’Arno d’argento… Ma sogna Mario Gomez. Città bucaiola?
Eterno amore giura Firenze alla Germania, pegno l’incauto Gomez. I giornali toscani, “La Nazione” e le cronache fiorentine di “Repubblica” e “Corriere”, inneggiano all’amicizia perenne Firenze-Germania. Anzi, per rafforzarla, dichiarano perenta, mai esistita, l’amicizia perenne tra Firenze e Parigi, kaputt.
A Parigi non ci hanno fatto caso.
È possibile che il capo di gabinetto del ministro dell’Interno, il capo della segreteria del Capo della polizia, e il questore di Roma facciano uno sgambetto al ministro dell’Interno, al Capo della polizia e al governo? È successo, e non è la parte peggiore della vicenda: succede spesso in Italia.
“La Germania si è trovata sempre più a indicare a tutti le decisioni da prendere. E non si fa niente in Europa senza che Berlino non voglia”. Sembrerebbe una critica alla Germania, ma il “Corriere della sera” ne fa una critica all’Europa: non è all’altezza della Germania. Lombardismo?
“Brosio in preghiere a Canevara”. Era il titolo dei giornali toscani l’altra settimana, Canevara è in Toscana. E Brosio è proprio lui, l’ex giornalista di Fede e velino tv. Lo hanno già fatto santo?
Emerge quello che si sapeva a due mesi dall’abbattimento della torre di controllo al porto di Genova: che il porto è insicuro. Senza scandalo.
Dice alla partenza il comandante Paoloni della nave che ha demolito la torre: “Ogni volta che si parte da Genova bisogna farsi il segno della croce, c’è da mettersi le mani nei capelli…”. Senza scandalo: è Genova e non Napoli.
La colpa è semmai del comandante, che dopo la collisione dice: “E niente, abbiamo buttato giù la torre piloti. Saranno morti tutti”.
Neymar non era arrivato a Barcellona che nei mercatini si vendevano le magliette blaugrana col suo nome, Neymar jr. Senza il numero, giustamente. L’industria della copia è efficientissima.
La Regione Piemonte non vuole pagare a Dexia e San Paolo-Intesa le penali sui derivati sottoscritti sette anni fa, a protezione, si fa per dire, delle variazioni dei tassi d’interessei su due miliardi di obbligazioni. E si rivolge a un tribunale di Londra… Che naturalmente le addebita le spese processuali.
Perché la Corte dei Conti non addebita agli amministratori regionali l’inutile ricorso?
Crocetta dà un posto a Ingroia. Perché è un amico, il giudice non ha nessuna competenza per il posto. Poi dice che la destra vince le elezioni.
Ma dove li trovano? O anche Crocetta è “tenuto per le palle” da Ingroia, come il giudice è solito dire?
In una riviera affollatissima s’incontra una sola mamma, la mattina alle otto, che va al mare con la bambina. Forse due. Il mare la mattina è consigliato e anzi prescritto da tutte le riviste femminili, da tutti i supplementi salute dei quotidiani, da tutti gli esperti dei pomeriggi tv. Era anche buona norma quando le mamme erano bambine.
Il culto della fitness e del salutismo che imperversa è solo una forma di egotismo?
S’incontrano invece la mattina frotte di uomini e donne, giovani e in età, che accompagnano il cane per la passeggiata igienica. Qualcuno col telefonino, ma alcuni\e affettuosi\e.
O ci sono più cani che bambini in villeggiatura?
I carri del gay pride e le lance omosessuali sulla facciata del Duomo, la sera della festa della patrona, che a Palermo è santa Rosalia, di grande devozione, di chi l’idea? Non di un artista ella merda. Neppure di un satanasso. È di un democristiano, di chi altro? Naturalmente post – uno che da candidato alla segreteria Dc saltò al fronte giustizialista. Mentre metteva nel mirino, per Riina, il giudice Falcone. Sindaco sempre quando vuole, peraltro, a Palermo: Leoluca Orlando.
A leggere i giornali di Firenze, Renzi ha già vinto tutto. Ha liquidato Epifani e il Pd. Ha liquidato il governo Letta. Ha una sua propria diplomazia. E ha risolto il problema dello spread. Anche se non ha fatto nulla.
È informazione demenziale? La città non ha senso della misura? Renzi è più di un bluff?
Renzi chiede al governo, subito, indietro le caserme dismesse per destinarle alle giovani coppie. Il governo dice che le caserme sono già della città di Firenze da una ventina d’anni. Ma non si ride a Firenze: il sindaco ha sempre ragione
Firenze sogna, le bocche tremanti si parlan d’amor, sull’Arno d’argento… Ma sogna Mario Gomez. Città bucaiola?
Eterno amore giura Firenze alla Germania, pegno l’incauto Gomez. I giornali toscani, “La Nazione” e le cronache fiorentine di “Repubblica” e “Corriere”, inneggiano all’amicizia perenne Firenze-Germania. Anzi, per rafforzarla, dichiarano perenta, mai esistita, l’amicizia perenne tra Firenze e Parigi, kaputt.
A Parigi non ci hanno fatto caso.
È possibile che il capo di gabinetto del ministro dell’Interno, il capo della segreteria del Capo della polizia, e il questore di Roma facciano uno sgambetto al ministro dell’Interno, al Capo della polizia e al governo? È successo, e non è la parte peggiore della vicenda: succede spesso in Italia.
“La Germania si è trovata sempre più a indicare a tutti le decisioni da prendere. E non si fa niente in Europa senza che Berlino non voglia”. Sembrerebbe una critica alla Germania, ma il “Corriere della sera” ne fa una critica all’Europa: non è all’altezza della Germania. Lombardismo?
“Brosio in preghiere a Canevara”. Era il titolo dei giornali toscani l’altra settimana, Canevara è in Toscana. E Brosio è proprio lui, l’ex giornalista di Fede e velino tv. Lo hanno già fatto santo?
Emerge quello che si sapeva a due mesi dall’abbattimento della torre di controllo al porto di Genova: che il porto è insicuro. Senza scandalo.
Dice alla partenza il comandante Paoloni della nave che ha demolito la torre: “Ogni volta che si parte da Genova bisogna farsi il segno della croce, c’è da mettersi le mani nei capelli…”. Senza scandalo: è Genova e non Napoli.
La colpa è semmai del comandante, che dopo la collisione dice: “E niente, abbiamo buttato giù la torre piloti. Saranno morti tutti”.
Neymar non era arrivato a Barcellona che nei mercatini si vendevano le magliette blaugrana col suo nome, Neymar jr. Senza il numero, giustamente. L’industria della copia è efficientissima.
martedì 16 luglio 2013
L’ebraicità è antisionista
L’ebraicità si vuole antisionista. Essere se stessi è uscire dal proprio guscio, e tanto più per l’ebraismo, il cui ideale etico e politico non può essere che di convivenza democratica. Per propria natura, dottrina, storia. Judith Butler butta l’asta molto più in là, e si dà ragione, dell’impegno teorico e anche politico. L’“inquietudine dell’ambivalenza” come “premessa etica” per “principi politici condivisi”. L’unica concessione, in questo salto senza respiro, è che si tratta di “nuovi” principi di condivisione.
Butler è argomentatrice radicale. E tuttavia, al fondo, non contestabile. Qui fa ampio ricorso alla migliore tradizione ebraica del Novecento: Lévinas, Benjamin, Martin Buber. Hannah Arendt, Primo Levi. Ma il punto da dimostrare è anche semplice, e inappellabile: gli obblighi della coabitazione non si suddividono per appartenenze religiose o ascendenza etniche (questo – forse non si sa – ma è il fondamento dello apartheid), la “pluralità sociale” non è oggetto di scelta e non può essere fine di una politica.
Butler è pensatrice”violenta” - brusca, radicale. Nata negli Usa da genitori russo-ungheresi ebrei osservanti, è anche specialista, nelle sue molteplici attività, di filosofia ebraica, e delle politiche del sionismo, “per un sionismo senza violenza”. Molto critica di Israele, è dirigente del “Jewish Voice for Peace”, il movimento ebraico per la pace, e una sostenitrice del movimento “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni” contro Israele.
La filosofa ci arriva per un bisogno politico, avendo scelto la protezione dei palestinesi come della parte minoritaria e coartata nel conflitto con Israele. Ma è anche un esito si direbbe obbligato.
Il nazionalismo ebraico, circoscritto e anzi minoritario quanto si voglia, se non altro per la dimensione demografica, e per quanto giusto, si sta proponendo come una dimensione invadente. Dal caso semplice, Némirosky, a quello di Kafka - che Brod ha manipolato in maniera inestricabile. Dopo una storia bimillenaria che si vorrebbe risolvere nell’antisemitisimo, una grave distorsione. In linea con i fondamentalismi che esso stesso ha generato – visibilissimo, in un arco di tempo breve, in Palestina, dove la popolazione più laica e multiculturale che si possa immaginare è stata condotta a postulare l’annientamento, degli altri come di sé. E uno stimolo di fatto all’antisemitismo, il rifiuto attivo è anche passivo.
Judith Butler, Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, Cortina, pp. XIX + 319 € 26,50
Butler è argomentatrice radicale. E tuttavia, al fondo, non contestabile. Qui fa ampio ricorso alla migliore tradizione ebraica del Novecento: Lévinas, Benjamin, Martin Buber. Hannah Arendt, Primo Levi. Ma il punto da dimostrare è anche semplice, e inappellabile: gli obblighi della coabitazione non si suddividono per appartenenze religiose o ascendenza etniche (questo – forse non si sa – ma è il fondamento dello apartheid), la “pluralità sociale” non è oggetto di scelta e non può essere fine di una politica.
Butler è pensatrice”violenta” - brusca, radicale. Nata negli Usa da genitori russo-ungheresi ebrei osservanti, è anche specialista, nelle sue molteplici attività, di filosofia ebraica, e delle politiche del sionismo, “per un sionismo senza violenza”. Molto critica di Israele, è dirigente del “Jewish Voice for Peace”, il movimento ebraico per la pace, e una sostenitrice del movimento “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni” contro Israele.
La filosofa ci arriva per un bisogno politico, avendo scelto la protezione dei palestinesi come della parte minoritaria e coartata nel conflitto con Israele. Ma è anche un esito si direbbe obbligato.
Il nazionalismo ebraico, circoscritto e anzi minoritario quanto si voglia, se non altro per la dimensione demografica, e per quanto giusto, si sta proponendo come una dimensione invadente. Dal caso semplice, Némirosky, a quello di Kafka - che Brod ha manipolato in maniera inestricabile. Dopo una storia bimillenaria che si vorrebbe risolvere nell’antisemitisimo, una grave distorsione. In linea con i fondamentalismi che esso stesso ha generato – visibilissimo, in un arco di tempo breve, in Palestina, dove la popolazione più laica e multiculturale che si possa immaginare è stata condotta a postulare l’annientamento, degli altri come di sé. E uno stimolo di fatto all’antisemitismo, il rifiuto attivo è anche passivo.
Judith Butler, Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, Cortina, pp. XIX + 319 € 26,50
Storia di Mancini - 3
Nixon è tornato a Roma – fine settembre 1970. Dopo la visita trionfale di fine febbraio 1969, accolto da Saragat con tutti gli onori. Nel frattempo, a luglio del 1969, Saragat si era ripreso i suoi, col nome di Partito socialista unificato – poi di nuovo Psdi. La storia di Mancini, tutta ora bloccata sul giudiziario, può proseguire con “Non c’è anarchico felice”, di Astolfo, secondo romanzo del ciclo “Anamorfosi”:
“La Nazione, nobile giornale di Firenze, diretto dall’anglomane Bartoli, pioniere del giornalismo dei fatti distinti dalle opinioni, gentiluomo cucito con filo repubblicano, socialdemocratico e moroteo, dirige l’unico giornale che informa l’Italia dei fatti minimi dei fascisti greci, e porta il colpo decisivo ai socialisti.
“Un pezzo in prima pagina a cinque colonne, siglato G.P., tocca il materiale con diffidenza perfino il cronista giudiziario, talpa di questura, titola: “Su Mancini e su un ministro dossier dal giudice alle Camere”. E spiega: “Stando a talune indiscrezioni raccolte questa sera sembra che le accuse contro l’onorevole Mancini e l’altro ministro siano venute da un testimone (che pare si sia presentato spontaneamente davanti al magistrato) il quale avrebbe di-chiarato di aver avuto notevoli facilitazioni dal ministero dei Lavori Pubblici”. Potenza del linguaggio allusivo, il poter essere prevarica l’essere.
“È la potenza della campagna “Mancini lader”, che va ora in autonomia. Il signor Pontedera, personaggio d’autore, è sparito. Lettere anonime affluiscono, affluirebbero, pare, in Procura, dettagliate seppure non documentate, su carta intestata dell’Anas, Pecottini ne aveva fotocopia già prima del blocco della collaborazione: l’onorevole socialista ha fatto costruire, quand’era ministro, un’autostrada di quattrocento chilometri in sei o sette anni, uno scandalo, che il potere dei funzionari dell’Anas, basato sui ritardi, i rinvii, e le revisioni di prezzo, fa svanire, e così quello delle imprese che si creano per speculare su ritardi, rinvii e revisioni”.
Per Pecottini è da intendersi, al solito, Pecorelli. Per Re è da intendersi l’onorevole Principe, per Francescani l’onorevole Mariani. Il filone Anas è noto, ma non abbastanza: non ci fu mai un processo. Nel’ 69 arrivarono alla Procura di Roma le prime denunce, anonime, sugli appalti dell’Anas. Sotto accusa finirono il direttore generale Chiatante, e tre funzionari, Salocchi, Macori e Rissone. Il reato ipotizzato: concussione. I quattro, cioè, erano sospettati di aver sollecitato tangenti per assicurare agli imprenditori l’ affidamento di lavori. Ma l’inchiesta non si fermò a loro. Andarono in carcere alcuni costruttori per reticenza, e nei fascicoli dei magistrati finirono i nomi di ben 280 imputati. Fra questi anche tre ex ministri dei Lavori pubblici: i socialisti Mancini e Lauricella e il dc Natali. A chiamarli in causa furono le registrazioni (effettuate con una microspia) di alcuni colloqui avvenuti nello studio di Chiatante. Dopo cinque anni di indagini sui giornali, gli atti furono inviati alla Camera dei deputati. Era l' 11 settembre 1974. Ci vollero otto anni perché la Commissione parlamentare per le autorizzazioni a procedere decidesse. E decise l’archiviazione per i tre ex ministri.
Successivamente, l’inchiesta fu riaperta dal giudice istruttore Torri, che inviò gli atti alla Procura generale. Da qui partì il rinvio a giudizio per i reati di corruzione pluriaggravata continuata, interesse privato in atti di ufficio e turbata libertà degli incanti. Ma ormai, passati i 15 anni, i reati erano "estinti".
Impiccagione in effigie
L’offensiva contro Mancini non si era per questo esaurita: l’obiettivo era l’annientamento, un partito Socialista al 20 per cento del voto era intollerabile per la Dc. Il filone Pontedera-Anas avendo esaurito la curiosità, la campagna contro Mancini era stata fatta partire, governando Colombo, in Calabria:
“La campagna “Mancini lader” è allora ripartita dalla Calabria. Dal Viminale, tarda architettura savoiarda, più equivoca che brutta, e dalla punta dello stivale. I democristiani, ha ragione Severo, sono spietati. I socialisti, che il governo hanno preso sul serio, li pensano invece amici, Franco e i suoi, fino alla stupidità. Sorprendente, “avete rovinato il Sud, e avete rovinato anche il Nord” essendo stata geniale analisi dell’onorevole Mancini. Che rilancia chiedendo le Finanze, informa Pecottini nell’ultima nota, al fine, scrive, di “dare ai socialisti il controllo infine di un corpo di polizia”. Punterà alla franchezza contro i clericali ipocriti, che solo riconoscono la sopraffazione, in attesa di rovesciarla. Ma si sottostima: funerali già se ne fanno a Reggio, e impiccagioni in effigie, regressione etnologica di potente effetto simbolico, Lévi-Strauss lo spiega nel Babbo Natale suppliziato di Digione, il nemico va annientato appena individuato.
“In Calabria i socialisti hanno superato il venti per cento e questo non piace a nessuno, neanche ad alcuni socialisti. Successe già a Prometeo, che quando diede il fuoco agli uomini, questi lo denunciarono a Giove, a cui l’aveva sottratto. L’onorevole Re, calabrese, e il sanguigno deputato abruzzese Nello Francescani, visti separatamente al diciannovesimo piano, intimiditi dai cristalli e gli argenti di Libero, sono stati per questo ospiti riservati di Franco, vittime dello sprezzo di Fiero sibilante:
“- I socialisti si comprano per un pasto di Ruschena. – Sui socialisti Fiero vanta una saga. Pezzo forte è il congresso della scissione a Natale del 1963, cui partecipò neofita con Ugo, duca recenziore, signore della sottopolitica, che imperturbato saltava la bassa balaustra del proscenio per intervenire nella sceneggiata. Era l’epoca che il Dottore si impadroniva dell’Ente, promettendo e realizzando la liquidazione dei socialisti. Per primo dall’ufficio studi, che l’Ingegnere padre aveva delegato a loro in quanto sapevano l’inglese e l’economia keynesiana – Metello è sfuggito alla caccia per essere in quel gruppo ancora apprendista. La porta aprendo ai Fiero, dalla doppia tessera democristiana e socialista, ma saragattiana, della destra di Saragat. Nella prima uscita avevano operato da sinistra, per l’uscita dal partito Socialista dei carristi, i fautori dei carri armati a Budapest nel 1956, fedeli di Mosca. Il duca Ugo, che è oggi consigliere di Stato, corteggia le belle donne, e si ripaga con una lauta consulenza, capeggiava i socialisti di complemento”.
Franco è da intendersi Briatico, col quale Mancini imprudente si confidava, uomo di punta delle relazioni istituzionali Eni, di fiducia soprattutto di Eugenio Cefis. “Fiero” e “Metello” sarebbero caratterizzazioni aziendali Eni. Ugo è quasi certamente Niutta. La storia di Mancini si fece allora più pesante:
Vandea - i socialisti al 20 per cento
“Più dosi di anonime denunce non hanno affondato il caparbio onorevole, per cui si passa alla minaccia d’arresto. La vicenda è a questo punto faticosa, dovendosi trovare un Dc minore da sacrificare con lui. E i giudici, procuratore e istruttore. Che adesso sono entrambi fascisti dichiarati, senza maschera socialdemocratica – i fascisti odiano i socialisti e non i comunisti, bel soggetto per una vera storia”.
Dopo l’Anas la rivolta di Reggio Calabria. Dal luglio del 1970 al febbraio del 1971. Le celebrazioni dei quarant’anni l’hanno dimenticato, ma la rivolta fu organizzata da Roma. Con molto personale dei servizi segreti, allora di osservanza andreottiana-missina:
“Sarebbe stato “Catanzaro capitale”, se la regione l’avessero domiciliata a Reggio, la storia può essere ineluttabile. Ma una rivoluzione è in atto fascista - la Vandea è stata trovata, che già di suo era stata solidamente sanfedista, e massista, cioè in massa, antifrancese. Al motto “boia chi molla!”, dà la caccia agli zingari, e mazziniana proclama repubbliche, di Santa Caterina, di Sbarre Centrali, del Calopinace, popolate di baracche del terremoto, quello del 1908 – pure questo bisogna vedere, Mazzini nel fascio. E in città riporta eponimo il Duce, che raggruppò undici paesi informi per dare forza demografica al nome classico. La rivoluzione ha pure fatto saltare la Freccia del Sud, il treno della speranza, un tempo, nella stazione di Gioia Tauro, mafiosissima. “Reggio tradita non mollerà”, incita a tutta pagina la copertina del Candido, ambrosiana solidarietà”.
Socialisti al suicidio
Con Craxi alla segreteria del Psi, 1976, candidato da Mancini, per Mancini fu l’emarginazione, la fine politica a opera del suo stesso partito. L’autonomista Craxi non pagò alcun tributo all’autonomista Mancini. Il milanese Craxi non reciprocò l’apertura di Mancini a Guiducci e all’intellighentsia lombarda, nonché a lui stesso, Craxi. Ma l’isolamento era cominciato già da qualche anno e, più insidiosamente che gli scandali, da sinistra – in quello che sarà chiamato “il lento suicidio del Psi”. Anche questa vicenda di può seguire con Astolfo, “Non c’è anarchico felice” – “ultime sue confidenze” sono da intendersi di un personaggio, Aldo, che sarebbe Aldo Nobile:
“Al congresso di Genova a fine 1972, dopo le elezioni vinte dalla destra, le doppie tessere di Longo e Berlinguer ebbero l’ordine di sostenere il Professor De Martino, teorico dell’avanzamento, contro Giacomo Mancini. È una delle ultime sue confidenze. La tattica del Partito è semplice: conquistare coi doppi compagni le sezioni socialiste, o del partito sotto tiro, là dov’è possibile con uno scarto minimo. Mettendo cioè i voti entristi in coppa, direbbero a Napoli, alla sinistra filo-Pci là dove può diventare maggioranza”.
La vicenda era partita dieci anni prima, con la del Psi al momento di andare al governo:
“I carristi fanno uno splendido gruppo, con Foa, Basso, Lussu, Musatti, Asor Rosa, Panzieri e Umberto Eco, ex Avanti!, ex fiduciario Piemonte dell’Azione Cattolica, scuola salesiana ma di nessuna saggezza. Foa voleva sospendere Panzieri per la manifestazione di piazza Statuto a Torino, dove le volanti di Taviani manganellarono gli operai, i pochi in sciopero. Si capisce che siano per i carri armati sovietici:
“- Sono frigidi - secondo Aldo, che s’è fatto anche il congresso della scissione. “Fascisti di sinistra” li chiama Pasolini ne “L’enigma di Pio XII”, una poesia che la rivista Cattolicesimo rivoluzionario aveva cestinato e ora il poeta ripropone. Riproponendo un quesito. Tullio Vecchietti, che ne è il capo, ha esordito con Il pensiero politico di Vincenzo Gioberti, edito da Gioacchino Volpe, lo storico dell’idea nazionale. Era il 1941, ma bisognerà rivedere i debiti del socialismo rivoluzionario italiano, Gramsci compreso, con l’attualismo di Gentile, che riteneva di avere superato Hegel e completato Marx, rifacendosi al materialismo storico e appunto a Gioberti. Da cui origina il nazionalpopolare, la lega dei borghesi intellettuali col popolo: - C’era Rijov, con la sua aria da grasso contadino, e c’era ferrigno Suslov. L’ideologo ha portato pronta cassa al congresso duecentocinquantamila dollari per cominciare. – Secondo Fiero invece c’era l’Ente. La storia dell’intrigo, o l’intrigo della storia, ha molti sentieri”.
Fu una stagione brevissima, dunque, quella di Giacomo Mancini, al governo e nel suo partito. E tuttavia è stato forse l’ultimo “vero socialista”, quale si pretendeva. Ed è senza’altro l’uomo politico e di governo che ha fatto per la Calabria, la sua regione, più che nel secolo e mezzo di storia unitaria. Lo sviluppo non impossibile, e può anzi essere semplice.
(3. fine)
“La Nazione, nobile giornale di Firenze, diretto dall’anglomane Bartoli, pioniere del giornalismo dei fatti distinti dalle opinioni, gentiluomo cucito con filo repubblicano, socialdemocratico e moroteo, dirige l’unico giornale che informa l’Italia dei fatti minimi dei fascisti greci, e porta il colpo decisivo ai socialisti.
“Un pezzo in prima pagina a cinque colonne, siglato G.P., tocca il materiale con diffidenza perfino il cronista giudiziario, talpa di questura, titola: “Su Mancini e su un ministro dossier dal giudice alle Camere”. E spiega: “Stando a talune indiscrezioni raccolte questa sera sembra che le accuse contro l’onorevole Mancini e l’altro ministro siano venute da un testimone (che pare si sia presentato spontaneamente davanti al magistrato) il quale avrebbe di-chiarato di aver avuto notevoli facilitazioni dal ministero dei Lavori Pubblici”. Potenza del linguaggio allusivo, il poter essere prevarica l’essere.
“È la potenza della campagna “Mancini lader”, che va ora in autonomia. Il signor Pontedera, personaggio d’autore, è sparito. Lettere anonime affluiscono, affluirebbero, pare, in Procura, dettagliate seppure non documentate, su carta intestata dell’Anas, Pecottini ne aveva fotocopia già prima del blocco della collaborazione: l’onorevole socialista ha fatto costruire, quand’era ministro, un’autostrada di quattrocento chilometri in sei o sette anni, uno scandalo, che il potere dei funzionari dell’Anas, basato sui ritardi, i rinvii, e le revisioni di prezzo, fa svanire, e così quello delle imprese che si creano per speculare su ritardi, rinvii e revisioni”.
Per Pecottini è da intendersi, al solito, Pecorelli. Per Re è da intendersi l’onorevole Principe, per Francescani l’onorevole Mariani. Il filone Anas è noto, ma non abbastanza: non ci fu mai un processo. Nel’ 69 arrivarono alla Procura di Roma le prime denunce, anonime, sugli appalti dell’Anas. Sotto accusa finirono il direttore generale Chiatante, e tre funzionari, Salocchi, Macori e Rissone. Il reato ipotizzato: concussione. I quattro, cioè, erano sospettati di aver sollecitato tangenti per assicurare agli imprenditori l’ affidamento di lavori. Ma l’inchiesta non si fermò a loro. Andarono in carcere alcuni costruttori per reticenza, e nei fascicoli dei magistrati finirono i nomi di ben 280 imputati. Fra questi anche tre ex ministri dei Lavori pubblici: i socialisti Mancini e Lauricella e il dc Natali. A chiamarli in causa furono le registrazioni (effettuate con una microspia) di alcuni colloqui avvenuti nello studio di Chiatante. Dopo cinque anni di indagini sui giornali, gli atti furono inviati alla Camera dei deputati. Era l' 11 settembre 1974. Ci vollero otto anni perché la Commissione parlamentare per le autorizzazioni a procedere decidesse. E decise l’archiviazione per i tre ex ministri.
Successivamente, l’inchiesta fu riaperta dal giudice istruttore Torri, che inviò gli atti alla Procura generale. Da qui partì il rinvio a giudizio per i reati di corruzione pluriaggravata continuata, interesse privato in atti di ufficio e turbata libertà degli incanti. Ma ormai, passati i 15 anni, i reati erano "estinti".
Impiccagione in effigie
L’offensiva contro Mancini non si era per questo esaurita: l’obiettivo era l’annientamento, un partito Socialista al 20 per cento del voto era intollerabile per la Dc. Il filone Pontedera-Anas avendo esaurito la curiosità, la campagna contro Mancini era stata fatta partire, governando Colombo, in Calabria:
“La campagna “Mancini lader” è allora ripartita dalla Calabria. Dal Viminale, tarda architettura savoiarda, più equivoca che brutta, e dalla punta dello stivale. I democristiani, ha ragione Severo, sono spietati. I socialisti, che il governo hanno preso sul serio, li pensano invece amici, Franco e i suoi, fino alla stupidità. Sorprendente, “avete rovinato il Sud, e avete rovinato anche il Nord” essendo stata geniale analisi dell’onorevole Mancini. Che rilancia chiedendo le Finanze, informa Pecottini nell’ultima nota, al fine, scrive, di “dare ai socialisti il controllo infine di un corpo di polizia”. Punterà alla franchezza contro i clericali ipocriti, che solo riconoscono la sopraffazione, in attesa di rovesciarla. Ma si sottostima: funerali già se ne fanno a Reggio, e impiccagioni in effigie, regressione etnologica di potente effetto simbolico, Lévi-Strauss lo spiega nel Babbo Natale suppliziato di Digione, il nemico va annientato appena individuato.
“In Calabria i socialisti hanno superato il venti per cento e questo non piace a nessuno, neanche ad alcuni socialisti. Successe già a Prometeo, che quando diede il fuoco agli uomini, questi lo denunciarono a Giove, a cui l’aveva sottratto. L’onorevole Re, calabrese, e il sanguigno deputato abruzzese Nello Francescani, visti separatamente al diciannovesimo piano, intimiditi dai cristalli e gli argenti di Libero, sono stati per questo ospiti riservati di Franco, vittime dello sprezzo di Fiero sibilante:
“- I socialisti si comprano per un pasto di Ruschena. – Sui socialisti Fiero vanta una saga. Pezzo forte è il congresso della scissione a Natale del 1963, cui partecipò neofita con Ugo, duca recenziore, signore della sottopolitica, che imperturbato saltava la bassa balaustra del proscenio per intervenire nella sceneggiata. Era l’epoca che il Dottore si impadroniva dell’Ente, promettendo e realizzando la liquidazione dei socialisti. Per primo dall’ufficio studi, che l’Ingegnere padre aveva delegato a loro in quanto sapevano l’inglese e l’economia keynesiana – Metello è sfuggito alla caccia per essere in quel gruppo ancora apprendista. La porta aprendo ai Fiero, dalla doppia tessera democristiana e socialista, ma saragattiana, della destra di Saragat. Nella prima uscita avevano operato da sinistra, per l’uscita dal partito Socialista dei carristi, i fautori dei carri armati a Budapest nel 1956, fedeli di Mosca. Il duca Ugo, che è oggi consigliere di Stato, corteggia le belle donne, e si ripaga con una lauta consulenza, capeggiava i socialisti di complemento”.
Franco è da intendersi Briatico, col quale Mancini imprudente si confidava, uomo di punta delle relazioni istituzionali Eni, di fiducia soprattutto di Eugenio Cefis. “Fiero” e “Metello” sarebbero caratterizzazioni aziendali Eni. Ugo è quasi certamente Niutta. La storia di Mancini si fece allora più pesante:
Vandea - i socialisti al 20 per cento
“Più dosi di anonime denunce non hanno affondato il caparbio onorevole, per cui si passa alla minaccia d’arresto. La vicenda è a questo punto faticosa, dovendosi trovare un Dc minore da sacrificare con lui. E i giudici, procuratore e istruttore. Che adesso sono entrambi fascisti dichiarati, senza maschera socialdemocratica – i fascisti odiano i socialisti e non i comunisti, bel soggetto per una vera storia”.
Dopo l’Anas la rivolta di Reggio Calabria. Dal luglio del 1970 al febbraio del 1971. Le celebrazioni dei quarant’anni l’hanno dimenticato, ma la rivolta fu organizzata da Roma. Con molto personale dei servizi segreti, allora di osservanza andreottiana-missina:
“Sarebbe stato “Catanzaro capitale”, se la regione l’avessero domiciliata a Reggio, la storia può essere ineluttabile. Ma una rivoluzione è in atto fascista - la Vandea è stata trovata, che già di suo era stata solidamente sanfedista, e massista, cioè in massa, antifrancese. Al motto “boia chi molla!”, dà la caccia agli zingari, e mazziniana proclama repubbliche, di Santa Caterina, di Sbarre Centrali, del Calopinace, popolate di baracche del terremoto, quello del 1908 – pure questo bisogna vedere, Mazzini nel fascio. E in città riporta eponimo il Duce, che raggruppò undici paesi informi per dare forza demografica al nome classico. La rivoluzione ha pure fatto saltare la Freccia del Sud, il treno della speranza, un tempo, nella stazione di Gioia Tauro, mafiosissima. “Reggio tradita non mollerà”, incita a tutta pagina la copertina del Candido, ambrosiana solidarietà”.
Socialisti al suicidio
Con Craxi alla segreteria del Psi, 1976, candidato da Mancini, per Mancini fu l’emarginazione, la fine politica a opera del suo stesso partito. L’autonomista Craxi non pagò alcun tributo all’autonomista Mancini. Il milanese Craxi non reciprocò l’apertura di Mancini a Guiducci e all’intellighentsia lombarda, nonché a lui stesso, Craxi. Ma l’isolamento era cominciato già da qualche anno e, più insidiosamente che gli scandali, da sinistra – in quello che sarà chiamato “il lento suicidio del Psi”. Anche questa vicenda di può seguire con Astolfo, “Non c’è anarchico felice” – “ultime sue confidenze” sono da intendersi di un personaggio, Aldo, che sarebbe Aldo Nobile:
“Al congresso di Genova a fine 1972, dopo le elezioni vinte dalla destra, le doppie tessere di Longo e Berlinguer ebbero l’ordine di sostenere il Professor De Martino, teorico dell’avanzamento, contro Giacomo Mancini. È una delle ultime sue confidenze. La tattica del Partito è semplice: conquistare coi doppi compagni le sezioni socialiste, o del partito sotto tiro, là dov’è possibile con uno scarto minimo. Mettendo cioè i voti entristi in coppa, direbbero a Napoli, alla sinistra filo-Pci là dove può diventare maggioranza”.
La vicenda era partita dieci anni prima, con la del Psi al momento di andare al governo:
“I carristi fanno uno splendido gruppo, con Foa, Basso, Lussu, Musatti, Asor Rosa, Panzieri e Umberto Eco, ex Avanti!, ex fiduciario Piemonte dell’Azione Cattolica, scuola salesiana ma di nessuna saggezza. Foa voleva sospendere Panzieri per la manifestazione di piazza Statuto a Torino, dove le volanti di Taviani manganellarono gli operai, i pochi in sciopero. Si capisce che siano per i carri armati sovietici:
“- Sono frigidi - secondo Aldo, che s’è fatto anche il congresso della scissione. “Fascisti di sinistra” li chiama Pasolini ne “L’enigma di Pio XII”, una poesia che la rivista Cattolicesimo rivoluzionario aveva cestinato e ora il poeta ripropone. Riproponendo un quesito. Tullio Vecchietti, che ne è il capo, ha esordito con Il pensiero politico di Vincenzo Gioberti, edito da Gioacchino Volpe, lo storico dell’idea nazionale. Era il 1941, ma bisognerà rivedere i debiti del socialismo rivoluzionario italiano, Gramsci compreso, con l’attualismo di Gentile, che riteneva di avere superato Hegel e completato Marx, rifacendosi al materialismo storico e appunto a Gioberti. Da cui origina il nazionalpopolare, la lega dei borghesi intellettuali col popolo: - C’era Rijov, con la sua aria da grasso contadino, e c’era ferrigno Suslov. L’ideologo ha portato pronta cassa al congresso duecentocinquantamila dollari per cominciare. – Secondo Fiero invece c’era l’Ente. La storia dell’intrigo, o l’intrigo della storia, ha molti sentieri”.
Fu una stagione brevissima, dunque, quella di Giacomo Mancini, al governo e nel suo partito. E tuttavia è stato forse l’ultimo “vero socialista”, quale si pretendeva. Ed è senza’altro l’uomo politico e di governo che ha fatto per la Calabria, la sua regione, più che nel secolo e mezzo di storia unitaria. Lo sviluppo non impossibile, e può anzi essere semplice.
(3. fine)
lunedì 15 luglio 2013
Tabucchi resiste, isolato tra i compagni
Una raccolta di saggi letterari (minima la parte del cinema, di cui al sottotitolo) e divagazioni, completata postuma dalla studiosa Anna Dolfi. Affettuosa ma si vede, Tabucchi sarebbe stato più oculato nella scelta. Molti i testi d’occasione – recensioni, infatuazioni, gratitudini. Altri pleonastici - il “perché si scrive”, o l’elzevirismo sulla luna. Altri buttati lì. La “pierre de Bologne”, per esempio, “che irradia di notte ciò che ha immagazzinato di giorno”. D’accordo, è di Barthes ma il lettore resta curioso – è la pietra “scoperta” tre secoli fa dal ciabattino alchimista bolognese Casciarolo sui colli attorno alla città, che tratteneva la luce e la riemetteva al buio (Casciarolo aveva “scoperto” la fosforescenza). Col rifiuto costante di Calvino, che l’aveva rifiutato come autore. Con l’inevitabile panegirismo del moralista, voluttuoso reazionario – quello che sa di avere torto (“che la modernità abbia un volto stupido e che la nostra epoca sia stupida, non è certo una novità”).
I lampi, beffardi e seri, sono però prevalenti, mirabili incursioni. La vera e propria rivoluzione che fu “La dolce vita”. O Céline che opera “una vera discesa agli inferi del Novecento”. E molti altri. Il corpo, la voce, nella nota su Mauricio Ortiz. “Amleto sapeva della tresca di sua madre; solo che non se n’era accorto”, avendo altre cose cui pensare, “fanciullone distratto e malinconico”. Joyce ha l’epifania radicale di Dublino, delle sue piccolezze, nelle cosmopolite Trieste e Zurigo. “Pasolini e Gadda sono Prometeo e Epimeteo”. E “cosa di più terribilmente realistico dei racconti cosiddetti fantastici?” Giustamente riservato sul Calvino alla moda della Leggerezza, mentre il millennio è e resta greve. Avventuroso sulla saudade, l’omaggio a Remo Ceserani. Scopritore – troppo breve - di De André poeta classicheggiante, di ballate fiorentine, canzoni provenzali (d’aube, de toile, de geste, d’histoire), laudi. Scopritore di Celan scopritore di Pessoa, sessant’anni fa, quando nessuno conosceva Pessoa, e Celan lo tradusse in tedesco.
Un risarcimento, nel complesso, dopo le ultime raccolte dello scrittore stanco. Che ci compiaceva dello “stalinismo”. Contro Berlusconi come contro Ferrara, Ciampi, Battisti (chi è Battisti), e perfino il Brasile di Lula. Ridotto agli amici di parrocchia, Anna Dolfi che cura questa raccolta, Mario Specchio, Piero Chicca, il direttore editoriale: lo scrittore forse più notevole del secondo Novecento finisce solo, rancoroso senza ragione – non è un fallito, non è un “omesso”, non è un reduce (non è uno che ci credeva). Perfino la moglie sembra “indicibile”. La scelta è di Maria José de Lancastre, che è la moglie di Tabucchi, o no?, e di sua figlia Beatrice.
Antonio Tabucchi, Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema, Feltrinelli, pp. 302 € 20
Un risarcimento, nel complesso, dopo le ultime raccolte dello scrittore stanco. Che ci compiaceva dello “stalinismo”. Contro Berlusconi come contro Ferrara, Ciampi, Battisti (chi è Battisti), e perfino il Brasile di Lula. Ridotto agli amici di parrocchia, Anna Dolfi che cura questa raccolta, Mario Specchio, Piero Chicca, il direttore editoriale: lo scrittore forse più notevole del secondo Novecento finisce solo, rancoroso senza ragione – non è un fallito, non è un “omesso”, non è un reduce (non è uno che ci credeva). Perfino la moglie sembra “indicibile”. La scelta è di Maria José de Lancastre, che è la moglie di Tabucchi, o no?, e di sua figlia Beatrice.
Antonio Tabucchi, Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema, Feltrinelli, pp. 302 € 20
Storia di Mancini - 2
Già nel governo dell’onorevole Moro, 1963-1968, i socialisti al governo erano indigesti. Volevano riformare e sapevano come fare. Uno dei più indigesti fu Giacomo Mancini, benché, autonomista da sempre, fosse uno dei più convinti sostenitori dell’alleanza con la Dc. Fino a Craxi e oltre, fino a che poté esercitare un ruolo politico. Ma si era fatto temere come ministro dei Lavori Pubblici, per la capacità realizzativa, e più quando, dopo le elezioni del 1968, chiese per il suo partito, il Psi, se non per sé, il dicastero delle Partecipazioni Statali. Non era un ministero come un altro, anche se i giornali e gli stessi storici faticano a capirlo, e lo sbarramento che subì fu fortissimo, da parte di Cefis, dell’Eni, della Dc tutta, dei suoi giornali, che allora erano praticamente tutti. E Mancini era il segretario all’epoca del partito Socialista.
Proviamo a ricordare la vicenda con Astolfo “La gioia del giorno”, il primo romanzo del ciclo “Anamorfosi”. Questo il prologo:
“Sul socialismo italiano … incombe l’epiteto di “lungo tubo” di Brandt, prezzolato, per via del gas russo da bloccare, e di “ladri”, dopo l’ennesima scissione. Il presidente Saragat, dopo la visita di Nixon e i viaggi dell’onorevole Lupis, si è ripreso i suoi socialisti. L’Ente è peraltro disturbato dal segretario del partito Socialista onorevole Mancini, che accampa, in procinto di tornare al governo, diritti di controllo sull’economia pubblica. Lo stesso si era segnalato per avversare la “duplice accoppiata” Ente-Montedison, accoppiata vincente a suo dire per il broker Dc. La reazione si vuole quindi vigorosa: l’Ente non è vassallo, i padroni politici li paga. Anche se la chimica ha aperto varchi nell’autonomia”.
Presto emerge uno scandalo Anas. Se ne parla, dai contorni non chiari:
“È uno scandalo scaccia-scandalo. Uno dei capi Montedison ha parlato. E ha detto che si sono riuniti Valerio per la Montedison, il Dottore e l’Ingegnere suo vice per l’Ente, Petrilli e Medugno per l’Iri, e Agnelli, Pirelli, Torchiani, Cuccia, i poteri degli affari, per stabilire che, “poiché all’Ente si fanno elargizioni ai partiti”, anche Valerio poteva disporre “in piena autonomia di una giusta quota di fondi neri”. Subito, prima di ogni altra decisione sul futuro di Valerio, di Montedison, e della chimica. Fondi neri o riservati, in frode fiscale, per tangenti e bustarelle. Per dare ragione forse alla Vita agra, dove già l’azienda di Ribolla, che ammazza i minatori per chiudere la cava, “apre a sinistra”. La corruzione emerge in forma di dura cresta in capo all’industria, dell’Ente compreso, e non ai margini, un’elemosina fra le tante, ma nel cuore delle strategie. Per tenerne fuori la politica.
Lo scandalo scaccia-scandalo
“Contro l’onorevole Mancini i candidi di destra e gli accattanti delle agenzie hanno montato in pochi giorni una campagna di efficacia sorprendente, tanto più per essere screditati e senza pezze d’appoggio. Al grido di “ladro! ladro!”, ingaglioffito dall’uso dei dialetti, “ladrùn!”, “lader”. Di che non si sa, ma dire di uno di sinistra che ha rubato è la fine: sono venuti da ogni parte a professare rispetto per l’autonomia degli Enti, scandalizzatissimi i democristiani, sinceramente preoccupati i comunisti, e anche i socialisti che non stanno con il loro segretario”.
Si apre lo scandalo Anas, implicandovi Mancini in quanto ex ministro dei Lavori Pubblici, nel mentre che si prepara quella che sarà la rivolta di Reggio Calabria:
“C’è bisogno di una Vandea, a ogni rivoluzione ne segue una. La Calabria ne ha fatte un paio, ha pure azzoppato Garibaldi, che l’onorevole Mancini rimuove, vantandola feudo socialista. La Vandea nel feudo socialista, c’è del genio. Per ora si rinnova l’arte dei dossier: un signor Pontedera afferma che i socialisti sono corrotti. Idea non male, anche questa, i socialisti, fra tutti, accusare di corruzione. Ha carte dal ministro Sacerdoti, il signor Pontedera, per quella che potrebbe essere la campagna antisocialista concordata negli Usa dall’onorevole Lupis. Altre ha ricevuto e riceve da un deposito sulla via Pontina, in uso all’Ente, il signor Pontedera è ubiquo. Se non è nome collettivo, ma nessuno se ne inquieta. Ora si materializza nel senatore fascista Pisanò, editore e direttore del voltairiano Candido, che l’attacco ambrosianamente traduce in “Mancini lader”.
Il ministro Sacerdoti è Preti, Brusconi deve intendersi Rusconi. Si parlerà di un Franco, che è da intendersi Briatico, uomo comunicazione dell’Eni, collaboratore stretto di Cefis – in futuro finanziatore amabile del “Manifesto”. Il giornalista Pecottini dovrebbe essere Pecorelli – anche lui aveva un dossier su “Mancini ladro”. Questi i particolari dello scandalo:
Mancini ladro
“Uno spruzzo di ladrocinio è vecchio trucco Gestapo: a Parigi sotto occupazione e anche a Roma i tedeschi, in uno con la malavita locale, fotografavano personaggi ricchi o eminenti con persone infrequentabili, puttane, lestofanti. Ma non è l’essenziale, non ci sarà condanna, il dossier è un’esercitazione. Sotto accusa con l’onorevole Mancini va un Dc, per copertura, un piccolo Dc che l’Ente ha già risarcito con una stazione di servizio a Santa Maria Capua Vetere e l’agenzia per la Campania, la quale dà titolo a un aggio pur non implicando alcuna attività. La tecnica del dossier vuole che al nemico si affianchi un amico minore: ciò evita il sospetto di persecuzione e nobilita l’accusa.
“Solo l’editore Brusconi, presentito dal ministro Sacerdoti, che è suo collaboratore nonché patrono, ha onestamente declinato la partecipazione alla campagna. Un dossier su Mancini spia dei russi è offerto dal giornalista Pecottini per quaranta milioni, che è cifra esosa, il doppio dello stipendio all’Ente del funzionario di fascia media, annuo lordo, e Metello ne è sdegnato. Metello ha già il dossier. Ma non può dirglielo, Pecottini capirebbe. Se non gliel’ha proposto provocatoriamente. È un ricatto – gran fastidio deve dare un ricatto al ricattatore, a meno che egli non sia violento. Nemmeno però può lasciare inaridire la campagna, un dossier ha bisogno sempre di nuove carte.
“Einstein ha elaborato e scartato un numero immenso di ipotesi prima di trovare le equazioni della relatività generale – che inizialmente aveva scartato. È la scienza stessa a suggerire una mimesi inventiva e perfino creativa. “Il fare precede il confrontare”, Gombrich l’ha argomentato persuasivamente. Ma non avendo l’iniziativa si procede per tentativi, scartando ipotesi, aggiustando le scelte, sul fare degli altri. I socialisti, dopo quasi un decennio di governo, sono fuori dal mondo. Volevano disarmare la polizia in servizio di ordine pubblico. E l’onorevole Mancini crede in Franco, il dominus invisibile dell’Ente, che gli racconta di epiche lotte contro il Dottore sulla Montedison, e di sordidi maneggi a suo danno di altri leader socialisti. Affonda sapendo che Pisanò è pagato per non continuare la pubblicazione delle carte - di quelle che non gli sono state consegnate. I socialisti le bevono tutte. I socialisti non esistono, diranno gli storici Ginzburg e Ginsborg, perché non sono organizzati, non secondo il “centralismo democratico” del partito Comunista. E i comunisti?”
(2. continua)
Proviamo a ricordare la vicenda con Astolfo “La gioia del giorno”, il primo romanzo del ciclo “Anamorfosi”. Questo il prologo:
“Sul socialismo italiano … incombe l’epiteto di “lungo tubo” di Brandt, prezzolato, per via del gas russo da bloccare, e di “ladri”, dopo l’ennesima scissione. Il presidente Saragat, dopo la visita di Nixon e i viaggi dell’onorevole Lupis, si è ripreso i suoi socialisti. L’Ente è peraltro disturbato dal segretario del partito Socialista onorevole Mancini, che accampa, in procinto di tornare al governo, diritti di controllo sull’economia pubblica. Lo stesso si era segnalato per avversare la “duplice accoppiata” Ente-Montedison, accoppiata vincente a suo dire per il broker Dc. La reazione si vuole quindi vigorosa: l’Ente non è vassallo, i padroni politici li paga. Anche se la chimica ha aperto varchi nell’autonomia”.
Presto emerge uno scandalo Anas. Se ne parla, dai contorni non chiari:
“È uno scandalo scaccia-scandalo. Uno dei capi Montedison ha parlato. E ha detto che si sono riuniti Valerio per la Montedison, il Dottore e l’Ingegnere suo vice per l’Ente, Petrilli e Medugno per l’Iri, e Agnelli, Pirelli, Torchiani, Cuccia, i poteri degli affari, per stabilire che, “poiché all’Ente si fanno elargizioni ai partiti”, anche Valerio poteva disporre “in piena autonomia di una giusta quota di fondi neri”. Subito, prima di ogni altra decisione sul futuro di Valerio, di Montedison, e della chimica. Fondi neri o riservati, in frode fiscale, per tangenti e bustarelle. Per dare ragione forse alla Vita agra, dove già l’azienda di Ribolla, che ammazza i minatori per chiudere la cava, “apre a sinistra”. La corruzione emerge in forma di dura cresta in capo all’industria, dell’Ente compreso, e non ai margini, un’elemosina fra le tante, ma nel cuore delle strategie. Per tenerne fuori la politica.
Lo scandalo scaccia-scandalo
“Contro l’onorevole Mancini i candidi di destra e gli accattanti delle agenzie hanno montato in pochi giorni una campagna di efficacia sorprendente, tanto più per essere screditati e senza pezze d’appoggio. Al grido di “ladro! ladro!”, ingaglioffito dall’uso dei dialetti, “ladrùn!”, “lader”. Di che non si sa, ma dire di uno di sinistra che ha rubato è la fine: sono venuti da ogni parte a professare rispetto per l’autonomia degli Enti, scandalizzatissimi i democristiani, sinceramente preoccupati i comunisti, e anche i socialisti che non stanno con il loro segretario”.
Si apre lo scandalo Anas, implicandovi Mancini in quanto ex ministro dei Lavori Pubblici, nel mentre che si prepara quella che sarà la rivolta di Reggio Calabria:
“C’è bisogno di una Vandea, a ogni rivoluzione ne segue una. La Calabria ne ha fatte un paio, ha pure azzoppato Garibaldi, che l’onorevole Mancini rimuove, vantandola feudo socialista. La Vandea nel feudo socialista, c’è del genio. Per ora si rinnova l’arte dei dossier: un signor Pontedera afferma che i socialisti sono corrotti. Idea non male, anche questa, i socialisti, fra tutti, accusare di corruzione. Ha carte dal ministro Sacerdoti, il signor Pontedera, per quella che potrebbe essere la campagna antisocialista concordata negli Usa dall’onorevole Lupis. Altre ha ricevuto e riceve da un deposito sulla via Pontina, in uso all’Ente, il signor Pontedera è ubiquo. Se non è nome collettivo, ma nessuno se ne inquieta. Ora si materializza nel senatore fascista Pisanò, editore e direttore del voltairiano Candido, che l’attacco ambrosianamente traduce in “Mancini lader”.
Il ministro Sacerdoti è Preti, Brusconi deve intendersi Rusconi. Si parlerà di un Franco, che è da intendersi Briatico, uomo comunicazione dell’Eni, collaboratore stretto di Cefis – in futuro finanziatore amabile del “Manifesto”. Il giornalista Pecottini dovrebbe essere Pecorelli – anche lui aveva un dossier su “Mancini ladro”. Questi i particolari dello scandalo:
Mancini ladro
“Uno spruzzo di ladrocinio è vecchio trucco Gestapo: a Parigi sotto occupazione e anche a Roma i tedeschi, in uno con la malavita locale, fotografavano personaggi ricchi o eminenti con persone infrequentabili, puttane, lestofanti. Ma non è l’essenziale, non ci sarà condanna, il dossier è un’esercitazione. Sotto accusa con l’onorevole Mancini va un Dc, per copertura, un piccolo Dc che l’Ente ha già risarcito con una stazione di servizio a Santa Maria Capua Vetere e l’agenzia per la Campania, la quale dà titolo a un aggio pur non implicando alcuna attività. La tecnica del dossier vuole che al nemico si affianchi un amico minore: ciò evita il sospetto di persecuzione e nobilita l’accusa.
“Solo l’editore Brusconi, presentito dal ministro Sacerdoti, che è suo collaboratore nonché patrono, ha onestamente declinato la partecipazione alla campagna. Un dossier su Mancini spia dei russi è offerto dal giornalista Pecottini per quaranta milioni, che è cifra esosa, il doppio dello stipendio all’Ente del funzionario di fascia media, annuo lordo, e Metello ne è sdegnato. Metello ha già il dossier. Ma non può dirglielo, Pecottini capirebbe. Se non gliel’ha proposto provocatoriamente. È un ricatto – gran fastidio deve dare un ricatto al ricattatore, a meno che egli non sia violento. Nemmeno però può lasciare inaridire la campagna, un dossier ha bisogno sempre di nuove carte.
“Einstein ha elaborato e scartato un numero immenso di ipotesi prima di trovare le equazioni della relatività generale – che inizialmente aveva scartato. È la scienza stessa a suggerire una mimesi inventiva e perfino creativa. “Il fare precede il confrontare”, Gombrich l’ha argomentato persuasivamente. Ma non avendo l’iniziativa si procede per tentativi, scartando ipotesi, aggiustando le scelte, sul fare degli altri. I socialisti, dopo quasi un decennio di governo, sono fuori dal mondo. Volevano disarmare la polizia in servizio di ordine pubblico. E l’onorevole Mancini crede in Franco, il dominus invisibile dell’Ente, che gli racconta di epiche lotte contro il Dottore sulla Montedison, e di sordidi maneggi a suo danno di altri leader socialisti. Affonda sapendo che Pisanò è pagato per non continuare la pubblicazione delle carte - di quelle che non gli sono state consegnate. I socialisti le bevono tutte. I socialisti non esistono, diranno gli storici Ginzburg e Ginsborg, perché non sono organizzati, non secondo il “centralismo democratico” del partito Comunista. E i comunisti?”
(2. continua)
domenica 14 luglio 2013
Parafrastica - 2
Tutto muta tutto è immutabile – Eraclito 2
Riina giovane fu abusato dallo Stato – Riina vecchio
Santacroce, tu resusciti un uomo morto - Berlusconi
Voi suonate il vostro spread, noi suoneremo le nostre carampane – Renzi a Berlino
Voi suonate il vostro spread, noi ve le suoniamo – Soros
Qui si fa la Germania e si muore – Mariomonti Garibaldi
Riina giovane fu abusato dallo Stato – Riina vecchio
Santacroce, tu resusciti un uomo morto - Berlusconi
Voi suonate il vostro spread, noi suoneremo le nostre carampane – Renzi a Berlino
Voi suonate il vostro spread, noi ve le suoniamo – Soros
Qui si fa la Germania e si muore – Mariomonti Garibaldi
Renzi a Berlino
Una foto del “Corriere della sera Firenze” mostra Renzi che, come un fan che chiede l’autografo, o un cronista disperato per una battuta in voce, alza le mani verso Obama. Mentre di Clinton a Firenze, che pure è un velino, uno che fa comparsate a pagamento, si dice che “l’incontro non ci fu”. Il sindaco di Firenze si vede che ha la passione per gli incontri con le celebrità. Ma si dà per scontato vincitore delle prossime elezioni e non si vede perché. Tanto più che lui stesso le prepara con fervore, un giorno sì e uno pure.
Tanto protagonismo nasce dalla convinzione che ogni elezione sarà da lui stravinta. E tanto meglio se si vota subito. Ma non si vede perché, sommando tutti gli errori che inanella. Non un buon amministratore (Comunale, Maggio Musicale, Nazionale, San Lorenzo, ambulanti, la lista delle inadempienze è enorme), non è neanche un buon tattico. Litiga col vescovo, litiga con tutto il Pd, fa gli sgambetti a Letta, e ora s’imbarca in una serie d’incontri internazionali “segreti”. Ora, si può dire ai giornalisti che questi incontro sono segreti, ma agli elettori no, non la bevono. Ha cominciato peraltro da Angela Merkel – una devozione che è costata a Monti il tracollo da statista a barbiere (anche a Bersani non andò tanto bene).
L’attivismo di Renzi ne mostra i limiti: è il “ragazzotto” che sembra. Mentre potrebbe non avere i voti dello stesso Pd a Firenze e in Toscana, malgrado il patriottismo di partito e cittadino. La sua ascesa fu facilitata dalla Procura “finiana” di Firenze, che abbatté la giunta pidiessina di Domenici, Ma ora Fini non c’è più, Domenici è stato riabilitato, con tutti i suoi assessori, e riesce quasi più simpatico il presidente della Regione Rossi, che ha raccolto l’eredità di Domenici e gli contesta ogni giorno ogni virgola.
Tanto protagonismo nasce dalla convinzione che ogni elezione sarà da lui stravinta. E tanto meglio se si vota subito. Ma non si vede perché, sommando tutti gli errori che inanella. Non un buon amministratore (Comunale, Maggio Musicale, Nazionale, San Lorenzo, ambulanti, la lista delle inadempienze è enorme), non è neanche un buon tattico. Litiga col vescovo, litiga con tutto il Pd, fa gli sgambetti a Letta, e ora s’imbarca in una serie d’incontri internazionali “segreti”. Ora, si può dire ai giornalisti che questi incontro sono segreti, ma agli elettori no, non la bevono. Ha cominciato peraltro da Angela Merkel – una devozione che è costata a Monti il tracollo da statista a barbiere (anche a Bersani non andò tanto bene).
L’attivismo di Renzi ne mostra i limiti: è il “ragazzotto” che sembra. Mentre potrebbe non avere i voti dello stesso Pd a Firenze e in Toscana, malgrado il patriottismo di partito e cittadino. La sua ascesa fu facilitata dalla Procura “finiana” di Firenze, che abbatté la giunta pidiessina di Domenici, Ma ora Fini non c’è più, Domenici è stato riabilitato, con tutti i suoi assessori, e riesce quasi più simpatico il presidente della Regione Rossi, che ha raccolto l’eredità di Domenici e gli contesta ogni giorno ogni virgola.
Una nota particolare meritano i giornali fiorentini, di sinistra (“Repubblica”, “Corriere della sera”) e di destra “La Nazione “): solo incenso. Renzi chiede per esempio, subito, le caserme dismesse al governo per darle alle giovani coppie. Paginoni. Il governo risponde che le caserme sono da una ventina d’anni di proprietà del Comune di Firenze. Silenzio. La città ha bisogno di un riscatto. Ma non per colpa (anche) di Renzi?
Irène si rivolta, alla maledizione del sangue
In Francia no, in Italia invece la festa sembra continua e forse è solo sciacallismo: si moltiplicano le edizioni a mano a mano che scadono i diritti, con la morte dell’autrice a Auschwitz. Già l’anno scorso, ancora quest’anno, e molto si preannuncia l’anno prossimo. La materia non manca: Irène Némirovsky è autrice di quindici romanzi, nonché, grande lettrice di Cechov e Mansfield, di cinquanta novelle. Si moltiplicano inoltre le traduzioni, più o meno approssimate, dello stesso titolo, e così sette o otto editori si contendono la scrittrice sull’esiguo mercato. Passigli, che per primo già una diecina d’anni fa aveva puntato su Némirovsky novelliera, insiste con un’altra piccola scelta. Per una buona metà delle sue novelle ora la scrittrice è tradotta in italiano. È forse la sua misura - Brasillach, ottimo lettore, la trovava migliore nei racconti che nei romanzi.
I primi sono racconti di felicità. Seppure segnata dalla malinconia. Seppure sempre al passato – “siamo stati” felici. Come se la scrittrice proiettasse in anticipo la malinconia della sua fine. Per la filosofia semplice che essa è alla portata di tutti, essendo un “sapore che soltanto l’amore può dare alla vita, un sapore di frutto, appetitoso, succulento, quasi aspro, un sapore di labbra giovani”. Gli ultimi sono racconti degli anni faticosi succeduti alle leggi razziali dell’ottobre 1940, con l’esplicito divieto di pubblicazione per gli scrittori ebrei. “Tradita da Fayard”, il suo editore, così la racconta il biografo Philipponnat, dimenticata dalla “Revue des Deux Mondes”, “abbandonata da “Gringoire”, la sua rivista, nel 1942”.
Le protagoniste – le vittime – di questi racconti sono donne rivoltate. Per “I revenant” Irène aveva recuperato Pierre Nerey, lo pseudonimo-anagramma d’esordio. La narratrice dei “Revenant”, anch’essa a suo modo una resistente, si chiama Hélène, nome che Irène s’era data per “Il vino della solitudine”, romanzo dichiaratamente autobiografico (“come indica senza ambiguità una nota manoscritta sul rovescio del classificatore di «Suite francese”, Philipponnat)»: “Ora anche la pace mi sfugge. È l’ora dei rimpianti”.
Gli ultimissimi racconti, tra essi qui “Le vergini”, hanno come sfondo i paesaggi di “Suite francese”, dello sfollamento a Issy-l’Évêque: luogo giusto per i fantasmi, prodromi alla delazione e alla morte. Ma il tema è il sangue, materia ineliminabile. Come già ne “Il calore del sangue”, uno dei suoi romanzi celebri, si potrebbe dire “la maledizione del sangue”, un antidoto alla ragione, ereditario, contro il quale l’esperienza può poco, anche la resistenza. C’è stata anche questa tragedia nella tragedia.
Irène Némirovsky, Siamo stati felici, Passigli, pp. 160 € 14,50
I primi sono racconti di felicità. Seppure segnata dalla malinconia. Seppure sempre al passato – “siamo stati” felici. Come se la scrittrice proiettasse in anticipo la malinconia della sua fine. Per la filosofia semplice che essa è alla portata di tutti, essendo un “sapore che soltanto l’amore può dare alla vita, un sapore di frutto, appetitoso, succulento, quasi aspro, un sapore di labbra giovani”. Gli ultimi sono racconti degli anni faticosi succeduti alle leggi razziali dell’ottobre 1940, con l’esplicito divieto di pubblicazione per gli scrittori ebrei. “Tradita da Fayard”, il suo editore, così la racconta il biografo Philipponnat, dimenticata dalla “Revue des Deux Mondes”, “abbandonata da “Gringoire”, la sua rivista, nel 1942”.
Le protagoniste – le vittime – di questi racconti sono donne rivoltate. Per “I revenant” Irène aveva recuperato Pierre Nerey, lo pseudonimo-anagramma d’esordio. La narratrice dei “Revenant”, anch’essa a suo modo una resistente, si chiama Hélène, nome che Irène s’era data per “Il vino della solitudine”, romanzo dichiaratamente autobiografico (“come indica senza ambiguità una nota manoscritta sul rovescio del classificatore di «Suite francese”, Philipponnat)»: “Ora anche la pace mi sfugge. È l’ora dei rimpianti”.
Gli ultimissimi racconti, tra essi qui “Le vergini”, hanno come sfondo i paesaggi di “Suite francese”, dello sfollamento a Issy-l’Évêque: luogo giusto per i fantasmi, prodromi alla delazione e alla morte. Ma il tema è il sangue, materia ineliminabile. Come già ne “Il calore del sangue”, uno dei suoi romanzi celebri, si potrebbe dire “la maledizione del sangue”, un antidoto alla ragione, ereditario, contro il quale l’esperienza può poco, anche la resistenza. C’è stata anche questa tragedia nella tragedia.
Irène Némirovsky, Siamo stati felici, Passigli, pp. 160 € 14,50
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (176)
Giuseppe Leuzzi
La ricchezza si crea, il Sud è un paradosso
La ricchezza è immateriale, nasce dall’immaginazione. La ricchezza moderna, che si moltiplica e diffonde democratica. Diversa da quella statica dell’antichità, che si conquistava e difendeva per l’ordine. La mortalità infantile più alta era nel 1938 in Lombardia, con la punta di Bergamo, 185 decessi nel primo anno su ogni mille nati, contro la media nazionale di 106. Nel Cadore, ancora cinquant’anni fa, la donna lavorava per due, dalle cinque del mattino, il contadino “proprietario” esibiva il concime naturale alla soglia e le bestie nella stalla sottocasa, dove si mangiavano polenta e pani rigonfi, con uno spizzico di salsa, alla luce del lume a petrolio.
Il Sud è un paradosso essendo l’unico caso che contraddice questa verità (costanza) della storia. Questa come l’altra, che vuole la miseria l’arma – il grilletto – della lotta di classe. Il primo rivoluzionario è il reverendo Joseph Townsend, che si diceva Amante del Bene dell’Umanità, quando spiega che la miseria è il presupposto della prosperità. Gli amanti della vita comoda gli si affannarono contro, Mandeville, Marx, Sombart, ma il reverendo aveva ragione: la miseria produce prosperità. Forse il Sud non è in miseria, non abbastanza.
C’è da dire che la povertà fu virtuosa per i romani repubblicani e per i cristiani fino al Medio Evo, arricchirsi una pena. Ma le api di Mandeville sono di Virgilio, e sono industri e virtuose. È Aristofane che inventa, ne “Gli uccelli”, Nubicuculia, l’anticittà dei vizi mutati in virtù, per ridere cioè.
Perché i figli sono apatici
Perché tanti giovani inetti, indolenti, inerti, che non vanno oltre gli studi, se mai li completano, e poi aspettano il “posto”, senza sapere neanche quale? E quando, dopo code interminabili, ripetute attese, asfissianti, presso questo o quel parente o potentato, lo ottengono, sempre lo ritengono inadeguato. E comunque, non sapendo che fare, normalmente non fanno nulla – “esercitano il potere”, il posto è pubblico in genere, e nel posto pubblico non si fa, si esercita il potere. Il genere “avvocato” che ha forse una laurea in legge, o è ingegnere perché per alcuni anni ha pagato le tasse, senza mai azzardare Analisi Matematica 1. Che il posto lo hanno avuto a lungo per legge: insegnavano – ma ancora sono in carica – le lingue alle medie, o materie tecniche.
Si dice il bisogno. Ma il bisogno di solito aguzza l’ingegno, non soltanto in Toscana. Al Sud invece il bisogno lo intorpidisce, se gli fa figli sempre più torpidi, anche fisicamente, sovrappeso. O sono le madri? Mediterranee: protettive, afflittive (castratrici). Questo è più vero: è la famiglia che induce l’apatia, l’attesa superba e rassegnata. Non finendo mai di nutrire ambizioni per il proprio figliolo, ora anche per la figliola, senza applicazione e per nessun’altra ragione che il legame affettivo, il “mio-meglio-di-me”.
Non è invece una condizione borghese. Di famiglie o ceti professionali, imprenditoriali, artigianali – grande competenze quest’ultima specialità richiede, seppure manuali. Ciò può sembrare strano Ma se è borghese, è parassitario – una contraddizione in termini: al Sud soprattutto, dove il borghese dev’essere iperattivo, dovendo superare molti handicap, incluso quello del meridiano di nascita. L’indolenza è sì “ascendente”, di chi vuole migliorare la propria posizione, ma non vi si applica: vuole ascendere per diritto, in virtù del “titolo”, dei “titoli”, che accampa – le innumerevoli “specializzazioni” che vari furbastri, più spesso di sacrestia, vendono (hanno sempre venduto, anche prima del business dei master), senza mai insegnare nulla. Ed è anche “discendente”, di chi ha casa, automobile, moglie, e non si occupa di fare. Come l’erede inutile delle vecchie storie che passava la vita lamentando: “La rendita non basta più, bisogna intaccare il capitale”. Storia che il Sud privilegia, è vero - è al Sud che per un paio di generazioni, fino agli anni 1950, si lasciava crescere l’unghia del mignolo per mostrare che mai si erano praticati lavori manuali. Ma qui non si tratta di eccentricità, questo è un modo d’essere e unaa pandemia: il giovane meridionale è abulico. Rancoroso ma indolente,
Poor rates
Il fatto è meno bizzarro se si studia col meccanismo psicologico evidenziato nell’Ottocento a Londra dagli studi sulla povertà, nel dibattito sulla riforma delle Leggi della povertà. Fino al 1830, quando i “borghi putridi” (rotten boroughs, quartieri poveri) furono riformati, quando fu riformata cioè l’assistenza pubblica, lo Stato erogava annualmente somme ingenti, le poor rates, per sfamare i poveri, in aggiunta ai sussidi dei Comuni e delle parrocchie. E questo, si ipotizzò, moltiplicava l’accattonaggio. In Scozia, che pure era estremamente povera, molto più dell’Inghilterra, ma non beneficiava delle poor rates, l’accattonaggio era inesistente. Lo stesso si può ipotizzare al Sud. Le poor rates con le quali lo Stato si presenta al Sud – il sottogoverno – allargano e non alleviano la disoccupazione, accrescendo l’apatia e l’inerzia. Il lavoro non si costruisce né si prepara. In attesa del posto. Dopo uno o due decenni accontentandosi di un assegno, per quanto piccolo, d’invalidità, o dell’indennità di disoccupazione tramite fittizi avviamenti al lavoro stagionale. Non esiste una rilevazione statistica a supporto, ma nelle tre o quattro realtà conosciute i lavori socialmente utili sono preda di diplomati e laureati.
L'odio-di-sé
“Gli americani a Roma” è un racconto di Parise del1956. Giovanotti italo-americani in avanscoperta alla Liberazione anche nel Veneto. Anche loro per fare amicizia e sapere di chi fidarsi. Usano dialetti o hanno cadenze più spesso meridionali, ma i veneti non se ne adombrano. I liberatori italo-americani non erano dunque una specialità della Sicilia. Che invece se ne fa romanzo e storia, da ultimo ora con Camilleri, dicendosi liberata dalla mafia. Eisenhower? Alexander? Lucky Luciano.
La storia gli scrittori siciliani fanno sempre cattiva, non è meraviglia che i loro emigrati, o i figli degli emigrati, degradino a mafioso. È un automatismo. Ma quanto ci pesa questa “Sicilia”, a noi meridionali che ci vorremmo liberare.
Quando piove a monte, e i pomeriggi d’estate piove spesso, il Brugiano, il Carriona, il Frigido e il Cinquale riversano sulle spiagge dell’alta Versilia liquami d’ogni specie, che ristagnano sul bagnasciuga per un giorno o due. Questi torrenti hanno corso breve, le Apuane sono molto inquinate, dalle lavorazioni dei marmi e della carta, da coloranti e solventi, dalle sottoproduzioni chimiche che si erano sviluppate attorno alla dismessa Farmoplant. Bene, nessuno se ne lamenta.
Più a valle, il Versilia, di cui si onora Forte dei Marmi, sversa di tutto. Per fare onore al nome, la città si è dotata di ruspe e bulldozer, oltre che di draghe che raccolgono anche in mare, e cancella all’istante il corpo del reato. Ma non ce ne sarebbe bisogno.
Si contano ogni giorno d’estate forse centomila famiglie ai bagni di mare nei trenta chilometri della Versilia fino a Viareggio. Mezzo milione di persone, con figli e nonni. Che pagano tremila euro al mese in media per l’affitto e ottocento per l’ombrellone. Ma nessuno si lamenta, aspettano che torni il pulito, i bambini hanno altro in spiaggia con cui passare il tempo, l’aria dopotutto non è infetta. Sarà per questo che le spiagge della Versilia hanno tutte bandiere blu e verdi dalle varie Golette e Italie Nostre.
Lo stesso accada in una spiaggia in Calabria, dove i torrenti non mancano. I giornali non parlano d’altro, giudici impongono divieti di balneazione, molta eloquenza trasborda dal foro agli ombrelloni. Si fanno perfino cause risarcitorie. Per proteggersi meglio? No, qui i turisti non sono forestieri, sono locali. Non portano quattromila euro a famiglia, e neanche mille. E sono molto spesso, saranno, sono stati, amministratori, quelli che inquinano.
leuzzi@antiit.eu
La ricchezza si crea, il Sud è un paradosso
La ricchezza è immateriale, nasce dall’immaginazione. La ricchezza moderna, che si moltiplica e diffonde democratica. Diversa da quella statica dell’antichità, che si conquistava e difendeva per l’ordine. La mortalità infantile più alta era nel 1938 in Lombardia, con la punta di Bergamo, 185 decessi nel primo anno su ogni mille nati, contro la media nazionale di 106. Nel Cadore, ancora cinquant’anni fa, la donna lavorava per due, dalle cinque del mattino, il contadino “proprietario” esibiva il concime naturale alla soglia e le bestie nella stalla sottocasa, dove si mangiavano polenta e pani rigonfi, con uno spizzico di salsa, alla luce del lume a petrolio.
Il Sud è un paradosso essendo l’unico caso che contraddice questa verità (costanza) della storia. Questa come l’altra, che vuole la miseria l’arma – il grilletto – della lotta di classe. Il primo rivoluzionario è il reverendo Joseph Townsend, che si diceva Amante del Bene dell’Umanità, quando spiega che la miseria è il presupposto della prosperità. Gli amanti della vita comoda gli si affannarono contro, Mandeville, Marx, Sombart, ma il reverendo aveva ragione: la miseria produce prosperità. Forse il Sud non è in miseria, non abbastanza.
C’è da dire che la povertà fu virtuosa per i romani repubblicani e per i cristiani fino al Medio Evo, arricchirsi una pena. Ma le api di Mandeville sono di Virgilio, e sono industri e virtuose. È Aristofane che inventa, ne “Gli uccelli”, Nubicuculia, l’anticittà dei vizi mutati in virtù, per ridere cioè.
Perché i figli sono apatici
Perché tanti giovani inetti, indolenti, inerti, che non vanno oltre gli studi, se mai li completano, e poi aspettano il “posto”, senza sapere neanche quale? E quando, dopo code interminabili, ripetute attese, asfissianti, presso questo o quel parente o potentato, lo ottengono, sempre lo ritengono inadeguato. E comunque, non sapendo che fare, normalmente non fanno nulla – “esercitano il potere”, il posto è pubblico in genere, e nel posto pubblico non si fa, si esercita il potere. Il genere “avvocato” che ha forse una laurea in legge, o è ingegnere perché per alcuni anni ha pagato le tasse, senza mai azzardare Analisi Matematica 1. Che il posto lo hanno avuto a lungo per legge: insegnavano – ma ancora sono in carica – le lingue alle medie, o materie tecniche.
Si dice il bisogno. Ma il bisogno di solito aguzza l’ingegno, non soltanto in Toscana. Al Sud invece il bisogno lo intorpidisce, se gli fa figli sempre più torpidi, anche fisicamente, sovrappeso. O sono le madri? Mediterranee: protettive, afflittive (castratrici). Questo è più vero: è la famiglia che induce l’apatia, l’attesa superba e rassegnata. Non finendo mai di nutrire ambizioni per il proprio figliolo, ora anche per la figliola, senza applicazione e per nessun’altra ragione che il legame affettivo, il “mio-meglio-di-me”.
Non è invece una condizione borghese. Di famiglie o ceti professionali, imprenditoriali, artigianali – grande competenze quest’ultima specialità richiede, seppure manuali. Ciò può sembrare strano Ma se è borghese, è parassitario – una contraddizione in termini: al Sud soprattutto, dove il borghese dev’essere iperattivo, dovendo superare molti handicap, incluso quello del meridiano di nascita. L’indolenza è sì “ascendente”, di chi vuole migliorare la propria posizione, ma non vi si applica: vuole ascendere per diritto, in virtù del “titolo”, dei “titoli”, che accampa – le innumerevoli “specializzazioni” che vari furbastri, più spesso di sacrestia, vendono (hanno sempre venduto, anche prima del business dei master), senza mai insegnare nulla. Ed è anche “discendente”, di chi ha casa, automobile, moglie, e non si occupa di fare. Come l’erede inutile delle vecchie storie che passava la vita lamentando: “La rendita non basta più, bisogna intaccare il capitale”. Storia che il Sud privilegia, è vero - è al Sud che per un paio di generazioni, fino agli anni 1950, si lasciava crescere l’unghia del mignolo per mostrare che mai si erano praticati lavori manuali. Ma qui non si tratta di eccentricità, questo è un modo d’essere e unaa pandemia: il giovane meridionale è abulico. Rancoroso ma indolente,
Poor rates
Il fatto è meno bizzarro se si studia col meccanismo psicologico evidenziato nell’Ottocento a Londra dagli studi sulla povertà, nel dibattito sulla riforma delle Leggi della povertà. Fino al 1830, quando i “borghi putridi” (rotten boroughs, quartieri poveri) furono riformati, quando fu riformata cioè l’assistenza pubblica, lo Stato erogava annualmente somme ingenti, le poor rates, per sfamare i poveri, in aggiunta ai sussidi dei Comuni e delle parrocchie. E questo, si ipotizzò, moltiplicava l’accattonaggio. In Scozia, che pure era estremamente povera, molto più dell’Inghilterra, ma non beneficiava delle poor rates, l’accattonaggio era inesistente. Lo stesso si può ipotizzare al Sud. Le poor rates con le quali lo Stato si presenta al Sud – il sottogoverno – allargano e non alleviano la disoccupazione, accrescendo l’apatia e l’inerzia. Il lavoro non si costruisce né si prepara. In attesa del posto. Dopo uno o due decenni accontentandosi di un assegno, per quanto piccolo, d’invalidità, o dell’indennità di disoccupazione tramite fittizi avviamenti al lavoro stagionale. Non esiste una rilevazione statistica a supporto, ma nelle tre o quattro realtà conosciute i lavori socialmente utili sono preda di diplomati e laureati.
L'odio-di-sé
“Gli americani a Roma” è un racconto di Parise del1956. Giovanotti italo-americani in avanscoperta alla Liberazione anche nel Veneto. Anche loro per fare amicizia e sapere di chi fidarsi. Usano dialetti o hanno cadenze più spesso meridionali, ma i veneti non se ne adombrano. I liberatori italo-americani non erano dunque una specialità della Sicilia. Che invece se ne fa romanzo e storia, da ultimo ora con Camilleri, dicendosi liberata dalla mafia. Eisenhower? Alexander? Lucky Luciano.
La storia gli scrittori siciliani fanno sempre cattiva, non è meraviglia che i loro emigrati, o i figli degli emigrati, degradino a mafioso. È un automatismo. Ma quanto ci pesa questa “Sicilia”, a noi meridionali che ci vorremmo liberare.
Quando piove a monte, e i pomeriggi d’estate piove spesso, il Brugiano, il Carriona, il Frigido e il Cinquale riversano sulle spiagge dell’alta Versilia liquami d’ogni specie, che ristagnano sul bagnasciuga per un giorno o due. Questi torrenti hanno corso breve, le Apuane sono molto inquinate, dalle lavorazioni dei marmi e della carta, da coloranti e solventi, dalle sottoproduzioni chimiche che si erano sviluppate attorno alla dismessa Farmoplant. Bene, nessuno se ne lamenta.
Più a valle, il Versilia, di cui si onora Forte dei Marmi, sversa di tutto. Per fare onore al nome, la città si è dotata di ruspe e bulldozer, oltre che di draghe che raccolgono anche in mare, e cancella all’istante il corpo del reato. Ma non ce ne sarebbe bisogno.
Si contano ogni giorno d’estate forse centomila famiglie ai bagni di mare nei trenta chilometri della Versilia fino a Viareggio. Mezzo milione di persone, con figli e nonni. Che pagano tremila euro al mese in media per l’affitto e ottocento per l’ombrellone. Ma nessuno si lamenta, aspettano che torni il pulito, i bambini hanno altro in spiaggia con cui passare il tempo, l’aria dopotutto non è infetta. Sarà per questo che le spiagge della Versilia hanno tutte bandiere blu e verdi dalle varie Golette e Italie Nostre.
Lo stesso accada in una spiaggia in Calabria, dove i torrenti non mancano. I giornali non parlano d’altro, giudici impongono divieti di balneazione, molta eloquenza trasborda dal foro agli ombrelloni. Si fanno perfino cause risarcitorie. Per proteggersi meglio? No, qui i turisti non sono forestieri, sono locali. Non portano quattromila euro a famiglia, e neanche mille. E sono molto spesso, saranno, sono stati, amministratori, quelli che inquinano.
leuzzi@antiit.eu
Storia di Mancini
Venticinque anni fa Giacomo Mancini usciva a Catanzaro da un processo per mafia. Che, sebbene sostenuto da una ventina di “pentiti”, finì nell’assoluzione con formula piena, dopo una condanna a Palmi, e non fu appellato dall’accusa. Intanto era stato reintegrato alla carica di sindaco di Cosenza. Due anni dopo moriva.
È una storia paradigmatica, quella di Mancini, anche se cancellata - e più in Calabria, dove più operò - che merita per più di questo aspetto, dell’antimafia mafiosa. Non era la prima volta che Mancini era processato. Indirettamente già nel 1990, dal giudice missino Cordova, che mise sotto accusa tutto il Psi calabrese, Mancini escluso, dopo che il suo partito aveva superato il 20 per cento del voto. A lungo, di persona, e insidiosamente, in precedenza per lo scandalo Anas. Da parte di giudici e giornali qui democristiani. La giustizia politica, oggi di certa sinistra, è sempre stata di destra - ma Mancini ebbe contro anche il solito coro di avvoltoi, giornali e giudici del Pci. Processato sempre con dispiegamento di “prove”, “carte”, “testimoni”, e indiscrezioni, e poi assolto.
Merita cominciare da qui: con la condanna di Palmi, Mancini resterà con Andreotti uno dei due soli parlamentari condannati per mafia – altri politici condannati sono locali, non parlamentari e ministri di lungo corso. Un agguato tutto politico. Montato da giudici che non si nascondevano. Il pm Giuseppe Verzera, discepolo di Codova, con Salvatore Boemi della Procura antimafia, democristiano di destra. Del Pci invece la giudice del Tribunale, che lesse la sentenza forse già pentita – non riusciva a parlare - ma aveva ceduto alla “linea”. Dopo una camera di consiglio record, di sei giorni, quasi sette. Tutti i pentiti essendo in dibattimento risultati non credibili. Presidente era Miranda Bambace, giudici Bianca Serafini e Renata Sessa.
Le tre giudici
L’accusa di Boemi e Verzera erano tutta teorema: la mafia è un organismo unitario; si proietta su tutto il territorio, condizionando la vita sociale, politica ed economica; le cosche non possono non “incontrare” i politici, di cui si fanno delle marionette; in Calabria la politica è Mancini; Mancini è mafioso. Le tre giudici riuscirono a scrivere la sentenza solo molti giorni dopo la scadenza dei tre mesi prescritti per legge. Ma non hanno nessun complesso, e anzi hanno continuato la loro carriera, ognuna a casa sua, come ambivano: Miranda Bambace a Bologna, dove è Procuratrice Generale, niente di meno, Bianca Maria Serafini a Sulmona e L’Aquila, Renata Sessa a Salerno, e su facebook
Un colonnello dei Carabinieri, Angiolo Pellegrini, si occupò di trovare i pentiti nelle varie carceri. In precedenza, alla inchiesta del Procuratore di Palmi Cordova, aveva datio man forte il generale Bozzo, comandante dei Carabinieri in Calabria, collaboratore di Dalla Chiesa, che nelle sue memorie si qualificherà del Pci. Il Procuratore Boemi è diventato nel 2009 direttore generale per gli appalti (proprio così: Stazione Unica Appaltante) dell’Agenzia per gli Appalti della Regione Calabria, quando l’Udc appoggiava in Calabria la giunta Loiero di sinistra. Incarico confermato dalla successiva giunta di destra. Quando, due anni fa, il difensore di Mancini, Paolini, rifece col giornalista la storia del processo, Boemi disse che Mancini era stato condannato e che se la cavò per un “vizio di forma”, l’incompetenza territoriale – tacendo dell’assoluzione nel secondo processo. Pellegrini, generale in pensione, è – è stato a lungo – responsabile della legalità nel porto di Gioia Tauro.
La prova erano sedici pentiti, i quali testimoniavano che in diverse occasioni Mancini avrebbe contrattato i voti con alcune cosche in cambio di favori, come aggiustamenti di processi o aiuti per concessioni di appalti o altro. Tutti i pentiti, dimostratisi inattendibili al processo, furono poi per vari motivi screditati, e mai minacciati da nessuna mafia. Mancini spiegò che si faceva il processo a lui per lasciare via libera ai corrotti e alle mafie, ma le giudici non gli cedettero. “Condannando me hanno assolto la mafia e i politici collusi, che sia il tribunale sia il procuratore Boemi ben conoscono”, disse Mancini all’uscita dal Tribunale dopo la condanna. Ma né Boemi né le giudici si sono querelate.
L’accusa era stata violenta, del tipo sbirresco. Il rinvio a giudizio si fece tra Natale e Capodanno del 1994; Con la sospensione immediata di Mancini da sindaco di Cosenza – sulla base di una recentissima legge poi dichiarata incostituzionale. Il 25 marzo 1996 Bambace lo condannava a tre anni e sei mesi per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Un anno dopo la sentenza era annullata dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, per incompetenza di Palmi a giudicare, e le carte del processo mandate a Catanzaro. La Procura di Catanzaro rifaceva l’istruttoria, e chiedeva la condanna di Mancini, ma a una pena minore. Al processo invece fu assolto, il 9 novembre 1999, perché “il fatto non sussiste”.
Tutti giudici di destra a Palmi, democristiani con qualche missino, e la Bambace del Pci. Il processo di Boemi e Verzera s’inscriveva nella campagna di “Mani Pulite” contro la politica e contro i socialisti, ma nel senso furbesco indicato da Mancini, del “fare per non fare”. L’offensiva contro i socialisti, e contro la parte della Dc favorevole al centrosinistra col Psi (Misasi), era stata aperta nel 1990 da Cordova.
Piccola California
Oggi la Calabria cosentina è una piccola California. Lascia pure spazio alla contestazione del “consumo del territorio”, Cosenza appaiando a Los Angeles…. Era un deserto negli anni Cinquanta: orrido, secco, abbandonato. Un attraversamento tristissimo successivamente, dal nulla al nulla, quando l’autostrada ne impose l’obbligo. Ora la mafia vi sarà mafia, ma la gente onesta lavora, può lavorare. Investe, produce. I paesi sono governati: si raccoglie la spazzatura, si controlla l’edilizia, si conserva il conservabile. Non fosse per il reddito, di accumulazione recente, si direbbe un’altra Toscana. Le numerose popolazioni di origine albanese, benché remota, non sono state arricchite come i sudtirolesi ma poco ci manca. La zona paludosa, abbandonata, tra Altomonte e Sibari, è un giardino - nelle paludi peraltro molte coltivazioni, per esempio gli agrumi, precoci e tardivi, o il riso, vengono benissimo, bastava pensarci: averne l’idea, metterci qualche soldo, pochi, saper vendere. In pace con se stessi e gli altri.
Mancini cominciò con l’autostrada, con l’università, che la Calabria non aveva, e la cui costituzione affidò a Beniamino Andreatta e Paolo Sylos Labini, e con un piano regionale di sviluppo – allora, non molti anni fa, i socialisti erano per il “piano”. Il piano aveva voluto affidato a Roberto Guiducci, squisito sociologo milanese, teorico della “città futura” – vent’anni fa, poco prima di morire, aveva individuato le “generazioni defuturizzate”, senza prospettiva nella globalizzazione. Promosse istituzioni culturali e premi. Aprì la strada a un’editoria locale, allora inesistente, col “Giornale di Calabria” e col riscatto delle edizioni Lerici. Oggi i quotidiani calabresi sono almeno tre, e più di una casa editrice ha status nazionale.
(1.continua)
È una storia paradigmatica, quella di Mancini, anche se cancellata - e più in Calabria, dove più operò - che merita per più di questo aspetto, dell’antimafia mafiosa. Non era la prima volta che Mancini era processato. Indirettamente già nel 1990, dal giudice missino Cordova, che mise sotto accusa tutto il Psi calabrese, Mancini escluso, dopo che il suo partito aveva superato il 20 per cento del voto. A lungo, di persona, e insidiosamente, in precedenza per lo scandalo Anas. Da parte di giudici e giornali qui democristiani. La giustizia politica, oggi di certa sinistra, è sempre stata di destra - ma Mancini ebbe contro anche il solito coro di avvoltoi, giornali e giudici del Pci. Processato sempre con dispiegamento di “prove”, “carte”, “testimoni”, e indiscrezioni, e poi assolto.
Merita cominciare da qui: con la condanna di Palmi, Mancini resterà con Andreotti uno dei due soli parlamentari condannati per mafia – altri politici condannati sono locali, non parlamentari e ministri di lungo corso. Un agguato tutto politico. Montato da giudici che non si nascondevano. Il pm Giuseppe Verzera, discepolo di Codova, con Salvatore Boemi della Procura antimafia, democristiano di destra. Del Pci invece la giudice del Tribunale, che lesse la sentenza forse già pentita – non riusciva a parlare - ma aveva ceduto alla “linea”. Dopo una camera di consiglio record, di sei giorni, quasi sette. Tutti i pentiti essendo in dibattimento risultati non credibili. Presidente era Miranda Bambace, giudici Bianca Serafini e Renata Sessa.
Le tre giudici
L’accusa di Boemi e Verzera erano tutta teorema: la mafia è un organismo unitario; si proietta su tutto il territorio, condizionando la vita sociale, politica ed economica; le cosche non possono non “incontrare” i politici, di cui si fanno delle marionette; in Calabria la politica è Mancini; Mancini è mafioso. Le tre giudici riuscirono a scrivere la sentenza solo molti giorni dopo la scadenza dei tre mesi prescritti per legge. Ma non hanno nessun complesso, e anzi hanno continuato la loro carriera, ognuna a casa sua, come ambivano: Miranda Bambace a Bologna, dove è Procuratrice Generale, niente di meno, Bianca Maria Serafini a Sulmona e L’Aquila, Renata Sessa a Salerno, e su facebook
Un colonnello dei Carabinieri, Angiolo Pellegrini, si occupò di trovare i pentiti nelle varie carceri. In precedenza, alla inchiesta del Procuratore di Palmi Cordova, aveva datio man forte il generale Bozzo, comandante dei Carabinieri in Calabria, collaboratore di Dalla Chiesa, che nelle sue memorie si qualificherà del Pci. Il Procuratore Boemi è diventato nel 2009 direttore generale per gli appalti (proprio così: Stazione Unica Appaltante) dell’Agenzia per gli Appalti della Regione Calabria, quando l’Udc appoggiava in Calabria la giunta Loiero di sinistra. Incarico confermato dalla successiva giunta di destra. Quando, due anni fa, il difensore di Mancini, Paolini, rifece col giornalista la storia del processo, Boemi disse che Mancini era stato condannato e che se la cavò per un “vizio di forma”, l’incompetenza territoriale – tacendo dell’assoluzione nel secondo processo. Pellegrini, generale in pensione, è – è stato a lungo – responsabile della legalità nel porto di Gioia Tauro.
La prova erano sedici pentiti, i quali testimoniavano che in diverse occasioni Mancini avrebbe contrattato i voti con alcune cosche in cambio di favori, come aggiustamenti di processi o aiuti per concessioni di appalti o altro. Tutti i pentiti, dimostratisi inattendibili al processo, furono poi per vari motivi screditati, e mai minacciati da nessuna mafia. Mancini spiegò che si faceva il processo a lui per lasciare via libera ai corrotti e alle mafie, ma le giudici non gli cedettero. “Condannando me hanno assolto la mafia e i politici collusi, che sia il tribunale sia il procuratore Boemi ben conoscono”, disse Mancini all’uscita dal Tribunale dopo la condanna. Ma né Boemi né le giudici si sono querelate.
L’accusa era stata violenta, del tipo sbirresco. Il rinvio a giudizio si fece tra Natale e Capodanno del 1994; Con la sospensione immediata di Mancini da sindaco di Cosenza – sulla base di una recentissima legge poi dichiarata incostituzionale. Il 25 marzo 1996 Bambace lo condannava a tre anni e sei mesi per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Un anno dopo la sentenza era annullata dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, per incompetenza di Palmi a giudicare, e le carte del processo mandate a Catanzaro. La Procura di Catanzaro rifaceva l’istruttoria, e chiedeva la condanna di Mancini, ma a una pena minore. Al processo invece fu assolto, il 9 novembre 1999, perché “il fatto non sussiste”.
Tutti giudici di destra a Palmi, democristiani con qualche missino, e la Bambace del Pci. Il processo di Boemi e Verzera s’inscriveva nella campagna di “Mani Pulite” contro la politica e contro i socialisti, ma nel senso furbesco indicato da Mancini, del “fare per non fare”. L’offensiva contro i socialisti, e contro la parte della Dc favorevole al centrosinistra col Psi (Misasi), era stata aperta nel 1990 da Cordova.
Piccola California
Oggi la Calabria cosentina è una piccola California. Lascia pure spazio alla contestazione del “consumo del territorio”, Cosenza appaiando a Los Angeles…. Era un deserto negli anni Cinquanta: orrido, secco, abbandonato. Un attraversamento tristissimo successivamente, dal nulla al nulla, quando l’autostrada ne impose l’obbligo. Ora la mafia vi sarà mafia, ma la gente onesta lavora, può lavorare. Investe, produce. I paesi sono governati: si raccoglie la spazzatura, si controlla l’edilizia, si conserva il conservabile. Non fosse per il reddito, di accumulazione recente, si direbbe un’altra Toscana. Le numerose popolazioni di origine albanese, benché remota, non sono state arricchite come i sudtirolesi ma poco ci manca. La zona paludosa, abbandonata, tra Altomonte e Sibari, è un giardino - nelle paludi peraltro molte coltivazioni, per esempio gli agrumi, precoci e tardivi, o il riso, vengono benissimo, bastava pensarci: averne l’idea, metterci qualche soldo, pochi, saper vendere. In pace con se stessi e gli altri.
Mancini cominciò con l’autostrada, con l’università, che la Calabria non aveva, e la cui costituzione affidò a Beniamino Andreatta e Paolo Sylos Labini, e con un piano regionale di sviluppo – allora, non molti anni fa, i socialisti erano per il “piano”. Il piano aveva voluto affidato a Roberto Guiducci, squisito sociologo milanese, teorico della “città futura” – vent’anni fa, poco prima di morire, aveva individuato le “generazioni defuturizzate”, senza prospettiva nella globalizzazione. Promosse istituzioni culturali e premi. Aprì la strada a un’editoria locale, allora inesistente, col “Giornale di Calabria” e col riscatto delle edizioni Lerici. Oggi i quotidiani calabresi sono almeno tre, e più di una casa editrice ha status nazionale.
La semplice fondazione di quell’università a
Cosenza, una vera università, con ottimi docenti e buona organizzazione, ne dà
la statura. Un crogiolo di intelligenze, una opportunità per molte famiglie, un
investimento a elevatissimo rendimento, e un’operazione culturale che per la
Calabria era, ed è, rivoluzionaria. Sulla scia di quella voluta da Mancini, altre città
si dotarono poi di università, Catanzaro e Reggio Calabria. Una iniziativa che
non è sbagliato quantificare anche in termini economici. La Calabria, due
milioni di residenti, e altrettanti emigrati, non aveva università: i medici
andavano a Roma, gli avvocati a Messina, gli ingegneri da Napoli in su. Ogni
anno un salasso per 50-60 mila famiglie. A una spesa minima di 10 mila euro a
studente, una esportazione netta di capitali di 500-600 milioni l’anno – a una
spesa probabile di 15 mila euro, un miliardo o poco meno.
L’incarico a Guiducci era bastato per valergli la simpatia di Giorgio Bocca. Benché renitente: non ne parlerà bene post mortem. E questo è il carattere: è vero che Mancini coltivava amicizie non sempre irreprensibili, ma sul lato alto della società. Quella di Andreotti alle Capannelle, essendo entrambi appassionati di corse, il peggiore dossierista di segreti e manipolazioni anti-Psi. O del consigliere di Cefis, Franco Briatico all’Eni. Cui dovette le sue peggiori peripezie giudiziarie. Una storia che merita raccontare in dettaglio.(1.continua)