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sabato 28 settembre 2013

Il khomeinismo salvato da Rohani

Il moderato ayatollah Rohani non è il cache sex di Khamenei, la Guida Suprema dell’Iran, ne è la ciambella di salvataggio. Il khomeinismo a trentacinque anni è politicamente debole, se non morto.
Sotto i trent’anni è la metà della popolazione iraniana, che dunque ha vissuto solo il khomeinismo. Che tuttavia respinge: l’Iran è più giovane del khomeinismo, ma non vi si riconosce. Gli ayatollah non riuserebbero ora a riempire le piazze.
Il regime teocratico si è allentato dopo che quindici anni fa, nel 1999, fu contestato a lungo e in piazza di giovani ventenni. Tra essi era peraltro presente il non più giovane Mussavì Khoinià, l’ex capo degli studenti di Khomeini – “della linea dell’imam” – che nel 1980 occuparono l’ambasciata Usa e tennero per sei mesi in ostaggio gli americani, portando il paese all’isolamento internazionale.

La recessione – 7

Tutto quello che dovreste sapere ma non si dice:
Cinquantamila imprese chiuse nei primi otto mesi del 2013. Con un saldo negativo di 20 mila imprese cessate, al netto di 30 mila nuovi avviamenti. Confesercenti prevede un'accelerazione delle chiusure nei resti quattro mesi dl 2013..

Ventimila licenziamenti in arrivo solo a Roma:
1) Telecom è scesa dai quasi 120 mila dipendenti di vent’anni fa alla privatizzazione (raggruppando Sip, Stet, etc.) a 83 mila dipendenti, malgrado la crescita esponenziale dei cellulari. Altri 12 mila entreranno in esubero con la nuova gestione spagnola.
2) L’organico già dimezzato di Alitalia, ora a 12.450 unità, dovrebbe dimezzarsi ancora dopo l’acquisizione da parte di Air France-Klm.
3) Adr, la società dell’aeroporto di Fiumicino, prospetta di ridimensionare il personale, di un terzo rispetto ai 2.500 in attività - dopo aver prospettato un raddoppio dello scalo. Da quattro anni il traffico è in contrazione.

Cinquecento ragazze in fila a Genova per tre posti di commessa di negozio d’abbigliamento.

Nel miracolo tedesco ci sono otto milioni in assegno di povertà, il dieci per cento della popolazione.
Due milioni e mezzo di ragazzi sotto i 18 anni vivono in povertà.

A Düsseldorf, capitale della Ruhr, un lavoro su quattro è precario. Un giovane su tre vive con l’assistenza pubblica.

L’anacoluto dell’infamia

“Nel periodo dal 10 settembre al 10 novembre 1941 le nostre unità hanno effettuato «azioni secondo l’uso di guerra»:
Adulti                   Bambini
uomini  4146        maschi   126
donne  1033       femmine    92
                             totale  5397”
Hanno assassinato cioè 5.397 persone. Il “totale” è di ebrei, con alcuni vagabundieren Mongolen - zingari. Più qualche migliaio di prigionieri di guerra, non compresi in queste “azioni”, bensì “sottoposti a trattamento speciale”. Sono il sottinteso – il sottofondo non detto – della incessante attività quotidiana delle SS combattenti, unità della Wehrmacht, dellesercito tedesco,  in Ucraina nella guerra all’Urss, dove l’ipocrisia (non sono eufemismi, sono parole d’ordine) è pari alla violenza. Un totale d’infamia ineguagliabile.
Fatti tradurre nel 1966 da Fruttero e Lucentini per la collana Presadiretta” che dirigevano, con una nota indignata, questi diari sono il noiosissimo giornale di guerra di alcune unità SS impegnate all’Est nell’Operazione Barbarossa. Una pubblicazione allora propagandistica - la raccolta era stata fatta a Praga - che si anima documentariamente per i gerghi in cui i diari di guerra avvolgevano, con la guerra vincente, i crimini contro l’umanità. Denominandoli sarcasticamente “secondo l’uso di guerra”, contro ebrei, zingari e prigionieri di guerra, e “trattamento speciale” contro i russi. Di cui evidentemente erano a conoscenza tutti, dagli ufficiali subalterni, e anzi dai sottufficiali, agli stati maggiori. La prova, se mai ce ne fosse stato bisogno, del disegno politico e militare dello sterminio.
Non c’è negazionismo possibile per il disonore. Nella burocraticissima rendicontazione sono pochi, due dozzine di righe, i cenni allo sterminio. Ma senza vergogna: “Quattro uomini, quattro donne e sette bambini, sospetti di appartenenza a bande, vengono sottoposti a trattamento speciale”. Cioè “a esecuzione immediata”. Questo non si deve dire. Ma che dei bambini, magari ebrei, siano a capo delle bande partigiane è invece prospettazione credibile.
Questo avveniva in un’area antirussa e antipolacca, l’Ucraina e i paesi baltici,  che aspettava i tedeschi come liberatori. La unità combattenti passavano buona parte della giornata a individuare, cercare e fucilare ebrei. E ucraini o baltici complici dei russi. Alcuni giorni poche unità, più spesso a decine e centinaia. Impegnando quattro brigate, di 7 mila effettivi l’una.
Delle quattro brigate, però, la cavalleria si distingue: uccide 14 mila ebrei nelle prime due settimane di attività, sotto il nome in codice di “saccheggiatori”, 6.526 nella terza. Sempre riferendone per anacoluti, del tutto anomali in un rapporto burocratico ma di senso evidente per la gerarchia di riferimento e per gli atti. Qui manca il soggetto e l’oggetto: “Il sistema di sospingere donne e bambini nelle paludi non ha avuto il successo che ci si poteva attendere, non essendo le paludi abbastanza profonde perché ne potesse conseguire un affondamento”. Questo succedeva con la gloriosa avanzata. Poi, nel gelo e nelle ritirata, l’infamia non si contò più.
Alla brigata di cavalleria era stato affidato da Himmler il compito specifico di “rastrellamento sistematico”. Con l’ausilio di una legione Niederland e di una legione Flandern. Una sola squadra, otto militi, più il sergente Arlt, del 2do plotone di una non specificata compagnia di SS, in azione a Minsk nella Bielorussia, tra maggio e agosto del 1942 “porta alla fossa” - in “grandi fosse” che ha appositamente scavate - una dozzina di “trasporti di ebrei da Vienna”, di “mille pezzi” l’uno e un paio di tremila. Più 6.000 dopo “un’azione in grande stile effettuata nel ghetto di Minsk” (il 16 ottobre 1943 a Roma si applica uno schema collaudato).
La cavalleria era agli ordini del colonnello, poi generale, Fegelein, pupillo di Himmler e comandante della scuola di cavalleria delle SS. Che a giugno 1944 sposerà in pompa a Berlino, malgrado le bombe, quasi quarantenne, la sorella trentenne di Eva Braun, Margaretha, per divenire quasi cognato di Hitler. Salvo esserne da lui degradato e fatto fucilare sommariamente negli ultimi giorni, quando abbandonò il bunker per salvarsi dall’Armata Rossa.
Diari di guerra delle SS, a cura di C.Fruttero e F.Lucentini

venerdì 27 settembre 2013

L’ora dell’ironia

Non sa fare le ragazze, ma la riproposta è una lieta riscoperta. Di storie non noiose e anzi affascinanti di ragazzi e perfino di bambini. Benché normali, comunissime, di padri, madri, compagni di strada, motorini e tonsille gonfie. Pascale va spedito in soggettiva per sei lunghi racconti che sono cronache dei nostri tic, modi di dire e di fare, modi di essere. Con uno sguardo lieve e insieme sapido, riuscendo a dare vita a tutto dove posa lo sguardo. Anche le circolari ministeriali dei regolamenti attuativi dei decreti delegati, le buche nelle strade, l’alluvione ripetibile delle strade interpoderali, l’enciclopedia medica, la miglioria della morte (cos’è? bisogna leggere).
Oltre che con le ragazze, sia le romane “terrazzate” sia le casertane e, si suppone, le napoletane, Pascale ci affligge coi temi da scuola di scrittura, l’amore, la morte, la poesia. Ma incidono poco: la scrittura oleata di fine Novecento sa usare flessibile e dinamica, creando sottili effetti di trasparenza sull’ordinario. Una vena che si direbbe, chissà perché, balzacchiana. Di felicità affabulatoria disinvolta e al punto – misurata senza esserlo. La parodia e la difesa insieme facendo del procedimento normativo (regolamentare, circolare, conformista) con l’intreccio postmoderno. Del non citato Nietzsche dalle costanti interpretazioni di interpretazioni. Che non funzionano senza l’aria condizionata.
L’agrimensore Pascale talvolta interviene, scorretto il giusto, dove il conformismo è troppo (siamo tutti morti, comanda la mafia, lo Stato è corrotto, apriamo un tavolo). E purtroppo tutto di una parte: i reduci della sconfitta, per inettitudine palese ma non sbandati, e anzi protervi a rilasciare l’arma finale, i batteri autoimmunizzanti della depressione. Temerario forse, ma vivaddio.
I racconti sono tutti rigorosamente di 25 pagine – c’è da scommettere che avranno lo stesso numero di parole o di battute al computer. Gliel’ha ordinato il medico? Sono una misura dello spirito? Con un appunto: “La morte è insopportabile per chi non riesce a vivere” non è Mishima, in realtà – era prolisso: è Giovanni Lindo Ferretti, CCCP.
Antonio Pascale, S’è fatta ora, Beat, pp. 139 € 9

Dobbiamo il debito alla riforma Visentini

“La crescita del debito pubblico”, rivela Visco a Milano, al convegno in memoria di Luigi Spaventa, “ fu il risultato dell’incapacità di rimuovere i gravi e crescenti squilibri fiscali determinatisi negli anni Settanta e Ottanta”. Determinatisi, dice il presidente della Banca d’Italia, come di un evento accidentale, impersonale. Mentre sono l’esito della riforma Visentini. Che: 1) divise i contribuenti tra chi pagava tutto in anticipo, anche più del dovuto, e chi pagava a consuntivo, sulla base di un’autonoma certificazione di reddito; 2) introdusse  vari privilegi surrettizi, quale lo splitting familiare per esercenti e artigiani, e le spese per la produzione del reddito; 3) tassò le ricevute fiscali così tanto da rendere l’Iva fuorilegge nei servizi privati: subito i  dentisti e gli aiuti domestici (idraulici, muratori, falegnami, elettricisti, meccanici, carrozzieri..) poterono fare sconti contro la ricevuta Iva.
Non erano anni buoni per il sistema produttivo, e Visentini si può giustificare. Un sicuro socialista come Giorgio Fuà poteva calcolare che sia nel 1974 che nel 1975 i redditi da lavoro “hanno assorbito più dell’intero prodotto netto, lasciando le imprese con un margine insufficiente per lo ammortamento e senza nessun margine per l’interesse del capitale”. Quella di Visentini era – è – una riforma produttivistica, che ricostituiva i margini con l’evasione legale. All’ombra del fisco progressivo. Che però “ridusse” le entrate, non le tenne cioè al passo con la crescita del reddito, dell’economia, e della spesa pubblica.

Il liberale progressivo, il socialista proporzionale

Non è un’ironia della storia che Visentini, liberale, avanzasse il fisco progressivo mentre Fuà, socialista, fosse per il proporzionale. Parliamo degli anni 1970, quando il fisco attuale, la “riforma Visentini”, andò a regime. Fua tempererà la proposta, ma non la rinnegherà, dieci anni dopo, dopo i guasti della riforma Visentini, proponendo una diversa modulazione di tutto il dispositivo fiscale in “Troppe tasse sui redditi”, che il suo coautore, Emilio Rosini, rende ora disponibile online.
Quello del professor avvocato Visentini era il solito terribilismo italiano ineffettuale, più minaccioso se possibile di Befera coi suoi incredibili redditometri – una presa di giro? - e altrettanto inefficace. Di una persona sicuramente onesta e tuttavia “avvocato dei ricchi”, come lo labellava Scalfari, in privato. Ridurre l’Iva e non lasciarla tutta al consumatore privato moltiplicherebbe le entrate di un buon terzo. Ridurre la progressività completerebbe la riconquista di tutto il quarto di reddito nazionale ora presidiato dall’evasione.

La “graziosa” di Visentini

Sui “crescenti squilibri fiscali determinatisi negli anni Settanta”, si può legge questo excursus in “La morte è giovane”, romanzo di astolfo in via di pubblicazione, pp. 459-460, a proposito della crisi finanziaria ed economica allora molto forte, a metà anni Settanta:
“Muoiono per asfissia le imprese ma non i padroni, che invece ci aggirano con le nostre stesse armi. Quelle del fisco progressivo. Per il fisco progressivo, che colpisce la ricchezza e favorisce l’uguaglianza, è stata fatta una riforma apposita. Con prelievo in busta paga, dei lavoratori cioè, anticipato e maggiorato rispetto alle future retribuzioni.
“Dicono gli inglesi che gli italiani non pagano le tasse. Gli inglesi sono maestri di virtù. Ma Philippe de Commynes trovò nella spedizione di Carlo VIII sbalordito i veneziani in coda all’esattoria. Ora la coda si fa alle Poste, una è stata fatta a giugno, un’altra si fa novembre, per lunghe ore. Per attestare che si è pagato, un anno di trattenute, e per pagare ancora qualcosa, un conguaglio, un anticipo. Bruno Visentini, uno scorbutico amico del La Malfa che non volle la tv a colori, ha proposto il sistema e il sindacato ne è entusiasta: è la modernizzazione, si dice. I padroni possono detrarsi le spese, e i soldi tenere indenni in luoghi compiacenti.
“La tassazione progressiva fu detta a Firenze ai tempi di Cosimo “la scala”, o “la graziosa”. Visentini evita di chiamare “graziosa” la sua legge. La sua però è una rivoluzione. Alcuni pagano le tasse, in anticipo, in abbondanza, anche per gli altri, i tanti che invece possono non pagarle. Non perché sono poveri, tutt’altro: molti più poveri ora pagano le tasse, per conto di ricchi che invece non le pagano. È una rivoluzione dall’alto, si vince in grazia dello Stato, ma è rivoluzione vera, radicale: s’introna l’aristocrazia operaia e del lavoro, con contorno di classe intellettuale, tutti coloro che pagano le tasse, gli altri si trascurano – cosa sono queste borghesie di merda? E si combatte, infine con durezza, la famiglia.
“La famiglia paga le tasse due volte: i redditi che si cumulano accrescono l’aliquota. E se la famiglia ha un figlio che lavora paga tre volte. In omaggio alla cultura laica, che scoraggia i figli e il matrimonio. E alla domanda di femminismo, anche le donne vogliono le tasse e non vogliono i figli. È questo il vero attacco alla famiglia, il fisco e non il divorzio. Le domande di separazione a fini fiscali si moltiplicano, notai accettano retrodatati patti nuziali separatisti: si hanno due detrazioni per la produzione del reddito e non una. È il fisco che fa la società, e l’amore”.

giovedì 26 settembre 2013

L’aria liberata col carbone

Avendo pagato per un paio d’anni il kWh un 25 per cento più caro a titolo minore emissione di anidride carbonica, scoprire che lo steso era prodotto invece da centrale a carbone, a Vado Ligure e Torrevaldaliga, è indigesto. Tre quarti della potenza di Sorgenia è in questi due impianti, per 3.000 MW.
Il fatto si sa ora perché solo ora i media di Berlusconi hanno avuto interesse ad attaccare De Benedetti, cui Sorgenia fa capo, dopo la condanna al mega risarcimento per la Mondadori. Ma è grave in sé, denunce di parte a parte.
Chi protegge i consumatori? L’Autorità per l’Energia che ci sta a fare? La magistratura che ci sta a fare? Non ci sono affari da proteggere e affari da perseguire, ma comportamenti illeciti da perseguire.

Ombre - 191

Le dimissioni in massa hanno zittito pure Grillo. Berlusconi si scopre: è un diavolo.

La Commissione Ue fa causa all’Italia per la mancata applicazione delle norme europee sulla responsabilità civile dei giudici. Dopo aver atteso due anni che l’Italia desse esecuzione a una condanna nel merito della Corte europea. Una condanna di cui non abbiamo mai saputo nulla. Paura?
Mai rispettata la sentenza europea del novembre 2011, secondo la quale l’Italia protegge i magistrati in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato”, spiega “Repubblica”. Non ce lo poteva dire prima? 

Titolone in cronaca “Corriere della sera-Roma”: “Pregiudicato ucciso da due killer in moto. Dietro al delitto forse la criminalità”. Potrebbero essere stati due amanti, traditi?

Il criminale Craxi è celebrato da Napolitano. Per paura che la Corte di giustizia europea ci faccia causa?

Uno tra Borrelli, che Napolitano omaggia alle prime della Scala, e Craxi, che Napolitano celebra ai convegni, deve essere un criminale. Ma quale dei due? Il socialismo vuole certezze - mica è il prete, che tutti assolve.

Si discute alla “Domenica sportiva”se il giudice sportivo darà una giornata di squalifica a Balotelli, espulso per doppia ammonizione oppure due. Gene Gocchi è di altro parere: “Se il giudice è Esposito gli dà cinque giornate”. Oh, il giudice non gli dà tre giornate? L’Italia è proprio dei comici.

Luciano Gallino rimprovera alla Fiat su “Affari & Finanza” di non essere la Germania. Siamo già al culto? Della forza.

“Nel 2003, l’anno prima che Sergio Marchionne prendesse il comando in Fiat, il gruppo (Fiat) produsse ancora nel paese 1.026.000 automobili”, dice Gallino. Non è vero, ma ammettiamo. Ora ne produce 397.000, meno del Belgio, o della Slovacchia. Perchè? Gallino non lo dice, salvo insinuare che la colpa è di Marchionne.
Anche come propaganda, questa sociologia è inutile, troppo compromessa.

Il minor costo e la mobilità del lavoro si apprezza molto, ma solo in Germania. Anche da Landini quando va da Floris. Anche la sociologia si è landinizzata?

Singolare cronaca dei giornali d’informazione del Pd, “Repubblica”, “Messaggero”, “Corriere della sera”, “Stampa”, sul Pd. Una pagina al più, incolore. Anche se le liti sono furibonde. Molte pagine invece su Berlusconi, le figlie di Berlusconi, la fidanzata di Berlusconi, Brunetta, perfino Forza Italia. Per ridere naturalmente. Se non si ride i giornali non si fanno?

Il maestro Roman Vlad, arrivato ventenne a Roma nel 1938, vi fu allievo di Casella, e collaboratore di Petrassi e Dallapiccola. L’uno “un fascista onesto”, diceva, il secondo “un antifascista un po’ meno onesto”.

Vlad si dimise da sovrintendente all’Opera di Roma nel 1981 perché i sindacati avevano ottenuto l’indennità sede disagiata per gli spettacoli a Caracalla. Dove ognuno vorrebbe passeggiare.
L’avevano ottenuta anche per i non convocati al lavoro a Caracalla: un’indennità assenza.

Si lamenta la giudice Galli, che ha condannato Berlusconi prima di Esposito, dopo avergli negato i testimoni a difesa: “C’è una lesione forte del nostro diritto”. Poi dice che il giudice non è equanime.

Questa giudice Galli è quella che assolse il voto di scambio mafioso di Pavia? Sì, è la stessa: odia la pm Boccassini, ma di più odia Berlsuconi.

Condanna palese vogliono Grillo e Rodotà in Parlamento per Berlusconi, anzi pollice verso, senza tastierino. Dalle leggi ad personam alle leggi contra personam.
Chi si somiglia si piglia? Ma appellandosi alla costituzione?

Tutti curati all’assemblea del Pd, “precisi”, nemmeno un capello fuoriposto. Seri, professionali. Non sbracati, nemmeno nell’eloquio, niente bottegai, artigiani, operai, disoccupati. Specie le donne, sono modeste e curate, specie nell’eloquio, genere professoressa-Rai 3. Questo si può dire del Pd: la fiducia di sé non manca, niente crisi d’identità. 


 Un ministro del Tesoro che chiede un’intervista per dire che i conti sono a rischio è una novità assoluta. Non un dilettante, uno che è direttore generale della Banca d’Italia. Che ogni giorno sa come funzionano i mercati, tra riservatezza e indiscrezione. Avremo per questo Saccomanni negli annali?

Troppe sberle al bambino tedesco

Nei “processi di civilizzazione”, di cui Elias è inventore e specialista, ci sono fasi come nella vita dell’uomo: “Pensiamo ad un bambino che venga sovente bastonato da un padre collerico quando questi lo giudica maleducato. Questo bambino per paura del padre imparerà a evitare comportamenti invisi, ma il suo meccanismo di autostima non si svilupperà che in modo incompleto. Per poter dominare se stesso deve far riferimento alle minacce altrui”. Inventarsi un nemico: è questa – sarebbe – la specialità della Germania, la sua specificità.
È un ragionamento sottile, seppure svolto ampiamente in psicoanalisi e avallato da Dolto e dallo stesso Freud. Che spiega molto, forse la stessa storia com’è avvenuta. Ma resta da chiedersi chi è – era – il padre collerico: il re di Prussia? l’imperialismo britannico? il nazionalismo? Anche per questo la raccolta non è stata – non è – ben accolta in Germania. Perché, mettendo assieme il “processo di civilizzazione” col “crollo della civiltà”, il saggio sul nazismo, è come se la storia della Germania confluisse su Hitler. Adattata al tedesco nel 1989 (tradotta dal Mulino nel 1991), la raccolta ha navigato finora in immersione, respinta o trascurata dall’opinione in Germania.
Questa raccolta dell’università di Dublino è il terz’ultimo tomo delle opere complete del sociologo tedesco. Che la Fondazione Elias ha preferito editare in inglese invece che in tedesco. E propone un riassestamento sostanziale della raccolta dallo stesso titolo del 1989. Che Elias aveva seguito e per la quale aveva scritto una corposa introduzione, qui ripresa. Ma ritenuta piuttosto opera del curatore-traduttore in tedesco Michael Schröter da molti (anche dallo stesso Schröter: “la scelta è in ultima analisi di responsabilità del curatore”, avvertiva, “nessuno dei testi qui pubblicati è stato messo a punto per la stampa dall’autore”).
La riedizione si propone anche per la versione originale e integrale sullo hitlerismo, “Il crollo della civiltà”, che rese famoso Elias nel 1939 – il saggio è del 1934. Che Schröter aveva omesso, limitando la raccolta ad alcuni lavori di Elias degli anni 1961-1980. Mentre molti dei materiali che Schröter accumulava in nota sono qui rivalutati come appendici. Per esempio le annotazioni sulla scurrilità di Mozart con la cugina, che confluiranno in “Mozart. Sociologia di un genio”. Non c’è invece un titolo di Schröter, “Jünger bellicista”, che nel testo trovava solo due righe su “Tempeste d’acciaio”.
In Inghilterra Elias ha lavorato dal 1935, dopo un paio d’anni di esilio a Parigi. Alla London School of Economics e poi in altre università, scrivendo in inglese. Alla pensione nel 1977 passerà a Amsterdam, dove ritornerà fino alla morte nel 1990 dopo un tentativo di rientro in Germania, all’università di Bielefeld, dal 1978 al 1984. Ma era e si voleva tedesco malgrado tutto. Al club londinese di Chatham House ricorda che poteva leggere durante tutta la guerra “i giornali nazionalsocialisti il giorno stesso in cui uscivano”. Ha collaborato alla raccolta di Schröter, nell’intento di contribuire a una sorta di “biografia della Germania”. Per la quale si propone nell’introduzione come “testimone oculare”, per quasi novant’anni.
L’odio civico
Sono quattro saggi, prolissi come si conviene a un sociologo, e non definitivi, pieni di spunti aperti, come si conviene a un ricercatore. Più un’ampia divagazione sulla Repubblica Federale – allora – di Bonn. I saggi sono sul formalismo eccessivo. Le lettere di Leopold Mozart e dello stesso Wolfgang traboccano di servili prosternazioni, sottomissioni, devozioni, a graziosissimi, illustrissimi e supremi signori, che magari erano mezze calzette. Sulla “società soddisfatta” del 1871-1918, “rigorosamente regolata in senso gerarchico”. Sugli studi (la formazione) e sul duello, fra i giovani nelle scuole. Sul terrorismo, del primo dopoguerra e degli anni 1970.
Della Germania Federale lo colpiva l’odio civile, una sorta di leghismo anticipato, o scarso senso della patria: “Una delle esperienze più sconvolgenti e impressionanti”, scriveva nel 1977, “che si possono fare oggi, da una certa distanza, nella Germania Occidentale è l’enorme risentimento e l’ostilità che parti della popolazione nutrono nei confronti dl altre parti”, tra Nord e Sud, tra Est e Ovest, tra ricchi e poveri, tra sinistre e destre.
Il tema di fondo – anche nell’edizione tedesco-italiana in cui Hitler non c’era – è naturalmente: perché Hitler. Elias non dice che Hitler corona la storia tedesca. Anche se molti spunti vi conducono: la formazione scolastica, la società satisfaktionsfähig dell’impero Hohenzollern, il nazionalismo, il bellicismo. Ma non dice nemmeno che è un intruso o un folle. “Nulla meglio degli obiettivi bellici tedeschi rivela la qualità irreale della Realpolitik tedesca”, nota. La società guglielmina, si può aggiungere, allora detta filistea, che Elias rinomina “soddisfatta”, satisfaktionsfähig, si voleva a specchio della società vittoriana, ma ne fu cattiva imitazione, torpida. Una miscela torbida di sciovinismo, superiorità morale, conformismo, affarismo, nonché di cattivo gusto e di languori decadenti.
Si deve a Elias anche la prima ammissione della “logica” totalitaria: “Un regime dittatoriale opera in base all’idea di un ordine organizzato in modo del tutto razionale”, molto più fluido e produttivo di “un regime parlamentare pluripartitico”. Di più: “Uno Stato del tutto dittatoriale sarebbe l’incarnazione della ragione. Forse non è un caso se una filosofia che pose al centro il concetto di ragione, quella di Kant, abbia avuto il suo massimo sviluppo nell’età dell’assolutismo”.
Norbert Elias (a cura di Eric Dunning-Stephen Mennell), Studies on the Germans: Power Struggles and the Development of Habitus in the Nineteenth and Twentieth Centuries, Ucd Press Dublin, pp. xxvi + 529  € 60

Napolitano, una parola chiara

Non c’è fatto né notizia. Ma per la quarta volta in un anno veniamo informati che Napolitano sarà interrogato al processo palermitano Stato-mafia. E insomma, quasi indagato. Perché in realtà, come dubitarne?, è colpevole., etc. etc.
Il presidente della Repubblica convocato come testimone alla trattativa Stato-mafia è una cosa ridicola ma non inoffensiva. Poiché ridicola è la Procura di Palermo, e tragicamente ridicola la Corte d’assise di Palermo che la asseconda.
Primo, perché il processo è ridicolo. Secondo perché Napolitano è chiamato a dire se ha ricevuto una lettera – la quale è pubblica. Terzo, perché si fa il nome di Napolitano per “uscire sul giornale” – periodicamente: dieci mesi fa come ipotesi, otto mesi fa per il deposito della lista dei testimoni da parte del Pm, il 19 maggio perché la Corte d’assise ne ha autorizzato la citazione, ora perché il Pm conferma di volersene avvalere.
Il quarto motivo potrebbe dare da pensare a Napolitano confrontato dalle dimissioni minacciate dei parlamentari berlusconiani. La Corte d’assise di Palermo ha autorizzato la citazione di tutti i testi nominati dalla procura della Repubblica, 178. A Milano, ai processi contro Berlusconi, solitamente gliene passano un decimo, al più. Benché la difesa possa solo difendersi in tribunale, e dopo che la giustizia ha già consolidato alcune volte le accuse sui giornali.
Dice: l’accusa è seria. Sì?
Dice: lo Stato di diritto. Di qualediritto?
Dice: la divisione dei poteri. Dove?
Che fare? Una parola chiara no?
Perché tanta paura di Ingroia, uno che è fallito da giudice e perfino da politico? Si permette perfino di fare lavvocato di parte civile nel processo che lui stesso ha montato da pm.

Quanti Esposito, e tutti giudici

Dunque , c’è una dinastia di giudici Esposito. E non l’abbiamo mai saputo, non leggendo i giornali di Berlusconi.
Antonio Esposito è il giudice che d’estrema urgenza, dopo un processo di dieci anni, ha condannato Berlusconi – perché Berlusconi, essendo Dio, deve sapere. Suo figlio Ferdinando, dissimile dal padre per la verità “alto, palestrato, elegante” lo dice “Il Fatto Quotidiano”, è procuratore della Repubblica a Milano. Dove gira in Porsche da 60 mila euro, e almeno una volta ha cenato con Nicole Minetti, che la sua stessa Procura ha fatto condannare per prossenetismo.
Dunque, bisogna leggere “Libero” per saperlo, o “Il Giornale”. Nel 90 per cento dei media italiani la dinastia non fa notizia. Nemmeno nel “Fatto Quotidiano – Giustizia & Impunità”, che si avvale di Roberta De Monticelli e altri filosofi di marca.
Il fratello di Antonio, Vitaliano, è ancora più importante. È stato Procuratore Generale della Cassazione. E poi Garante della tutela ambientale a Taranto, per 220 mila euro l’anno, oltre alla pensione. La prebenda gli è stata levata dai berlusconiani a giugno, e a luglio Antonio ha condannato Berlusconi. Ma non c’è relazione tra i due fatti. Vitaliano aveva anche condotto indagini assolutorie sui pm che diffusero a Milano le telefonate del parlamentare Berlusconi, ma non per complicità, l’indagine si era insabbiata.
Insomma, la dinastia c’è ma senza scandalo. E senza raccomandazioni, va da sé. Né il babbo di Antonio e Vitaliano li ha raccomandati. Né Antonio si è speso in alcun modo per Andreana e Ferdinando. Che sta a Milano perché ci vuole stare, benché i suoi colleghi, meno belli?, non lo amino.
Gli Esposito sono insomma una dinastia naturale. Per merito e grazia di Dio. Come i Plantageneti. Ma, questa, non è una notizia?
Ferdinando è stato con Nicole Minetti almeno una volta perché quella volta Dagospia ha fatto la spia. Ma non si nascondeva: è un gentiluomo. Il suo capo Bruti Liberati ha dovuto denunciarlo. Ma il Csm giustamente l’ha assolto: l’incontro è stato “occasionale”. L’ha assolto l’11 luglio, dopo un’attesa di 14 mesi. Tre giorni dopo che papà era stato investito urgentissimamente del processo Berlusconi in corso da 10 anni.
Si capisce che i media rispettabili non ne parlino per non sembrare di sostenere Berlusconi. Ma non c’è da vergognarsi: Napoli, con tutte le sue dinastie naturali, è molto più rispettabile del Csm. Che Napolitano presiede.

mercoledì 25 settembre 2013

Il papa popò – o Gesù ad “Amici”

Per ora è a “Striscia la notizia”, ma altri sviluppi sono prevedibili. Il papa vedette è una novità. Francesco non è il primo papa che fa interviste, ma la prima vedette sì. Paolo VI che inaugurò la pratica con un giornalista fu contegnoso, nel ruolo, Francesco I con un gesuita è come se fosse allegro da Maria De Filippi. Potendo infine leggere le venti pagine di “Civiltà Cattolica”, per il pubblico “lanciate” in flash, per il pronto consumo che il genere vuole – “Papa Francesco mette a segno un altro colpo mediatico”, titola “la Repubblica”, il giornale del papa.
Ora tutto quello che Antonio Ricci e Dario Ballantini hanno divisato per “fare il papa” popò a “Striscia la notizia”, il papa fa. Compreso bere alla cannuccia di qualcuno che gliela porge in piazza. Di suo il papa twitta, telefona, fa la foto coi fan, scrive a “Repubblica”, dorme in pensione, si risuola le scarpe (di gomma?), impone le mani, passa il tempo coi disoccupati. Ogni giorno va in tv, come se ogni giorno avesse qualcosa da dire, è tipico dei messia. E governa con collaboratori incapaci e inaffidabili. Insomma ha confuso il papa con Gesù. Anche la pensione dove abita, Santa Marta, è una ex casa per prostitute, seppure già redente, quelle di Ignazio di Loyola. Farà cardinale una donna, e anche questo è giusto, Gesù l’avrebbe fatto. Avrebbe anche preso una discepola donna, tipo Francesca Immacolata Chaouqui, perché no.
Avrebbe certamente apprezzato i suoi nemici, che avrebbero apprezzato lui – giusto gli ebrei non lo mandarono giù, ma non è per questo che sono ebrei? Il direttore de “l’Unità”, per esempio, Claudio Sardo, che lo ha eletto Principe della Pace: “L’appello del papa è diventato in queste ore – mente si riuniscono a San Pietroburgo i leader del G 20 – il più grande contrappeso mondiale alla guerra”.  Non potendogli più mandare i cosacchi ad abbeverarsi a piazza San Pietro? O Annamaria Rivera del “Manifesto” all’unisono con Sardo: il pacifismo torna a riempire le piazze “per impulso del vigoroso appello contro la guerra di papa Bergoglio”.  
E “Amici”, Gesù non sarebbe andato ad “Amici”? Il papa non c’è andato, non ancora. Ma non è detto. Anche se il Cristo non poneva problemi, quelli li conoscono tutti, dava soluzioni.

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (184)

Giuseppe Leuzzi

Chi nnicchi nnacchi
Ho deciso: mi alzo presto e vado direttamente alla Banca centrale. Dopo aver atteso inutilmente una telefonata che fissi l’appuntamento. Il portiere dice che il telefono ogni tanto non funziona, ma aspettare in albergo è ridicolo, oltre che inutile: a Tripoli, come altrove nel Mediterraneo e in tutto il Sud, si parla meglio di persona. Alle nove entro risoluto alla Banca centrale, chiedendo del governatore Regeb Misellati. Invece di dire il nome esibisco il biglietto da visita, fa scena. Il governatore è arrivato, entro subito.
È la fine del 1976, la Libia è appena entrata nella Fiat. La Fiat è tutti noi, e io sono qui da giornalista per sapere che intenzioni hanno. Conosco da tempo questo paese e so che, nonché avere intenzioni malevole, i libici non ne hanno la capacità e lo sanno: sono grati di essere in ottima compagnia, hanno pagato l’entrata in Casa Fiat a caro prezzo, e questo basta. Per la Fiat è come se avesse ottenuto un prestito ingente senza interessi. Ma in Italia  gli animi sono eccitati.
Ho scritto le cose che sto dicendo per “Mondo Operaio” ed è stata la fine di una lunga e onorevole collaborazione su questo Terzo mondo che ritengo di conoscere piuttosto bene. Sono sospettato  di essere insieme filolibico e filoFiat, anche se il mensile è curato dalla sinistra del Psi. Che invece ha fatto troppe leggerezze con quel furbo di Gheddafi e la sua smania di riconoscimento – viaggi, piccoli convegni, piccole riviste, che l’ambasciata a Roma sorniona regala (le accatasta sulle sedie all’entrata). Mentre Lelio Basso ha scoperto di essere internazionalista per fare l’avvocato di Gheddafi, che tanti sospetti di terrorismo ha addosso.
Ho passato a Tripoli due giorni chiuso in albergo, tentando un contatto attraverso il telefono. Il telefono sembra buono (è svedese) ma non funziona, non per stabilire contatti. Decido allora per il vecchio metodo meridionale ancora in forza in Africa e in Asia, sopratutto nei paesi musulmani: la visita, una chiacchiera con l’usciere o il segretario, un caffè, una secondo visita per mostrare che ci tengo, e se necessario una terza, dopo poche ore. In realtà faccio l’uno e l’altro: voglio confermarmi nella giustezza della mia impressione e mi presento altezzoso, un po’ da padrone. Funziona.
Sua Eccellenza è seduto dietro un tavolone Novecento, lucidatissimo. Questa era la sede del Banco di Roma, la banca della spedizione di Libia, cara a Giolitti prima e poi a Mussolini. È piccolo, con un gran testone, si muove come se le gambe gli penzolassero dalla poltrona. Ha i ricci arruffati, spruzzati di bianco, che gli danno un’aria da vecchio falegname. È appena stato in Italia, per concludere la trattativa con la Fiat, e si è preso un giorno di vacanza, per vedere Firenze. Avevo visto giusto anche qui: ha un pullover da bancarella di San Lorenzo – tipo quelli che, di vigognam, fanno la divisa di Marchionne. Conosce un po’ d’italiano e lo inframezza all’inglese, che conosce un po’ meglio. Quando gli chiedo se non hanno l’intenzione, lui o Gheddafi, di comandare alla Fiat, ride, cerca la parola giusta, e poi dice: “Chi nnicchi nnacchi?”
L’arabo, come il meridionale, parla spesso per ellissi. Anche l’italiano parlato nell'Africa del Nord è meridionale: in genere è siciliano. “Chi nnicchi nnacchi?”, che io ho sempre sentito in Calabria ma che credo sia d’origine siciliana, vuole dire: “Che c’entriamo noi?”, “Non abbiamo nulla da spartire”. Ho pensato che avrei detto tutto con chiarezza se fossi riuscito a spiegare sul giornale questa risposta. Ma il mio giornale è serio e vuole un linguaggio standard.

Iccà bbanna ddha bbanna
Accompagno, come amico e come meridionale, i signori Ricci nello studio del pittore catanese che gode a Firenze di una certa voga. Il pittore è simpatico. È anche contento. Dal suo studio si gode una vista sorprendente: se non fosse per l’abbigliamento della gente in piazza uno si penserebbe nel Medio Evo. Più contento lo fa, io penso, la visita dei Ricci, che si professano suoi collezionisti. Non si sente infatti per nulla fiorentino, e perciò medievale, e scherza sulle sue origini catanesi, e perciò arabe. Si esibisce in una tiritera dialettale che anche per me, che conosco la Sicilia e Catania, è puro arabo. Eccetto appunto “iccà banna ddha banna”, che vuol dire “di qua e di là”.

Milano
In una di un paio di esornazioni anti Moravia che adornano “Un gomitolo di concause”, il libro delle sue lettere a Citati, Gadda gli rimprovera un “disceverativo e rigido sistematismo antilombardo, antiborghese, antivattelapèsca”.  Cioè un pregiudizio. Ma induce a riflettere: Milano non è sistematica, è onnivora.
Questo veramente lo diceva Mapalaprte: ha uno stomaco di ferro.

Il suo ultimo lirico tributo a Milano, “Romanzo americano, Piovene apre con la fisionomia di un buon lombardo da tempo emigrato negli Usa: “La lieve tendenza del naso e del mento ad andarsi incontro gli dava qualche anno di più, e ricordava che era nato lombardo; come anche una certa amarezza, che si scorgeva in quella faccia, un’amarezza un po’ scorbutica, soprattutto guardinga”.
Lo stesso che, “da buon lombardo”, “aveva qualche difficoltà di esprimersi”. Ma anche Piovene evidentemente, benché bravo scrittore.

Lo stesso libro Piovene chiude con l’apologia della Lombardia. Una pagina manzoniana piena di pathos, che lo scrittore conclude così: “Cara soprattutto perché non comprende se stessa”. La Lombardia?

In America il personaggio di Piovene ritrova altri italiani ma meridionali, e perciò si isola: “Sugli italiani del Sud un lombardo a quei tempi aveva poche idee ma chiare. «Non sono venuto in America per stare coi meridionali. Anche peggiori che da noi»”.

Secondo Manzoni i Longobardi furono quelli che, più che altro, ridussero all’impotenza per qualche secolo l’Italia e il popolo italiano.

I giudici di Fede e Lele Mora, come già la giudice esemplare del processo Ruby, dispongono un’indagine per falsa testimonianza a carico dei testimoni a discarico. Sarebbe un fatto importante, ma l’indagine non si farà: se i testimoni a discarico non fossero falsi le sentenze lo sarebbero. È solo un atto di ipocrisia. Per un pubblico evidentemente ipocrita.

L’intimidazione dei testimoni è un reato, roba da vecchi sbirri - i giudici hanno nel dibattimento il tempo e le occasioni per contestare la falsa testimonianza. Non è un reato però a Milano. Poiché lo commettono i giudici.

Poco più di un centinaio, su cinquemila evasori totali del fisco scovati in sette mesi dalla Guardia di Finanza: Milano dunque non evade le tasse. Ma quei pochi hanno occultato 1,73 miliardi, più di un decimo del totale degli accertamenti, 17 miliardi.

Niente pane né acqua (né frutta)
L’acqua torna in auge da qualche anno, dopo essere stata a lungo proibita. È stato a lungo pedagogia nordica, ferma, di cui non si ricordano contestazioni, né nelle cronache né nelle memorie, che l’acqua faceva male. Rousseau aveva insegnato nell’“Emilio” che bisogna imparare a tollerare fame e sete, e l’ammonimento era preso sul serio dai padri, allora in famiglia addetti alla disciplina. E dai medici: i pediatri sconsigliavano e anzi proibivano l’acqua, come superflua e anzi nociva.
A lungo, fino a recente, un italiano ha dovuto soffrire in Inghilterra, Germania e Francia per la mancanza dell’acqua a tavola – in Inghilterra anche del pane. Da richiedere ogni volta con lunghe spiegazioni. Il Nord è sempre imperativo: niente acqua, e nemmeno pane, che a lungo invece erano stati gli alimenti dei poveri, e quindi comuni.
Con l’acqua era proibita la frutta. Che non c’è, nemmeno ora, molto spesso sul tavolo in Inghilterra, Germania, Svizzera, Francia, Olanda.  La richiesta di frutta suscitando stupore. Giorgio Pasquali, il filologo, ricorda con l’amico tedesco Ludwig Curtius, un’interdizione ferrea: “Curtius padre concedeva molto di rado ed in quantità minima frutta ai figlioli, quasi ghiottoneria senza valore nutritivo. Parimenti mio nonno ginecologo aveva paura della frutta, tramite d’infezione, e, se fosse dipeso da lui, ci avrebbe alimentati di sola carne”.

leuzzi@antiit.eu

Per l’Italia, fucilate ogni contadino

Con due sottotitoli: “Il grande brigantaggio”, e “Briganti borboni bande bottini battute baldracche bandiere borseggi e battaglie”, con l’assenza dunque di bricconi e braccianti. Una compilazione ambigua, insomma. Ma del tipo: si vorrebbe dire e non si può.
Il terzo sottotiolo è diminutivo: “Contributo a una storia fotografica del brigantaggio pseudo politico nell’ex Regno delle Due Sicilie”. Ma subito poi si contraddice nelle didascalione, tutte precise, che corredano le lastre: le bande erano “almeno” 380. Tra piccole, 5-15 membri, e grandi dai 100 in su, “con punte di 300-400 uomini” Organizzate, per la parte legittimista, nei primi mesi, da sei generali: Statella, Tommaso Clary, i carlisti spagnoli José Borjes e Rafael Tristany, il belga Trazegnies de Namour, il francese De Langlois. Le altre generate da braccianti e borghesi.
La rivolta partiva dalla leva obbligatoria. Qui non se ne parla, ma era la tassa più odiata. Cioè, anche qui, se ne parla indirettamente, dove si spiega che uno dei rimedi contro il brigantaggio fu l’arruolamento dei giovani nella Guardia Nazionale Mobile, con una retribuzione, 77 centesimi al giorno, che oggi sembra ridicola ma era superiore a quella del bracciante al Sud. Fu anche una rivolta contadina, come le foto documentano. Fu un fenomeno composito: di legittimisti, cui i Borboni avevano già fatto ricorso con successo nel 1799 e nel 1849, di banditi, di avventurieri, ma anche di contadini e disertori, e perfino, in pochi casi, di borghesi liberali.
Il problema è che su tale congerie fu assestato lo Stato Unitario: da subito molto antimeridionale. Creando pregiudizi e procedure che non muoiono. La repressione fu sempre e solo militare e sommaria: giudizio improvvisato senza appello, e fucilazione.
Con i mercenari della Guardia Nazionale fu impiegata pure la Legione Ungherese della spedizione garibaldina, nella prima metà del 1862 nel salernitano e nella Basilicata, e dall’agosto del 1865 a Vasto e Lanciano, dove restò impelagata per circa un anno, con alterne fortune.
“Quanto ha inciso questo logorio sull’efficienza di queste truppe nella guerra del 1866?”, si chiede il curatore, Oreste Grossi, arguto ma non tanto. Dopo anni di polizia sommaria, senza un nemico reale. Opera del generale Cialdini. Di cui un giorno si farà la storia, di un uomo tanto incapace quanto feroce. Appena preso possesso militare del Regno, a luglio del 1861, decretò la fucilazione di chiunque fosse trovato in possesso di un’arma: “Fucilo ogni paesano armato che piglio”. Quanto dire tutta la popolazione maschile adulta delle campagne, cioè i contadini.  Da Torino si ordinava di non fucilare se non i capi, ma i generali disobbedivano. Il coordinatore, il generale Enrico Della Rocca, sapeva di questi abusi, e anche dei trucchi per commetterli: “Vedendosi arrivare l’ordine di fucilare soltanto i capi, telegrafavano con questa formula: «Arrestati, armi in pugno, nel luogo tale, tre, quattro, cinque capi di briganti…», e io rispondevo: «Fucilate»”.
Oreste Grossi, Album fotografico del brigantaggio meridionale 1860-1865

martedì 24 settembre 2013

Problemi di base - 153

spock

È dunque “la Repubblica” dei papi? Un dubbio c’era

“La ricerca della Verità, con la maiuscola”, ritorna con Odifreddi, e dunque l’ateismo soppianta la teologia?

C’è una sola Veronica per scrivere a “Repubblica”, e due papi: che vangelo è?

Gesù Cristo avrebbe scritto anche lui, o solo gli apostoli ignoranti?

Da che parte soffia lo Spirito in Vaticano?

Burlando da burlare, il compagno su cui scaricare le burle?

Montezemolo corre per far vincere Alonso, o per farlo perdere?

Della Valle ci è o ci fa?

E Olli Rehn, lo 0,1?

spock@antiit.eu



Cessione Italia

Con Alitalia, Telecom e l’Inter sono 44 le aziende del made in Italy, di brand rinomati, quasi tutti  con una struttura produttiva, rilevate da investitori stranieri negli ultimi quattro anni. Tra esse Valentino, Bulgari, Coin, Loro Piana, Berloni (a un gruppo di Taiwan), Parmalat (a una famiglia francese non meno avventurosa dei Tanzi), Ducati. Perfino Cerved, l’archivio online delle camere di commercio, è stato ceduto. Prada ha un socio cinese al 19 per cento.

Nei primi otto mesi del 2013, Telecom e Inter quindi escluse, sono state rilevate da interessi stranieri una cinquantina di aziende medio-grandi, anche se non di gran nome. In lista per la cessione sono anche le due Ansaldo, Fincantieri, e altri spezzoni di Finmeccanica.

La Germania è un’altra

L’essenziale non viene detto, che pure è semplice: è un’altra Germania. Rispetto all’affabile Repubblica federale di Bonn. La sconfitta è remota, la Colpa rituale o assente, il paese è riunito, seppure non ha più i missili a Berlino, col comunismo. Angela Merkel sa di essere la cancelliera di questa ritrovata Germania. Dice no a Washington quando vuole, va regolarmente a Mosca e a Pechino, e quando proprio non ne può fare a meno a Parigi.
È un’altra Europa. È sempre quella dei trattati, ma non più quella di Bonn bisognosa. Ora i trattati si applicano  a beneficio della Germania – la cosiddetta egemonia. Sotto la clausola iugulatoria “o altrimenti…” - la Germania non ha mai osservato un trattato. Angela Merkel, i suoi ministri, i suoi consiglieri, non si fanno  un torto di esigere il tornaconto della Germania a spese degli altri partner, naturalmente fino al limite di rottura. Minacciare l’euro o imporre la recessione in suo nome. Imporre l’austerità e non praticarla. La vigilanza europea sulle banche ritagliare sulle banche tedesche - un figurino. I rapporti si definiscono per rilevanza economica. L’Italia conta meno per l’export tedesco dell’Austria, la Grecia meno del Vietnam.
Si dice Merkel per dire Germania. Il successo elettorale di domenica è stato preceduto l’altra domenica da quello ancora maggiore della Csu in Baviera. All’insegna del nazionalismo più crudo. Nel Land  più europeista. Né si tratta di una deriva conservatrice o reazionaria: le basi economiche della rinnovata supremazia tedesca sono state poste dai socialisti, con la flessibilità totale del lavoro.
O altrimenti
Si discute in Germania apertamente da un paio d’anni di “egemonia tedesca”, di come meglio esercitarla nella Ue. Con l’opposizione di notevoli pensatori, quali Habermas, ma senza effetto. Lo storico anglo-americano Niall Ferguson argomenta che la Germania ha profittato dell’euro più degli altri membri della zona e a spese di alcuni di loro. E per questo è insignito quest’anno del premio Erhard, il massimo riconoscimento tedesco per gli economisti. Ma il premio è assegnato pure all’economista Hans-Werner Sinn, che – da Monaco, la città più europeista - argomenta il contrario, che la Germania ci ha rimesso per colpa dei “latini” (sic).
Nei fatti la Germania, con un debito a inizio 2013 di 2.082 miliardi, superiore a quello dell’Italia, 1.988 miliardi, stimava una spesa per interessi di 64 miliardi, contro i 91 dell’Italia - 100 nel 2015. Il Tesoro tedesco ha risparmiato 40,9 miliardi di euro sulla spesa per interessi nel quinquennio 2010-2014 grazie allo spread, secondo un calcolo pubblicato a Ferragosto dallo stesso governo tedesco. Il nuovo debito si è ridotto nei tre anni 2010-2012 di 73 miliardi rispetto alle previsioni. Le imprese tedesche si finanziano ormai da quattro anni, da quando la crisi greca è stata imposta da Angela Merkel, a tassi d’interesse irrisori, e anzi negativi, mentre quelle italiane pagano dall’8 per cento in su. 

L’altalena franco-tedesco è sbilanciata

Non c’è un direttorio nella Ue, non c’è l’asse franco-tedesco su cui la Ue è nata, non di fatto. S’immagini l’asse come un’altalena: vi si vedrebbe oggi Hollande appollaiato in alto, Angela Merkel dal lato opposto a terra, forse goffa ma sicura.
L’asse franco-tedesco è da tempo sbilanciato, con la Francia peso piuma e la Germania peso massimo. Per una serie di presidenze francesi ineffettuali, modeste, incapaci. Ma più per il peso delle cose.

Quello politico della Francia, legato alla difesa, è crollato col Muro e la fine della guerra fredda. Il peso economico della Germania si è moltiplicato dopo la riunificazione. Non tanto per il valore aggiunto dell’Est, modesto, e forse a una sommatoria negativo, quanto per la ritrovata sicurezza di Berlino. All’interno della Ue, e della ex Nato, con Mosca e con Pechino.

Piovene si assolve con l’amico Eugenio

La meno nota e la più singolare delle narrative di Piovene. Il secondo “romanzo” di Eugenio Colorni, dopo “Le furie”, di un’amicizia tradita. Un omaggio anche alla Lombardia, quasi mistico, da parte del veneto Piovene – il racconto, abbozzato nel 1950, è di fatto quello della revisione, nel 1973-74, quando lo scrittore aspettava la morte (“scriveva con la sinistra”, avverte Mimì R. Piovene, la malattia progrediva dalla destra).
Un giovane lascia Milano per Boston nel 1935, dopo l’assassinio per motivi politici dell’amico-fratello Eugenio. Negli Usa si fa una vita di studi e lavoro, assistito da uno zio con la moglie americana, gli affetti limitando alla corrispondenza con la fidanzata, sorella di Eugenio. Finché, dopo la guerra, dopo dieci anni, la fidanzata non se lo va a riprendere a Boston. Resta con lui sposata un’altra decina d’anni, quelli che ci vogliono a indurlo al ritorno. E al ritorno, con la lieta sorpresa appunto della Lombardia “prepotente, nella sua dolcezza”, vivono felici e contenti.
Non un grande racconto. Ma “Eugenio” è vero, è Eugenio Colorni, l’amico di gioventù. Di un’amicizia che fu rotta nel 1931 per motivi politici, Piovene non volendosi impegnare nell’antifascismo – la vicenda ha propiziato il fascinosissimo racconto-documento di Sandro Gerbi, “Tempi di malafede”. L’amicizia fu riannodata nel 1939, malgrado un ennesimo strappo di Piovene, che aveva scritto in favore delle leggi razziali – Eugenio era ebreo. Ma nel 1944 Colorni morirà assassinato dai fascisti, e il suo ricordo resterà traumatico per Piovene. Anche per le intemperanze contro di lui del “fronte antifascista”, specialmente velenose e drammatiche nel 1963, quando Piovene avrebbe dovuto avere il premio Viareggio per l’analogo romanzo-saggio “Le furie”, doveva già faceva i conti con Eugenio – e con la patria Vicenza, invece della Lombardia.
Questo “Romanzo” è, più delle “Furie”, attorno all’amicizia difficile: la nostalgia, il trauma, il senso di colpa, la discolpa, l’accusa anche ai malevolenti. È un’autoassoluzione, dall’inizio alla fine. Polemica più che disperata. Con la sempre singolare vena morale con cui Piovene, filosofo fallito di formazione, intesse i suoi racconti.
Guido Piovene, Romanzo americano, remainders, pp. 129 € 4

lunedì 23 settembre 2013

Quattro anni di Merkel

Con e senza i socialisti, del resto inutili, avremo dunque altri quattro anni di Merkel. Che i giornali tedeschi, tutti senza eccezione, effigiano oggi su fondo azzurro, l’azzurro Ue. Come a dire: l’Europa è salva. Ma quale Europa? Senza eurobond: mai l’europeizzazione del debito. Costantemente critica e anche terroristica verso i vicini, la Francia ora dopo l’Italia. A controllo sovranazionale sulle banche limitato. Solida sul piedistallo della liberalizzazione forzata del lavoro, sui suoi dieci milioni di sottoccupati. E quindi su un vantaggio comparato incolmabile con gli altri paesi europei, dove non si dà la qualifica di occupato a chi è pagato 4 o 500 euro, al mese. Saranno cinque anni di durezze, se non  ancora di crisi come il quinquennio passato.
Quella di Angela Merkel è l’Europa germanica, dove tutti devono sacrificare qualcosa alla Germania, a titolo dei conti in ordine. Per conti intendendo quelli contabili, Non economici né sociali. Un compito cioè impossibile per tutti: 1) la liberalizzazione del lavoro, ammesso che sia auspicabile, non è possibile durante una recessione, e una così grave quale quella italiana nel 2011-2013, richiedendo più spesa pubblica per finanziare gli stabilizzatori automatici; 2) la recessione è stata indotta dalle politiche di austerità, 3) la crisi del debito di molti paesi è stata indotta dalla carenza di liquidità.  Di tutto questo è padre-madre la Germania. Eccetto che per la Germania stessa, che aveva disintegrato il mercato del lavoro prima della crisi.
Un a parte è necessario per la rappresentazione distorta che del fenomeno Merkel si dà in Germania, e l’Italia recepisce. La Germania ci affligge col partito antieuropeo, mentre è noto a tutti, anche in Germania, che senza la Ue la Germania non sarebbe niente, una piccola Corea. Dappertutto ci sono fascisti antieuropeisti e sfascisti, ma in Germania molto meno che in Francia, o in Olanda, e non più che in Italia, frange.
Il cancellierato Merkel baluardo dell’europeismo è solo un artificio per jugulare l’Europa. La recessione in Italia è stata imposta da Merkel, sia pure via Napolitano e Monti. Nel mentre che si avocava e si avoca al suo governo un europeismo incondizionato. La Germania insomma si assottiglia. Lo storico anglo-americano Niall Ferguson, che il risanamento impossibile con l’austerità ha motivato sul “Financial Times”, è stato per questo insignito del premio Erhard per l’economia, il massimo riconoscimento tedesco. Ma non fa un gioco di dupes, di furbizia: Merkel è molto chiara, al livello del semplice elettore.
Con la vittoria Cdu-Csu di queste settimane diventa strapotente la Germania anche nella democrazia cristiana europea, l’area che meglio dei socialisti avrebbe potuto garantire meno lutti. I socialisti tedeschi, e con loro gli sbandati socialisti europei, scontano il passaggio al liberismo radicale nel lavoro, da essi stessi propiziato nel doppio cancellierato socialista di Gerhard Schröder, anteriore alla Merkel, solo garantito da modeste protezioni sociali.

Obama in guerra per l’assolutismo

È come se Obama facesse la guerra agli arabi per imporre loro l’assolutismo. Chiamandolo democrazia. Invece dei regimi tollerabilmente bonapartisti in essere da metà Novecento. Cioè è così, ma sotto tre o quattro paradossi, cioè paraventi.
Questo è quello che gli Usa e i “volenterosi” fanno da dieci anni – da trenta allargando l’obiettivo alla Somalia, all’Afghanistan e al Libano: gli Usa i “volenterosi” adibiscono all’assolutismo sunnita. Dell’islam cioè, in una sua confessione. Che non accidentalmente è quella dei potentati arabi che la impongono con gli Usa e i volenterosi: l’Arabia Saudita, gli Emirati, sopratutto il Dubai, e il Qatar. Essi stessi assolutisti per antica tradizione, anche se di ceppo recente.
Il fatto è acclarato e non sarebbe scandaloso. Se non che comporta l’abbandono all’estremismo sunnita anche delle comunità cristiane. Qelle recenti, missionarie, di epoca coloniale, in Nord Africa e in Pakistan. E quelle da sempre radicate e ampie, in Siria, Egitto, Libano, Iraq. Il fatto è scandaloso anche per i paraventi di cui si copre
Si pretende che questo assolutismo sia democratico perché è maggioritario, in libere elezioni. Mentre le masse arabe saranno sicuramente di credenti di buoni mussulmani, ma la democrazia vuole regole, non masse. Si contrasta il terrorismo in alcune espressioni e lo si forma e alimenta in altre - nella figura del ribelle e del resistente, già in Libia e ora in Siria. La rivolta è per se stessa buona. Specie se si fa in piazza. Meglio ancora col martire. Senz’altro, senza cioè definirsi.
Gli esempi di questa sovversione assolutista sono quotidiani. Già in Egitto. Da sempre nell’Iraq dopo Saddam: è come se i sunniti volessero liquidare la maggioranza sciita demograficamente, liquidandola ogni giorno a diecine. Anche in Siria, la minoranza alauita al governo, che doveva assicurare un equilibro tra sunniti e sciiti, viene combattuta come frangia sciita. E in Libano.
Una considerazione è forse possibile su queste evidenze. Sulla base anch’essa di un’evidenza. le confessioni hanno sempre coabitato prima dell’alleanza Usa-Arabia Saudita e dell’offensiva sunnita. L’odio religioso è estraneo forse, non solo agli interessi, ma anche al sentire delle masse. Ciò che si combatte è una lotta di potere, dei califfati arabi per la loro sopravvivenza. Dell’assolutismo, nel nome della democrazia – la contemporaneità vuole i tuoi tributi.