Giuseppe Leuzzi
Chi nnicchi
nnacchi
Ho deciso: mi alzo presto e vado direttamente
alla Banca centrale. Dopo aver atteso inutilmente una telefonata che fissi
l’appuntamento. Il portiere dice che il telefono ogni tanto non funziona, ma
aspettare in albergo è ridicolo, oltre che inutile: a Tripoli, come altrove nel
Mediterraneo e in tutto il Sud, si parla meglio di persona. Alle nove entro
risoluto alla Banca centrale, chiedendo del governatore Regeb Misellati. Invece
di dire il nome esibisco il biglietto da visita, fa scena. Il governatore è
arrivato, entro subito.
È la fine del 1976, la Libia è appena entrata
nella Fiat. La Fiat è tutti noi, e io sono qui da giornalista per sapere che
intenzioni hanno. Conosco da tempo questo paese e so che, nonché avere
intenzioni malevole, i libici non ne hanno la capacità e lo sanno: sono grati
di essere in ottima compagnia, hanno pagato l’entrata in Casa Fiat a caro
prezzo, e questo basta. Per la Fiat è come se avesse ottenuto un prestito
ingente senza interessi. Ma in Italia
gli animi sono eccitati.
Ho scritto le cose che sto dicendo per “Mondo
Operaio” ed è stata la fine di una lunga e onorevole collaborazione su questo
Terzo mondo che ritengo di conoscere piuttosto bene. Sono sospettato di essere insieme filolibico e filoFiat,
anche se il mensile è curato dalla sinistra del Psi. Che invece ha fatto troppe
leggerezze con quel furbo di Gheddafi e la sua smania di riconoscimento –
viaggi, piccoli convegni, piccole riviste, che l’ambasciata a Roma sorniona
regala (le accatasta sulle sedie all’entrata). Mentre Lelio Basso ha scoperto
di essere internazionalista per fare l’avvocato di Gheddafi, che tanti sospetti
di terrorismo ha addosso.
Ho passato a Tripoli due giorni chiuso in
albergo, tentando un contatto attraverso il telefono. Il telefono sembra buono
(è svedese) ma non funziona, non per stabilire contatti. Decido allora per il
vecchio metodo meridionale ancora in forza in Africa e in Asia, sopratutto nei
paesi musulmani: la visita, una chiacchiera con l’usciere o il segretario, un
caffè, una secondo visita per mostrare che ci tengo, e se necessario una terza,
dopo poche ore. In realtà faccio l’uno e l’altro: voglio confermarmi nella
giustezza della mia impressione e mi presento altezzoso, un po’ da padrone.
Funziona.
Sua Eccellenza è seduto dietro un tavolone
Novecento, lucidatissimo. Questa era la sede del Banco di Roma, la banca della
spedizione di Libia, cara a Giolitti prima e poi a Mussolini. È piccolo, con un
gran testone, si muove come se le gambe gli penzolassero dalla poltrona. Ha i
ricci arruffati, spruzzati di bianco, che gli danno un’aria da vecchio
falegname. È appena stato in Italia, per concludere la trattativa con la Fiat,
e si è preso un giorno di vacanza, per vedere Firenze. Avevo visto giusto anche
qui: ha un pullover da bancarella di San Lorenzo – tipo quelli che, di
vigognam, fanno la divisa di Marchionne. Conosce un po’ d’italiano e lo
inframezza all’inglese, che conosce un po’ meglio. Quando gli chiedo se non
hanno l’intenzione, lui o Gheddafi, di comandare alla Fiat, ride, cerca la
parola giusta, e poi dice: “Chi nnicchi nnacchi?”
L’arabo, come il meridionale, parla spesso per
ellissi. Anche l’italiano parlato nell'Africa del Nord è meridionale: in genere
è siciliano. “Chi nnicchi nnacchi?”, che io ho sempre sentito in Calabria ma
che credo sia d’origine siciliana, vuole dire: “Che c’entriamo noi?”, “Non
abbiamo nulla da spartire”. Ho pensato che avrei detto tutto con chiarezza se
fossi riuscito a spiegare sul giornale questa risposta. Ma il mio giornale è
serio e vuole un linguaggio standard.
Iccà
bbanna ddha bbanna
Accompagno, come amico e come meridionale, i
signori Ricci nello studio del pittore catanese che gode a Firenze di una certa
voga. Il pittore è simpatico. È anche contento. Dal suo studio si gode una
vista sorprendente: se non fosse per l’abbigliamento della gente in piazza uno
si penserebbe nel Medio Evo. Più contento lo fa, io penso, la visita dei Ricci,
che si professano suoi collezionisti. Non si sente infatti per nulla
fiorentino, e perciò medievale, e scherza sulle sue origini catanesi, e perciò
arabe. Si esibisce in una tiritera dialettale che anche per me, che conosco la
Sicilia e Catania, è puro arabo. Eccetto appunto “iccà banna ddha banna”, che vuol
dire “di qua e di là”.
Milano
In una
di un paio di esornazioni anti Moravia che adornano “Un gomitolo di concause”,
il libro delle sue lettere a Citati, Gadda gli rimprovera un “disceverativo e
rigido sistematismo antilombardo, antiborghese, antivattelapèsca”. Cioè un pregiudizio. Ma induce a riflettere:
Milano non è sistematica, è onnivora.
Questo
veramente lo diceva Mapalaprte: ha uno stomaco di ferro.
Il suo
ultimo lirico tributo a Milano, “Romanzo americano, Piovene apre con la
fisionomia di un buon lombardo da tempo emigrato negli Usa: “La lieve tendenza
del naso e del mento ad andarsi incontro gli dava qualche anno di più, e
ricordava che era nato lombardo; come anche una certa amarezza, che si scorgeva
in quella faccia, un’amarezza un po’ scorbutica, soprattutto guardinga”.
Lo
stesso che, “da buon lombardo”, “aveva qualche difficoltà di esprimersi”. Ma
anche Piovene evidentemente, benché bravo scrittore.
Lo
stesso libro Piovene chiude con l’apologia della Lombardia. Una pagina
manzoniana piena di pathos, che lo scrittore conclude così: “Cara soprattutto
perché non comprende se stessa”. La Lombardia?
In
America il personaggio di Piovene ritrova altri italiani ma meridionali, e
perciò si isola: “Sugli italiani del Sud un lombardo a quei tempi aveva poche
idee ma chiare. «Non sono venuto in America per stare coi meridionali. Anche
peggiori che da noi»”.
Secondo
Manzoni i Longobardi furono quelli che, più che altro, ridussero all’impotenza
per qualche secolo l’Italia e il popolo italiano.
I
giudici di Fede e Lele Mora, come già la giudice esemplare del processo Ruby,
dispongono un’indagine per falsa testimonianza a carico dei testimoni a
discarico. Sarebbe un fatto importante, ma l’indagine non si farà: se i
testimoni a discarico non fossero falsi le sentenze lo sarebbero. È solo un
atto di ipocrisia. Per un pubblico evidentemente ipocrita.
L’intimidazione
dei testimoni è un reato, roba da vecchi sbirri - i giudici hanno nel
dibattimento il tempo e le occasioni per contestare la falsa testimonianza. Non
è un reato però a Milano. Poiché lo commettono i giudici.
Poco più
di un centinaio, su cinquemila evasori totali del fisco scovati in sette mesi
dalla Guardia di Finanza: Milano dunque non evade le tasse. Ma quei pochi hanno
occultato 1,73 miliardi, più di un decimo del totale degli accertamenti, 17
miliardi.
Niente pane né acqua (né frutta)
L’acqua torna in auge da qualche anno, dopo
essere stata a lungo proibita. È stato a lungo pedagogia nordica, ferma, di cui
non si ricordano contestazioni, né nelle cronache né nelle memorie, che l’acqua
faceva male. Rousseau aveva insegnato nell’“Emilio” che bisogna imparare a tollerare
fame e sete, e l’ammonimento era preso sul serio dai padri, allora in famiglia addetti
alla disciplina. E dai medici: i pediatri sconsigliavano e anzi proibivano
l’acqua, come superflua e anzi nociva.
A lungo, fino a recente, un italiano ha dovuto
soffrire in Inghilterra, Germania e Francia per la mancanza dell’acqua a tavola
– in Inghilterra anche del pane. Da richiedere ogni volta con lunghe
spiegazioni. Il Nord è sempre imperativo: niente acqua, e
nemmeno pane, che a lungo invece erano stati gli alimenti dei poveri, e quindi
comuni.
Con
l’acqua era proibita la frutta. Che non c’è, nemmeno ora, molto spesso sul
tavolo in Inghilterra, Germania, Svizzera, Francia, Olanda. La richiesta di frutta suscitando stupore.
Giorgio Pasquali, il filologo, ricorda con l’amico tedesco Ludwig Curtius,
un’interdizione ferrea: “Curtius padre concedeva molto di rado ed in quantità
minima frutta ai figlioli, quasi ghiottoneria senza valore nutritivo. Parimenti
mio nonno ginecologo aveva paura della frutta, tramite d’infezione, e, se fosse
dipeso da lui, ci avrebbe alimentati di sola carne”.
leuzzi@antiit.eu