sabato 9 novembre 2013

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (188)

Giuseppe Leuzzi

“Baffo & Coda”, il sussidiario di Storia e Geografia per la Terza Elementare di Allegri e Matthiassich, della Editrice Piccoli, orienta i quattro punti cardinali con l’immagine rivolta verso il Sud. Il Nord è alle spalle. È apprezzabile. Ma disorienta: l’Est sta o Ovest e l’Ovest sta a Est.
Non c’è rimedio?

Lucrezia Lerro situa “La confraternita delle puttane”, un romanzo, nel “profondo Sud”. Massimiliano Chiavarone, nomen omen, che la recensisce sul “Corriere della sera”, così presenta il manufatto: Lucrezia Lerro “colloca l’inferno di alienazione, miseria morale e materiale, in una zona del Sud Italia negli anni Ottanta”. Non molto tempo fa, dunque, anche se non c’erano i telefonini.
Lucrezia Lerro è una scrittrice e poetessa italiana, molto premiata, di Omignano, in provincia di Salerno. L’umanità è infelice, dice. Sì, ma perché battere?

Ndrina, ‘ndrangheta, Giuttari e la filologia riportano al termine greco per maschio. Ma perché non sarebbero privativi? “Anandrines” fu un setta di lesbiche, le “senza uomini”, fondata a Parigi nel 1770 da Madame de Fleury. Con una succursale presto a Londra, presieduta da una Mrs. Yates, attrice del teatro Drury Lane. A Parigi fu presieduta da Sophie Arnould, cantante famosa e donna di spirito, nonché cortigiana - l’una cosa non escludeva l’altra.
Il club, ufficiale a differenza delle ‘ndrine, ebbe un tempio proprio, e un cerimoniale. Finì con la rivoluzione, nel 1789. Ma non prima di subire, anch’essa come le ìndrine, almeno una scissione. Quando la sua successora alla presidenza ammise al tempo gli uomini, seppure dietro impegno a usare a fini erotici solo le mani, le labbra, la lingua, ma non il pene, Sophie Arnould se ne dissociò, pronunciando un motto poi celebre: “O puttana, o lesbica”..

Leggere per credere”, diceva questa rubrica l’ultima volta a proposito dell’articolo di Stella contro l’Università di Cosenza. Ma l’articolo è stato tolto da Stella dal suo facebook – dai fan di Stella che “alimentano il suo facebook”. E omesso dall’archivio del “Corriere”. In archivio c’è solo la replica del rettore dell’Università:

Il Nord ha sempre ragione
Nord e Sud due concetti embedded. Cognizioni spirituali immutabili. Come essere tedesco e essere italiano, il “vecchio” concetto di nazionalità come “opposto” all’altro, agli altri. Con un senso di superiorità embedded nel Nord, e d’inferiorità nel Sud, in automatico. Un giornalista italiano in Germania non seguirà mai un caso di frode nell’uso dei fondi europei di sostegno alla produzione, per esempio nella produzione del latte. Un giornalista tedesco a Roma farà sempre un caso di una multa, magari infitta dalle autorità italiane, a un allevatore sardo, a un olivicultore calabrese, a un agrumicultore siciliano, per abuso dei fondi di sostegno alla produzione. O per abuso dei fondi di formazione. Senza che ci sia una predominanza del malaffare al Sud rispetto al Nord, non che le statistiche europee lo accertino
Un corrispondente italiano a Bruxelles non farà mai un caso di una norma di sicurezza resa obbligatoria perché serve a Volkswagen, o del rinvio di cinque anni delle emissioni zero perché fa comodo alla Bmw, alla Mercedes e alla Audi (cioè a Volkswagen). O se il commissario alla concorrenza Alumunia non considera aiuti di Stato i 300 miliardi profusi dal governo tedesco alle banche. Un corrispondente tedesco a Bruxelles, e anche uno italiano, faranno sempre notizia e anzi un caso se Almunia contesta il “possibile”, “futuro”, imprecisato aiuto di Stato nella ristrutturazione del Monte dei Paschi di Siena.

Una denuncia di un europarlamentare danese dell’estrema sinistra, Søren Bo Søndergaard, sull’uso dei fondi europei per la ricostruzione dell’Aquila, diventa allo stesso modo su “Repubblica” lunedì “la relazione stesa da un funzionario danese” incaricato di indagare sugli “sprechi del dopo terremoto”. Il “Corriere della sera”, a rimorchio di “Repubblica”, la “relazione” il giorno dopo fa diventare “un rapporto degli ispettori europei”. Esimendosi dal leggerselo col citare Giusi Pitari e Sabina Guzzanti.
Søndergaard dice che i materiali usati sono scadenti, che i costi sono gonfiati, e che c’è di mezzo naturalmente la mafia, oltre a Berlusconi. È ospite all’Aquila di un movimento per la ricostruzione, che “queste cose”, spiega, “le avevamo detto nel 2009”, cioè prima della ricostruzione. L’accusa più precisa nella sua confusa conferenza stampa è che, dove sono stati utilizzati dei fondi Ue, manca il prescritto pannello che dice: “Questo è dei fondi Ue”.
L’onorevole, con un passato da insegnante e metalmeccanico, è l’unico rappresentante del suo Movimento popolare contro la Ue – e per l’Efta, che non staremo nemmeno a ricordare che cos’è: più che altro un buontempone. Ma un onorevole danese è vangelo per giornalisti pure valenti, quali sicuramente sono a “Repubblica” e al “Corriere della sera”.    
 
Pentiti
Carmine Schiavone, pentito di camorra da quasi vent’anni, senza più “contratto” col servizio di protezione, continua a dettare legge. Ora vuole il casertano avvelenato e anzi già morto di tumori. Gasato da veleni, in fusti che non si trovano, ma non importa.
Un pentito è per antonomasia la fonte di se stesso. Perché deve mantenersi – perpetuare il pentimento. Schiavone non è uno da nulla. È cugino di “Sandokan”. E ha creato i “casalesi” e “Gomorra”, il libro più venduto e un grande film. Che in gran parte, il film di Garrone soprattutto, è Schiavone, un ragazzo che ammazzava per niente - lui si definisce “capa a perdere”. Con 50 omicidi accollati, nessuno dei quali scontato, grazie al pentimento.

Nulla al confronto con Brusca, quello che scioglieva nell’acido le vittime, che, finito senza protezione anche lui, due anni fa confessò che con Riina volevano uccidere De Benedetti, per conto di Berlusconi.

Però, Brusca si vede che legge i giornali. O il suo avvocato per lui. Più inquietante l’altro grande pentito di Palermo, dopo Buscetta e Brusca: Gaspare Spatuzza. Quello con cui ha fatto carriera il Procuratore Grasso, oggi presidente del Senato. Qualche anno dopo il pentimento, Spatuzza ebbe la visione della Madonna, e subito dopo di Berlusconi e Dell’Utri veri capi della mafia.

Un pentito di mafia, Francesco Onorato, si è esibito a Palermo in una serie di scemenze. Dalla Chiesa fu ucciso da Craxi - insieme con Andreotti, è vero. Martelli l’ha fatto ministro Riina (“l’abbiamo fatto noi”) – per mettersi insieme con Falcone, e introdurre il 41 bis? Gli stessi giornali dello Stato-mafia ne riferiscono vergognosi.
Onorato si è infatti esibito al processo del giudice Montalto. Senza che il giudice lo imputasse di falsa testimonianza. Non gli ha neppure imposto un po’ di rispetto per la corte.
Non che Palermo sia stupida, si vuole anzi più furba di tutti. E sicuramente lo è. Tanto più che la mafia a Palermo, col sindaco Orlando e il Procuratore Messineo, non c’è.
Onorato ha trenta omicidi certi. “Era come fare parte della Nazionale”, si è potuto vantare alla corte d’Assise del giudice Montalto: “Prendevano solo i migliori”.

Ugo Ojetti aveva la categoria dell’ “impunito” (v. Ranuccio Bianchi Bandinelli, “Diario di un
borghese”, p. 466). È tale e quale il “pentito” di oggi.
Ci sono resto sempre stati “pentiti”, da quando ci sono le polizie. Vidocq se ne avvaleva in quantità.

Il pentito va protetto a vita, e quindi per Schiavone, come per ogni altro, Brusca incluso, c’è una soluzione da trovare. Ma il ruolo dei pentiti va rivisto. Dicono quello che, nelle zone di mafia, tutti sanno, che le polizie sanno. Danno delle conferme. Ma poi bisogna trovare le prove e i riscontri. E dunque? Molti pentiti deviano peraltro le indagini con accuse pretestuose – il vecchio depistaggio.

Sorda Milano
“Fiasco!” “Fiaschissimo!” Con queste urla la Scala di Milano accolse la prima della “Norma” di Bellini, opera fra tutte eccelsa, storia, versi e musica, il 6 dicembre 1831 – di musicista che nello stesso anno mandava in scena “La sonnambula”... Non era ancora in uso il leghismo, ma l’orecchio duro sì.
Milano ha avuto la Scala dal conte Firmian, che era austriaco e non veneto, e da un paio di arciduchi, musicomani, anche loro austriaci.

Milano ha avuto Gaber, Celentano e Jannacci. Ma si identifica con Borrelli, Boccassini e De Pasquale. Che sono napoletani, ma sordi, anch’essi, di orecchio.

Si ricorda la prima alla Scala di Mani Pulite, approssimandosi i vent’anni dell’evento: primeggiano nelle foto e nelle cronache Borrelli, il figlio di Di Pietro, e ufficialoni dei Carabinieri, in tenuta di gala, con signore.

Milano ascolta tutti, anche la ministra Cancellieri. Come già la moglie di Fazio. È dunque Milano la Spectre d’Italia, il Grande Orecchio. Ma ci sente bene?

Si ascolta a Roma l’“Oneghin” di Puškin, alle serate di Valerio Magrelli, presentato da Antonella D’Amelia, letto da Patrizia Zappa Mulas.  Che Nabokov dichiara, in ben tre libri, capolavoro assoluto, di lievità intraducibile. Scritto dal giovane Puškin dopo aver letto Parini, e anche Manzoni poeta. Ma Parini, non era milanese?

Non scherza mai nessuno sui milanesi. Nemmeno i comici, che sono tutti milanesi. C’è un motivo?


Massimo Bray, ministro dei Beni Culturali, va a Milano, scrive il “Corriere della sera”, e ricorda alla Scala “di essere largamente il maggiore «azionista» del teatro (nel 2012 ha erogato 30.748.000 euro, più 475.000 per ogni tournée, e 6.610.000 in straordinari) e di essere sempre intervenuto (anche in questi giorni, con due milioni e mezzo del Cipe) per ripianare il rosso e ottenere il pareggio di bilancio”. Per una stagione mediocre: la musica non interessa a Milano, i soldi sì.

leuzzi@antiit.eu

Don Francesco, il cavaliere di Cristo

“L’ottica tutta vassallatica” del linguaggio di Francesco è dura da ingoiare ma nella preparazione del “santo” è indubbia: il Poverello di Assisi a lungo resta imbevuto di romanzi cavallereschi,di nobili cavalieri e principesse. Fino alla prova del fuoco, cui sfida il sultano d’Egitto Mālik Kāmil. Cavaliere è colui che si annulla nell’impresa, a maggior gloria di Madonna Povertà, del Re dei Cieli. Fino a rifare la Passione con le stimmate, Crocifisso deposto. Sempre devoto al suo re, che lo ama e lo protegge – Francesco ne ebbe tre, tre papi benevoli malgrado il suo radicalismo.
È sulla scorta dei romanzi che Francesco si avvia verso la Puglia, a combattere per Gualtieri di Brienne, avviando l’avventura francescana. Parte anche per allontanarsi dalla vita familiare di negoziante di stoffe, e di piccola usura. A Spoleto, alla prima tappa del viaggio, si scopre già stanco, torna indietro, e riprende la solita vita, di scherzi e banchetti. Ma il rovello s’è già installato, che ne muterà i sogni di grandezza. Tutti sognano, del resto, nell’esperienza francescana: Francesco, i vescovi, i papi. Sogni decisivi. E usano per decidere le sortes apostolorum, così come ogni cavaliere decide per “segni”: l’apertura a caso dei vangeli, da cui trarre “a caso”, dove l’occhio si posi per prima, i precetti da seguire. “Francesco pensava con le sequenze del sogno, dove in  un attimo si congiungono tempi e luoghi; non calcolava secondo ritmi umani”. Una storia fin qui non eccezionale - come quella del papa: papa Francesco ha avuto anch’egli la vocazione tarda, sui 25 anni, e come il santo si fa sensibile e giulivo, non promuovendo rivoluzioni ma testimoniando la fede. Ma sì se si riflette che la “storia francescana”, leggendaria, rivoluzionaria e duratura, è durata vent’anni, non di più: il vero miracolo è questo.
Sogni e chansons de geste: è il pregio di questa ricostruzione di Chiara Frugoni, allieva del padre Arsenio, lo studioso del sulfureo Arnaldo da Brescia. Che sa dirla breve e persuasiva. Arricchita, oltre che da tutta la letteratura del tempo, di cui Francesco era avido consumatore, dall’iconologia - miniature, rilievi, affreschi - che la studiosa padroneggia come le parole. Emula in questo di dame Frances Yates, pioniera delle immagini come fonti storiche. Anche “il prodigio della predica agli uccelli” spiega che era in qualche modo già scritto. Il “Cantico delle  creature” naturalmente no, quello è un unicum. Ma, insomma, anche i santi hanno una storia. In aggiunta alle “fonti” formative di san Francesco, molto conta anche il modo, anzi i vari modi, come la sua brevissima e pienissima biografia fu gestita dopo la morte: si può essere santi per molteplici aspetti.
Il Poverello di Assisi non fu prete né monaco. Fu un cavaliere della parola, con le armi della povertà volontaria: “Per Francesco il luogo della vita religiosa è il libero spazio da percorrere in un perpetuo cammino”. Un cammino di liberazione: “La povertà volontaria è libertà fisica – costringe a camminare e camminare – ma soprattutto libertà mentale”. Voglia e capacità di osare. Tutto è andato per il meglio, ma i suoi vent’anni di apostolato sono da don Chisciotte, niente in lui è meno visionario, nella gioia creativa invece che nella malinconia.
Parlando il francese, fosse o non di madre francese, Francesco crebbe con i cavalieri della Tavola Rotonda e la poesia cortese. Fino al punto da derivare il nome come soprannome: “Può darsi che il sopranome sia stato dato a Francesco già grande per l’entusiasmo con cui leggeva, in quei tempi necessariamente in francese, le «canzoni di gesta», i romanzi di Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda”. Le sue gesta e anche il suo linguaggio ne risentiranno: tracciarne le fonti recondite è un’altra avventura, nella già eccezionale avventura del Poverello. È una tela di fondo che troppo spesso si trascura. Prima che di don Chisciotte sarà quella di una altro santo vicino a papa Francesco, sant’Ignazio di Loyola, che ne dà lui stesso certificazione nell’autobiografia che dettò, il “Racconto del Pellegrino” - Ignazio che “si convertì” cogitando: “Cosa avverrebbe, se io facessi ciò che ha fatto san Francesco e ciò che ha fatto san Domenico?”
Non è la sola novità. Molto nella vicenda di Francesco contano i sogni, le visioni dei sogni. Dei sogni da intendere come “residui diurni”, delle letture le fantasie che le accompagnano. Dei sogni che informano una vita, tante vite, anche potenti. Negli esiti più inattesi, tragici, rivoluzionari – senza mai menzionare Freud, privilegio da medievista. 
Chiara Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi

venerdì 8 novembre 2013

Secondi pensieri - 155

zeulig

Ateismo - Molto è teismo.
Molto è anticlericale. Ma, anche qui, concorrenziale: per una propria ritualità – il sacerdote si vuole esclusivo. In forma di Ersatz, ripete del clericalismo rituali (formule, vestimenti), templi, e perfino le gerarchie, solo li nomina diversamente.

Chioma – La cantante lirica e performer canadese Barbara Hannigan ci fa la musica. A Santa Cecilia è la sua chioma, porta da lei di spalle mentre dirige l’orchestra, che soggioga lo spettatore. Lunga, morbida, mielata, ondulata, sua è la direzione d’orchestra e la musica stessa: sono della le armonie, i tempi, gli stacchi, le modulazioni, in breve le sonorità e la stesa gestualità del’esecuzione. Una chioma, senza l’immagine di un viso cui riferirla. lo spettacolo, anche se senza nessun  viso. La traccia permanendo quando la performer si trasforma in soprano, facendo aggio sul viso attraente. E ancora dopo sul corpo da silfide, essendo la soprano anche danseuse. Quindi non per un fatto estetico-feticista: la chioma è tutto lo spettacolo – tutto quanto c’è da vedere, ascoltare, patire.

Per il 129.mo anniversario della nascita di Hermann Rorschach, google propone una figura che ha tutta l’aria di essere una chioma, fluente, vista da dietro. È la chioma, la forma, in armonia col tempo, fluido, “liquido”?

Abol Hassan Bani Sadr, il primo presidente della repubblica islamica dell’Iran alla caduta dello scià, occupava uno spazio pomeridiano festivo alla tv di Teheran nell’autunno del 1980, mentre una guerra sanguinosa l’Iran combatteva con l’Iraq, con una dotta lezione sulla chioma. In particolare  sulla chioma femminile. Non possedendo il farsì, la sua argomentazione resta incognita. Ma fu prolissa: dopo ancora un paio d’ore la sua lezione non era terminata, giusto le sonorità e il ritmo sembravano allentati. Qualcuno disse che ne “faceva la teologia”: la chioma in rapporto al “Corano”, all’etica, all’estetica
Bani Sadr era – è – un economista. Un laico. Conosciuto a Parigi durante l’esilio prima della rivoluzione khomeinista del 1978. Da laico operava alla presidenza, cui si poteva accedere informalmente per i trascorsi, per una conversazione, aspettando in anticamera un momento di disimpegno – fino alla sera in cui una giornalista del “Nouvel Observateur” fece una scenata, che solo lei poteva stare lì, che lei era in attesa di un’intervista esclusiva, che lei l’aveva concordata, un isterismo che chiuse tutte le porte. L’anticamera era affollata di postulanti, quasi tutti con una supplica arrotolata in mano, che chiedevano venisse consegnata al “nuovo scià”. Bani Sadr non parlò mai di teologia, e anzi rifuggiva anche i temi politici, solo si occupava di come far funzionare l’ingranaggio dello Stato. Ma sulla chioma evidentemente faceva eccezione.

Ma sulla chioma nei testi sacri non c’è molto di qualificativo o prescrittivo, a parte la registrazione di fatti storici. Né nei padri della chiesa, che pure hanno imposto la tonsura ai preti, e alle monache il sacrificio anzitutto della chioma – perfino san Francesco, così tollerante, quando santa Chiara giovinetta fugge da case per rifugiarsi da lui alla Porziuncola, per prima cosa le taglia la chioma. Né è prescrittivo il “Corano”, anche se i suoi sacerdoti e i più devoti sono barbuti. Né c’è una filosofia della chioma – non c’è un pensiero delle parti e delle funzioni del corpo.

Creazione – Il pensiero è di un personaggio voltairiano, Micromegas, il gigante smarritosi nell’universo e finito per caso sulla terra. I filosofi della terra che lo intrattengano ne suscitano incontenibile l’ilarità quando sostengono che l’universo è stato creato per l’uomo. Non un eccesso satirico.

Dialogo – Dopo quello conciliare con i fratelli separati e con le relgioni monoteiste, quello avviato dai due papi conviventi con i non credenti è una riedizione della vecchia quaestio della “salvezza impossibile”. Di dopo la scoperta dell’America, ma anche di prima, del tardo Medio Evo: come può evitare la condanna eterna chi non è mai venuto in contatto col verbo di Cristo? Se non che i non credenti non sono “selvaggi” (infanti, ignoranti, innocenti), ma ben sofistici. Più dei preti ai quali si contrappongono.
Chiara Frugoni sa di molte carte geografiche medievali e di qualche portale di chiesa in Francia che risolvono la questione con una abbraccio del Cristo a tutto il disco della terra, senza distinzione di cristiani e non. Sembra questa la visione cui i papi Francesco e Benedetto si attengono. Ma l’ateismo è ben emerso a questo punto, nella terra tonda e al di sopra di essa: non è ignoranza del verbo, è rifiuto.

Femminismo – In tutte le sue forme politiche, eccetto quella minima della parità dei diritti, è un  rifiuto e un’amputazione. Di una tradizione e di uno sviluppo (futuro). Di una mitologia, una poesia, una filosofia anche. In quella millettiana della castrazione. E in quella butleriana dell’indistinto. L’uniformità contro la diversità, la recinzione contro il potenziale, l’ideologia contro il reale.
L’idea butleriana di una sessualità indistinta biologicamente, solo storica, non è biologica, non è sociologica, non è funzionale, e nemmeno comportamentale. È “una bella pensata” - nemmeno progressista, quale Judith Butler si vuole in ogni spazio politico, in Medio Oriente, e negli Usa. Originale, ma come tutto ciò che è impensabile.

Social network – La Borsa distingue fra twitter (comunicazione), che premia, e facebook (esibizione), che punisce.

Sono l’individualismo impoverito – la Bomba a uranio impoverito della comunicazione. Un pubblico (privato: pubblico in senso inglese) palcoscenico. Piccolo, per quanto vasto o illimitato. Minuto anche. Lo riproduce in tutto, anche nella gigioneria come incapacità. Non volontà di comunicare – di spendersi, perdersi. Dell’esibizione immunitaria, un virus personale antivirus sociale - comprensione, compassione, condivisione.

L’incapacità di interagire, e anche di comunicare, della generazione dei social network. Esibizioni e grugniti, di insicuri determinatissimi – mai uno sguardo a lato, in alto, di fronte. E se lo si incrocia più spesso è vuoto.

Suicidio – Il come è vario. Pomponio Attico, l’amico di Cicerone, si lasciò morire di fame. Silio Italico pure, il romano più ricco dei tempi di Nerone e Domiziano, nonché prolisso poeta d’Annibale, ma aveva settantacinque anni. Gruppi di cristiani praticarono il suicidio per digiuno, le endura. Ma è arduo: Beethoven, che avviò l’endura in una grotta in giardino, al terzo giorno fu scoperto. Proust la troncò prima, al pensiero che con lui si spegneva il ricordo della madre. Coma, nel carcere mamertino, si uccise trattenendo il fiato, Porcia, figlia di Catone, mangiando ceneri accese, Aiace Telamonio con la spada ricevuta dal nemico Ettore. Jack London, l’autore di Martin Eden che si buttò dall’oblò, si fece venire una colica renale.

Con Plinio, Seneca attesta essere “il maggiore dei doni di Dio all’Uomo quello di distruggersi quando gli piace: Dio stesso non lo può”. Ma non sempre si riesce: “Vivere nolunt, mori nesciunt”, c’è chi non vuol  vivere ma non sa morire, nota lo stesso Seneca. Maupassant, l’autore di “Ivette e tre suicidi autentici”, si scannò e dissanguò ma sopravvisse per due anni a quattro zampe – “monsieur de Maupassant va s’animaliser”, notavano i medici per il futuro Kafka. Montherlant, meticoloso, s’è sparato con la pistola dopo aver ingerito il cianuro. Lucrezio s’avvelenò prima d’impiccarsi, Caroline Günderode prima di gettarsi nel Reno si pugnalò.

zeulig@antiit.eu

Problemi di base - 158

spock

Amico Esposito, nemico Berlusconi?

Per Cancellieri era meglio segreto?

Perché Renzi ci fa accusare da Serra, prima ancora di avere preso il potere?

Il finanziere Davide Serra che ci accusa, noi italiani insolenti e insolventi, e un po’ ladri, lui non ha rubato niente?

Perché la sinistra, in Italia, è di destra?

Una destra meno stupida, in Italia, che farebbe?

Greco e De Pasquale dopo Borrelli e Boccassini, che Milano è?

Tutti napoletani a Milano, e Milano?

spock@antiit.eu

La verità è bugiarda

Un aureo libretto, oggi più di attualità di venticinque anni fa, quando Salvatore S. Nigro lo propose. Una miniera, tanto spregiudicata da riuscire ammirevole.
L’aurea compilation di Salvatore S. Nigro riporta la “Descriptio silentii” di Celio Calcagnini, umanista, “La scienza nuova” di Celio Malespini, falsario, specialista di falsi cifrari, e plagiario, “L’apologia della menzogna” di Giuseppe Battista, accademico, e “Un vocabolario per la menzogna” del filosofo Pio Rossi. Ma non per ridere.
Un filone di cultura, molto italico. Calcagnini, l’umanista cui si deve il titolo, e Malespini, falsario di professione e plagiario, sono Cinquecento, il gran secolo dell’Italia, Battista e Rossi puro Seicento, lo svilimento dell’ingegnosità, nel parlare ornato, seppure insignificante, che molto si vanta di saper dire il contrario di tutto, anche fuori di questa modesta antologia, ma non  senza residui. Alberico, giurista internazionalista tuttora di reputazione, marchigiano, professore di diritto romano a Oxford, amico di Giordano Bruno, aveva aperto il secolo con un “De abusu mendaciii”, il vero e il falso prospettando come apocrifi, effetto di reciproca speculazione. L’idea è venuta a Nigro da Oscar Wilde naturalmente, la “Decadenza della menzogna”, ma non per celia.
C’è un che di irresistibile nelle argomentazioni, dietro il sofisma o il cinismo. La verità è madre dell’odio, può asserire non senza verità il canonico Battista, poeta, accademico degli Oziosi a Napoli, di origini pugliesi – come Torquato Accetto, il teorico principe della dissimulazione, già restaurato da Benedetto Croce. E non sono “falsi” tutti gli effetti dell’arte, la prospettiva, la retorica, la pittura (“bugie di colori”), la poesia. Cioè tutto – lo dice anche Platone, si difende Battista, “Repubblica”, 3: “La menzogna non si addice agli dei, ma agli uomini è utile, anzi necessaria; a tal punto che ce ne serviamo come medicamento”. Precetto di cui il repertorio di Pio Rossi, “Un vocabolario per la menzogna”, autore dimenticato, spiega tutto. Da “Accusare” a “Uomo prudente”, la verità non è della parola? Cioè di un fiato. Il verosimile inganna. La verità non è che una, le bugie molte. O, tradotto da Seneca, “Lettere a Lucilio”, II, 16, 9: “Nessun limite è al falso, un qualche limite è alla verità”.. 
“Chi vuol accusare gli altri”, ha detto Rossi in apertura, “deve prima esser egli stesso puro e innocente”. La compilazione si apre col primo dei quattro trattatelli dell’“Elogio della menzogna”, una “Descrizione del silenzio”.  Rossi conclude: “Il pazzo, tacendo, è reputato savio”.
Celio Calcagnini, Celio Malespini, Giuseppe Battista, Pio Rossi, Elogio della menzogna



giovedì 7 novembre 2013

Ruby ce ne aveva liberati ma rieccolo, il fascismo

Era un po’ di tempo che non se ne sentiva parlare, Ruby ce ne aveva liberato. Sembrava finito e invece è bastato un accenno agli ebrei sotto Hitler èd è subito riemerso: il fascismo. Di cui non si sa se Berlusconi è portatore o profittatore (dell’abominio del fascismo), ma insomma, rieccolo.
Giacomo Noventa immagina, “Caffè Greco”, intellettuali e politici riuniti al Caffè Greco a Roma per votare “ill primo articolo dello Statuto della nascente Confederazione italiana”. Immaginava, nel 1946: “A decorrere dal 1° gennaio dell’anno Duemila, nessun uomo o partito politico o movimento affine potrà dichiararsi irresponsabile dei propri errori” – il tesseramento del Pd per esempio - “né pretendere a una diminuzione del biasimo pubblico, allegando che c’è stato il fascismo”.
Non sta bene evocare nella Seconda Repubblica, o è la Terza?, un socialista. Per giunta saragattiano. Ma sono passati già tredici anni dal Duemila. E dal 1946, cosa è cambiato?
Si capisce la voglia di scandalo, ma il fascismo? Qui oggi “si allega” non che c’è stato, ma che c’è il fascismo.
Veramente vogliamo fare di Mussolini il metro e il termometro della storia italiana e delle nostre modeste vite?
E perché impoverire la retorica? Berlusconi è più abile. Altroché!

L’asse Firenze-Perugia, dell’insabbiamento coperto

Colpo di teatro al processo – si stava per scrivere al festival – di Firenze sul delitto di Perugia. Cioè no, si sapeva: è stato scritto, si vede. Il processo fiorentino per l’assassinio di Meredith Kercher aveva e ha tutta l’aria di essere una riedizione del Mostro di Firenze. A ruoli invertiti con Perugia: nel caso del Mostro fu la corte umbra ad assicurare a Firenze l’impenetrabilità. I giudici non sono gli stessi, ma le ombre sì. I cronisti invece, molti di loro, sono sempre gli stessi, pronti a rimestare.
Perché la vicenda non è semplice. Dell’assassinio di Meredith Kercher. È mancata l’harakiri della vittima, e ora la cosa non si può decidere. Firenze è il luogo dove i ventuno morti dei plurimi omicidi di perversione sessuale furono addebitati a tre mentecatti, Vanni, Lotti e Pacciani. Mai la tracotanza della giustizia fu tanto spudorata. Perugia interinò l’insabbiamento spudorato. I ruoli sono ora invertiti, e Firenze è deputata a ricambiare il favore. Per obbedienze, è da supporre, convergenti.

Chi ha ucciso Meredith Kercher? Meglio nessuno

Il rinvio del delitto Kercher a Firenze ha confermato che niente è come appare nella giustizia. La Cassazione, che non poteva entrare nel merito, ha invece dato un colpo di maglio a ogni esito. Non per altro, per aver scagionato, cosa che non poteva, Sollecito. Negando ogni validità all’ipotesi del gioco erotico.
C’erano pochi dubbi su questo esito: la famiglia Sollecito ha i suoi santi, benché non scoperti, e l’avvocatessa Bongiorno, discepola di Fini, pure. La sentenza della Cassazione era scritta. C’è un problema residuo: qui non ci sono balordi su cui depistare il tutto. Si è tentato con un paio di “negri”, è stato un fallimento. Non è però un vero problema: il delitto può restare insoluto, i Meredith sono dei poveretti.
Il processo si è peraltro già chiuso all’apertura. Il ragazzo Sollecito, che un anno fa già festeggiava in America, ai festival, su facebook e con Amanda, si è potuto presentare come vittima incontestata. Sempre un anno fa ancora indulgeva in intemperanze: accusò in un libro, “Honour Bound”, i carabinieri e i giudici di maltrattamenti. Ma nulla d’irreparabile, l’avvocatessa Bongiorno ha impedito che il libro si traducesse, e il processo è subito entrato nel binario concertato.

Il miracolo della lingua

Un esercizio di virtuosismo impressionate. Un’arbasineide più concreta, il racconto “sull’unghia”, da social scientist – dieci anni fa sulla “mucca pazza”. Per di più opera di una tarda italianizzata: Helena Janeczek, dice la biografia, nata a Monaco di Baviera da genitori ebrei polacchi, e venuta a vivere in Italia all’età di diciotto anni, ha esordito in tedesco. La raccolta di poesie “Ins Freie” è del 1989, editore il super Suhrkamp. Di soli otto anni dopo è il romanzo italiano “Lezioni di tenebra”, premio Bagutta. Più che della mucca pazza, questo è un racconto della lingua, un suo trionfo.
Il fatto c’è, e anche semplice benché drammatico: “Buona parte dei morti accertati a causa del morbo della mucca pazza (sono) abitanti del Nord (inglese) depresso e della Scozia rurale, gente alimentata a basso costo e in modo sbrigativo con i prodotti ricavati dalla carne riprocessata, avanzi ricavati dalle carcasse scarnificate con potenti getti d’acqua che li contaminano con gli schizzi di midollo dorsale”. Non senza malizia, la triforcuta Helena sa bene che la mucca pazza è stata succeduta dalla peste aviaria, suina, etc. . Oppure ancora no quando lei ne scriveva, ma sa che ci sono le mafie – si sa come vanno queste cose tra monopoli, che si bastonano senza colpa, facendo aggio sulla credulità. E non senza senso pratico, da viziosa del wiener Schnitzel, la cotoletta.
Anche la storia esemplare che utilizza a traccia della dannazione, di Clare Tompkins, una ragazza che muore a ventiquattro anni dopo sofferenze infami, benché fosse vegetariana dall’età di undici, è semplice. È una storia di ordinaria incapacità medica, che non sa diagnosticare il morbo di cui parla in continuazione. Janeczek ne fa l’allucinazione di un’allucinazione – una moltiplicazione della lingua. 
Helena Janeczek, Bloody cow, il Saggiatore, pp. 58 € 10

Fisco, appalti, abusi (39)

Sfrecciano i pullman turiristici e Roma con gli autisti estasiati al cellulare: guidano con una mano. Anche alcuni autobus di servizio pubblico. Sotto gli occhi impassibili dei vigili urbani.
I vigili peraltro rivendicano, a Radio 1, il diritto a parlare al cellulare in macchina, e anche in moto.

Canoni e tariffe nei mercati liberalizzati, energia (gas, elettricità), telefoni, assicurazioni, sono aumenti e sono sopra la media europea. Questo evidenziano le tabelle dell’Istat. Anche senza maggiorare le tariffe medie del costo generale - come pure si dovrebbe, poiché è sempre a carico dell’utente-contribuente - della tante Autorità di settore che dovrebbero vigilare sugli abusi: circa due miliardi l’anno. Un costo che non c’era prima della liberalizzazione.

“Voce Arancio. Idee per risparmiare”, sito della banca online di Ing, dà una serie di indicazioni semplici e precise di come fare la raccolta differenziata dei rifiuti, per ogni oggetto o rifiuto di uso quotidiano. Corredate da brevi spiegazione tecnico-scientifiche utili a fissare la memorizzazione. Dunque, si può fare.
La differenziata non è semplice, ma nessuna campagna pubblicitaria, e nessuna azienda municipale, spiegao come va fatta.

Soltanto a Roma, nel solo 2012, spiega “Voce Arancio”, sono state elevate 5.166 multe da € 100 l’una per la cattiva differenziazione dei rifiuti. Si fa la differenziata come pretesto a multe?

In mancanza dell’Imu, i Comuni anticipano e aumentato l’addizionale Irpef. Che essendo progressiva si suppone più equa. Mentre i patrimoni – la ricchezza - sono fuori Irpef. La progressività è un falso scopo, per il bieco obiettivo di fare cassa.

mercoledì 6 novembre 2013

Il Btp Italia di Baffi, e l’euro flessibile

Una congrua riproposta di Paolo Baffi, governatore intemerato della Banca d’Italia, per ristabilire la dignità della Funzione Pubblica – caduta purtroppo, almeno finora, nel vuoto. Con un suo ritratto di Sandro Gerbi, e un saggio di Beniamino Andrea Picone, i due curatori ne hanno collazionato le quattro “Considerazioni finali” sullo stato della finanza pubblica, un’analisi che la Banca d’Italia effettua ogni anno a fine maggio, e le note di diario sulla vicenda giudiziaria di cui fu vittima - titolate “Cronaca breve di una vicenda giudiziaria” alla prima anticipazione, da parte di Massimo Riva, su “Panorama” nel 1983, e poi riprese integralmente nel 1990.
Il personaggio era, benché scostante all’apparenza, accattivante. Già a capo dell’ufficio Studi nel 1944, a suo agio con la pubblicistica e gli interlocutori anglo-americani, di ottimo fiuto nelle questioni monetarie, Einaudi lo scelse a suo interlocutore nei tre anni che passò al vertice della Banca d’Italia, fino al 1948. Fece carriera con gli anni fino a diventare il direttore generale di Carli. E alle dimissioni di Carli, a Ferragosto del 1975, fu scelto dal governo come governatore. Il primo dirigente della Banca d’Italia chiamato a quell’incarico. Fortemente voluto da Ugo La Malfa, che lo impose al presidente del consiglio Moro. Con l’appoggio del Pci, i cui economisti, Eugenio Peggio e Luciano Barca, ne apprezzavano lo spirito indipendente.
Baffi fu governatore negli anni forse più bui della storia non limpida della Repubblica, fino al Ferragosto del 1979. Anni che Tomaso Padoa Schioppa, uno dei suoi collaboratori, metterà tra “i più duri e disgraziati” della storia della Repubblica: inflazione, caro-petrolio, punto unico di contingenza (“salario indipendente”), terrorismo, delitti oscuri, la “messa a morte di Aldo Moro” compresa. Avrebbe potuto aggiungere le riserve vuote di valuta: Carli lasciò per questo e Baffi, in uno dei suoi primi provvedimenti, dovette sospendere per quaranta giorni il cambio – per riaprirlo lievemente svalutato. Ma soprattutto avrebbe dovuto aggiungere Andreotti, perché di questo si tratta: era l’Italia di Andreotti, al coperto del compromesso storico con Berlinguer.
Gerbi rappresenta lo schivo Baffi, nel ritratto con cui apre la raccolta, alla camera ardente di Ugo Baduel, giornalista economico dell’“Unità” intimo di Berlinguer. Nonché corrispondente perfino affettuoso dello  stesso Berlinguer in almeno un caso, in risposta alla lettera di solidarietà che il leader del Pci gli aveva inviato. Ma non era Berlinguer il sostegno di Andreotti? Che di Baffi e della banca d’Italia aveva ordinato e effettuato un inarrestabile impeachment.  Con l’accusa di favoreggiamento e interesse privato, a marzo del 1979, e la carcerazione del suo vice-direttore generale Mario Sarcinelli. Disposte da un giudice naturalmente, anzi da due, Alibrandi e Infelisi. Ma volute da Andreotti. Per un fatto preciso, anzi per due: il rifiuto di avallare il compromesso al ribasso per il rientro dei debiti dei Caltagirone con l’Italcasse, e il no opposto al “piano Sindona” dell’allora presidente del consiglio.
La “Cronaca breve” è al riguardo, nello stile tacitiano di cui Baffi si compiace, molto esplicita. La disgrazia sopravenne dopo che lo stesso Baffi fu convocato con Sarcinelli da Stammati, banchiere, all’epoca andreottiano ministro del Tesoro, per avallare un piano favorevole ai Caltagirone. E dopo che Franco Evangelisti, sottosegretario alla presidenza e segretario politico di Andreotti, convocò a palazzo Chigi Sarcinelli per imporgli il salvataggio di Sindona. Le pressioni sui debiti dei Caltagirone risultano numerose nella breve cronaca.
Cambi flessibili
Resta da esplorare l’azione di Baffi a protezione della lira e del risparmio. Gerbi accenna alla sua idea di un titolo del Tesoro a rendimento garantito contro l’inflazione. È la formula grosso modo del Btp Italia, che sta aiutando non poco a consolidare lo sconsiderato debito pubblico. Più importante, forse risolutivo, sarebbe stato il suo governo dell’euro che allora si tentava di costruire.
I primi dubbi erano nati in Italia sullo Sme, il progenitore dell’euro, il Sistema monetario europeo. I “cambi fissi ma variabili” dello Sme facevano impazzire Baffi, fautore dei cambi flessibili, per sterilizzare l’effetto monetario, l’impatto del cambio sull’inflazione. Il suo predecessore Carli, della generazione dei cambi fissi, era del resto rimasto a corto di riserve, di dollari e anche di oro, avendo dovuto darlo in pegno alla Bundesbank per un prestito. Ciampi, che presto sostituì Baffi, invece ne fu convinto sostenitore, al punto da rivalutare la lira sul marco. Il bluff fu sgonfiato dallo speculatore Soros nel 1992, ma l’aggancio della lira al marco fu ripetuto. Al punto da accettare, per superare l’avversione della Bundesbank, un euro a due marchi.
Il ragionamento di Baffi è stato riproposto ultimamente invece in Germania. Seppure in un libro “provocatorio”, “L’Europa non ha bisogno dell’euro”, e da parte di un eterodosso quale Thilo Sarrazin, ex consigliere Bce e europeista. “Non possiamo costringere i francesi a sostenere il nostro modo d’intendere l’economia”, l’argomento di Sarrazin è semplice: “La ragione economica ci dice che sarebbe meglio tornare a un sistema integrato ma con tassi di cambio variabili”.
Ma, soprattutto, da Baffi resta ancora da trarre il ristabilimento dell’etica politica. Forse veleno in queste epoca di estrema decadenza delle istituzioni e della funzione pubblica. Nonché della capacità di analisi e di proposta. Esito di acume e di applicazione.
Paolo Baffi (a cura di S.Gerbi, B.A.Picone), Parola di governatore, Aragno, pp. 290 € 25

Il deserto politico

Un piccolo ma non insignificante passaggio nel diario politico di quindici anni fa:
“D’Alema lascia il partito a Veltroni senza una spiegazione, una sola. E senza una critica. Una sola.
“Di organi rappresentativi del partito non si parla nemmeno. Un partito di 10-12 milioni di voti.
“Non è che non ci sia spazio, nella transizione, per la politica. Che il posto della politica sia stato preso da affaristi e dagli uomini senza volto. È che la politica non c’è, non ha alcun soffio.  Negli stessi partiti tradizionali prevalgono i regolamenti fra sodali, senza idee, senza proposte, in un piccolo cabotaggio del (vuoto di) potere.
“Che non ci sia stata una domanda, un commento, un’irrisione, un gesto inconsulto nella vicenda, fa capire di più, che non c’è più un humus per la politica. L’Italia come deserto per la politica.”

La politica dei santini

Un ulteriore piccolo non insignificante passaggio nel diario politico di quindici anni fa:
“La spregiudicatezza di Veltroni, che, neo segretario dell’ex Pci, fa omaggio nella stessa giornata a Bobbio, alla  Einaudi (di Berlusconi), ai caduti di Marzabotto, a don Dossetti, e a Occhetto, è troppo: impossibile riderne. È un canovaccio di ipocrisia che ogni Molière contemporaneo, anche non piccolo, un Dario Fo per esempio, troverebbe di cattivo gusto appioppare al suo Tartufo.
“Pero: nemmeno una critichina! Anche solo dal punto di vista formale: di uno che, confrontato a una responsabilità, si riempie di santini. Il capo del maggiore partito, forse, italiano come un qualsiasi calciatore all’entrata in campo, che si tocca, si fa la croce, tocca terra, dice gli scongiuri. Uno che aveva detto che nel partito di Togliatti lui non sarebbe stato comunista.
“In tanta ipocrisia, il fatto che abbia evitato qualsiasi santino socialista, perfino Gramsci, è un riconoscimento?” 

martedì 5 novembre 2013

Letture - 152

letterautore

Best-seller – Il miglior romanzo italiano fu scritto in omaggio al mercato, alla voga del romanzo storico dopo il successo strepitoso di Walter Scott. Anche gli editori di Gadda si ponevano il problema di pubblicare, o non pubblicare, i suoi racconti e romanzi con un occhio al mercato: la novella borghese, il romanzone familiare, il giallo.
Chopin – Il Leopardi della musica? O della “nobiltà della convenzione”. Sono le due ipotesi di Nietzsche “Umano, tropo umano”, IV, 33. Di cui non si fa caso, forse perché è il Nietzsche antiwagneriano, ma che di Chopin dà coordinate ineccepibili: “L’ultimo di musicisti moderni, che ha guardato e adorato la bellezza, come Leopardi, il polacco Chopin, l’inimitabile – tutti quelli venuti prima e dopo di lui non hanno nessun diritto a quell’epiteto: Chopin a ebbe la stessa principesca nobiltà della convenzione che Raffaello mostra nell’uso dei colori più tradizionali e semplici – ma non in relazione ai colori, bensì alle tradizioni melodiche e ritmiche. Queste egli lasciò sussistere, come nato nell’etichetta, ma giocando, sonando e danzando in queste catene come lo spirito più libero e leggiadro – ossia senza dileggiarle”.
Dante – Charles Dantzig ha (“Le Magazine Littéraire” di ottobre) il “moralismo sfrenato” di Dante. A Dante oppone Fellini, lo spirito corrosivo verso le istituzioni, compresa la religiosità: “«Viaggio di G.Mastorna. La sceneggiatura» è la migliore critica letteraria mai scritta su Dante”. Ma Fellini è Dante. Ben più dantesco che Piranesi con cui la “Commedia” più spesso s’illustra, “La dolce vita” è  l’“Inferno”. Anche Dante è corrosivo, della religiosità compresa.
Enciclopedia – Il progetto iniziale è di Ephraim Chambers, “Cyclopaedia or an universal History of Arts and Sciences”, 1728. Con una cinquantina di discipline, e numerosi romandi interni di una voce all’altra. La sua enciclopedia, ripubblicata nel 1738 in due volumi, per complessive 2.466 pagine in folio, ebbe successivamente altre cinque edizioni, fino al 1749. Anno in cui risulta tradotta e stampata a Venezia, in nove volumi. D’Alembert e Diderot presero l’idea da Chambers, quando il tentativo di tradurre la “Cyclopedia” in francese nel 1744 naufragò.

Italiano – Si fa gran caso dell’italiano escluso qui e là, a Bruxelles o al Politecnico di Milano. Mentre è già escluso dall’opera, che non è se non italiana. Da una dozzina d’anni ormai i libretti d’opera e illustrativi che accompagnano i cd e i dvd, per esempio quelli della Decca per Cecilia Bartoli,  hanno eliminato l’italiano. Le note introduttive si possono leggere solo in inglese, francese e tedesco, nell’ordine. I libretti mantengono l’italiano, che è usualmente la lingua originaria dei libretti stessi, ma in seconda posizione: aprendo si ha subito il tedesco. Non che l’opera si venda di più in tedesco, si vende meglio negli Usa e in Gran Bretagna, ma forse il tedesco è più autorevole.
Il bellissimo saggio sulla “Norma” di Cecilia Bartoli, che accompagna la riedizione dell’opera, cantata dalla stessa Bartoli, non è quindi fruibile per un lettore italiano.
D’altra parte la Decca è produttrice praticamente unica di bel canto, benché depurato dell’italiano. Ancora per poco?

Helga Schneider, Ornela Vorpsi, Helena Janeczek, che rappresenterà l’Italia fra due settimane a Cognac, al festival Littératures Européennes, Amara Lakhous, Younis Tawfik, Talye Selasi, Helene Paraskeva, Christiana de Caldars Brito, e numerosi altri scrittori, soprattutto del Nord Africa e dell’Est Europa, hanno scelto, come già Edith Bruck,  l’italiano da immigrati. L’italiano non è una lingua dunque impossibile, ed è un mercato appetibile. Di più antitaliano è l’italiano, intellettuale, scrittore.
Helena Janeczeck l’ha scelto dopo il tedesco – in una relativa indifferenza, avendo maturato in venti anni tre diverse “lingue”, col polacco o Yiddisch di origine, ma lo maneggia con straordinario virtuosismo.

Metastasio, che Alfieri bolla frequente nella “genuflessioncella di rito” all’imperatrice, l’austriaca cattiva Maria Teresa, fu cinquant’anni e passa a Vienna senza impararvi il tedesco. Non ne ebbe bisogno.

Kafka – Anche Zanzotto ha Kafka ebraico. Del “Castello” dice (“Tra viaggio e fantasia”, ora in “Memorie e luoghi”, ricordando una sua conferenza del 1952 a Pordenone): “Una sorta di derisoria parafrasi della Bibbia”. In questo caso pianamente riduttivo (nel mentre che, forse, vuole farne l’elogio): “Il Castello” è di più, o no?

Leopardi – È filosofo, senza riserve, nella lettura che si fa ora in lingua inglese, a Londra e negli usa, dello “Zibaldone” tradotto integralmente. Era la lettura che se ne fece subito Oltralpe, da Schopenhauer, e poi da Nietzsche. Sull’opera poetica stessa di Leopardi, prima che sui saggi filologici e su qualche sparsa traduzione dei “Pensieri” - sparsi e tuttavia a loro modo sistematici, come è il proprio di ogni pensiero.
Una lettura mai trapassata in Italia. Ci sono dunque delle sensibilità nazionali. Dei modi di essere e percepire, anche la poesia e il pensiero.
L’entusiasmo anglosassone sarà pure da ricondurre all’impresa editoriale, di due primarie case editrici, Penguin e Farrar, Strauss and Giroux, che devono rientrare dei costi di traduzione e produzione delle 4.500 pagine di sparsi pensieri. Ma gli argomenti dei curatori e dei critici non sono d’occasione. “Una mente che era la quintessenza della modernità”, vuole Leopardi il filosofo politico inglese John Gray sul “New Statesman”, anzi “antropologo della modernità”, essendo autore di “una delle più spietate critiche degli ideali moderni”, della fede nel progresso – con e senza la rivoluzione. O anche: “Quando Leopardi descrive il processo paradossale che dall’aspirazione cristiana alla verità è arrivato a produrre il nichilismo”, questo è (tutto) Nietzsche. O la “necessità” delle illusioni, con la citazione d’obbligo. “Quello che uccideva il mondo”, alla fine dell’impero, “era la mancanza delle illusioni; il Cristianesimo lo salvò non come verità, ma come una nuova illusione”. In grado, si può aggiungere, subito a ridosso dell’illuminismo, di prospettare la barbarie della”ragione”, della ragione trasposta a personale visione del mondo, ma più dell’irresponsabilità connessa alla tecnica e alla “modernità” – e questo è già Heidegger.
Un pensare perfino sistematico, spiega il curatore dell’edizione angloamericana, l’italianista Michael Caesar: “È lo stesso Leopardi in uno dei suoi indici a raggruppare per temi le sue riflessioni, suggerendo dei libri virtuali come il «Manuale di filosofia pratica», o il «Trattato delle passioni»”.

L’edizione angloamericana dello “Zibaldone” mette sulla traccia di Leopardi una serie nutrita di grandi scrittori, fino a Beckett, e compresi Melville, Thomas Hardy, Pessoa, Wallace Stevens.

Russia – Vive l’unico periodo della sua storia in cui non manda i poeti in Siberia. Neanche al manicomio.

letterautore@antiit.eu


Blues a perdere

Una sorpresa totale: in questo giallo non c’è giallo, è un’autofiction. Che però non è un’autofiction: tutto è “rigorosamente” di fantasia, dice l’autore. Ma cosa?
Santo Piazzese, Blues di mezz’autunno, Sellerio, pp. 163 € 12

lunedì 4 novembre 2013

Lavorare per Grillo

Quando non ha nulla in mano, agita l’incriminazione di Napolitano. Per che non si sa, ma fa titolo.
Ma non ne ha bisogno, ogni settimana un titolo nuovo gli viene servito, grazioso, succulento. Una settimana il voto palese, una settimana la Cancellieri, una settimana il finanziamento dei partiti, una settimana l’abolizione della Rai, e poi c’è sempre di riserva, dopo Napolitano, Berlusconi.
La tecnica della guerriglia (il contatto a sorpresa, la ritirata altrettanto fulminea, l’imprevedibilità) è assicurata a Grillo dai suoi avversari. O almeno da quelli che si penserebbero tali: i berlusconiani, i democratici, le banche coi loro giornali – i giudici no, sono con Grillo e si può capirli: hanno lo stesso obiettivo, di chiudere la legislatura, altrimenti a giugno arrivano i referendum sulla giustizia.
È lo stato del Paese, si può dire, Grillo non fa fatica a pescare. E invece no. Si fosse votato subito dopo fine febbraio, si fosse votato di nuovo, Grillo sarebbe stato ridimensionato. In assoluto, come numero di voti, e in percentuale, più elettori di destra e di sinistra sarebbero andati a votare. È stato fatto invece di tutto per consolidarne il suo voto di protesta. Il Pd gli ha pure sacrificato Bersani, affogandolo nel ridicolo – che non era nessuno, era il segretario del Pd stesso.
Anche adesso, non c’è chi non è stanco di Grillo. Se non altro perché non se ne capisce nulla. Ma non si vota, si voterà quando di Grillo non potremo più farne a meno.

Il segreto è palese

Palese e segreto
Fu il voto per Prodi
Il Pd s’è scottato
E fa tutti custodi
Contro le frodi
Dei suoi propri erodi
Per decreto votando.


Sulla ministra orale
Invece è perplesso:
Non è il voto espresso
Incostituzionale?  

Calci nei denti a Orsi, il pm di De Benedetti

Chi vuole male a Luigi (non era Pierluigi?) Orsi? Emanuele Erbetta sicuramente, che si dice “trattato a calci nei denti” dal pm – Orsi è un pm della benemerita Procura di Milano.
Veramente Erbetta non lo dice. Lo dicono per lui alcuni suoi ex colleghi alla Fonsai, la società per la quale Erbetta è nei guai: l’ex uomo azienda Marchionni e l’ex pr Alderisio. I due se lo dicono al telefono, dieci emsi fa, e la telefonata è stata intercettata. Ma non sono le sole stranezze: l’intercettazione viene ora resa pubblica, dalla Guardia di Finanza, attraverso il “Corriere della sera”. E non è finita: Orsi voleva assolutamente da Erbetta che Erbetta tirasse dentro, nella vicenda Fonsai, anche Berlusconi.
Cioè, fin qui nulla di strano: la Procura di Milano sempre ci mette dentro Berlusconi. La pubblicazione della telefonata, se non l’intercettazione, ci poteva essere risparmiata: che notizia è? La notizia è che Orsi dovrà andare a procedimento disciplinare. Oppure potrà non andarci, ma ugualmente ci sarà una “contrattazione” sul suo caso in seno al Csm.
Da parte di chi e perché? Orsi è il pm, “esperto di reati societari”, che chiuse preventivamente – volgarmente: insabbiò - la prima e vera inchiesta sull’affare Sme, quella a carico di Prodi e De Benedetti, per la cessione gratuita, anzi onerosa per l’Iri, del colosso alimentare.

Cancellieri stia attenta, è un “avvertimento”

Nulla dunque di penale a carico di Annamaria Cancellieri. Nulla neanche di eticamente riprovevole – la raccomandazione. E politicamente la vicenda rimane fredda. Perché allora la Procura di Torino fa scandalo, con indiscrezioni e intercettazioni, sula vicenda Cancellieri. Sulla scarcerazione per motivi di salute di Giulia Ligresti? Tanto più che la Ligresti liberata ha subito patteggiato, un anno e un’ammenda.
Due sono le letture che si danno. Una è la messa in mora del ministro della Giustizia, contro ogni progetto o idea di riforma: i giudici non amano i politici di giudizio autonomo. Nel linguaggio mafioso è un “avvertimento”. L’altra lettura lega il ritardato scandalo al fatto che i Ligresti all’improvviso patteggiano, riavutisi dagli arresti, e quindi escono dal processo. Possono cioè dire d’ora in poi quello che vogliono. Le indiscrezioni-intercettazioni sarebbero di ammonimento a usare prudenza, perché altre possono essere in archivio.

Fonsai è la vera “banca” delle cooperative

Fallita l’acquisizione di Bnl, l’“abbiamo una banca” di Fassino sarà stata Fonsai? Fonsai “è la più bella compagnia italiana” di assicurazioni, “Unipol ha fatto un affare, in senso industriale: ha comprato un’azienda che, ristrutturata, è ottima”. Così, una cosa tra le tante, facendo il distratto, Piergiorgio Peluso, il bistrattato “figlio della Cancellieri” (anzi “del farmacista Peluso”, precisano vendicative le didascalie), ristabilisce la verità del caso Fonsai.
I fatti lo confermano: Unipol è diventata la stella di piazza Affari da quando ha rilevato Fonsai. Invece di affossarsi insieme con la stessa Fonsai, svenduta come se fosse già fallita, e come è la prassi per l’acquirente, anche della migliore azienda sul mercato, Unipol ha visto le sue quotazioni partire da subito a razzo. Valeva  25 centesimi a fine 2011, vale 4 euro e 25 centesimi, più o meno, oggi. Fonsai non era fallita ed è stata svenduta: queste sono due verità accertate. Che fosse “destinata” a Unipol è una verità non da cestinare.

Fallimenti e cordate

Non ci sono criteri oggettivi per un fallimento. Si dice che ci sono ma sono soggettivi. Il patrimonio, l’indebitamento, gli attivi, sono tutti valori soggetti a valutazione. Gli stessi indici previsti per legge o per disposizione delle Autorità di sorveglianza sono soggetti a interpretazione. In alcuni casi si applicano, in altri no. Mentre è – dovrebbe essere – interesse dei creditori evitare le insolvenze.
Un “caso Fonsai” molto scoperto è stato il San Raffaele di Milano, l’azienda ospedaliero-universitaria di don Verzé. La maggiore banca creditrice, l’Intesa di Bazoli, si agitò molto per portarla al fallimento – contro ogni suo interesse apparente. Attivando in tal senso la Procura di Milano, con la famosa seconda perizia. Il Procuratore Capo di Milano in persona, Bruti Liberati, ordinò una seconda perizia contabile allo stesso revisore, Deloitte, e Deloitte subito si conformò: i debiti non erano più un miliardo ma un miliardo e mezzo, e il patrimonio non più attivo per 30 milioni ma negativo per 200. Don Verzé era vecchio e malato, il direttore Cai fu vessato al suicidio, e il San Raffaele invece che alla Fondazione passò al gruppo Rotelli-Intesa. Che lo rimise in bonis dall’oggi al domani.
Con i Ligresti la storia è vecchia. Ci avevano provato già al tempo di Craxi, venticinque anni fa – tentando di farne una banda a delinque in quanto “due siciliani” (tre con Cuccia, che trasse Ligresi dagli impicci). Ci hanno riprovato sei anni fa a Firenze, anche a costo di implicare il sindaco Pd, Leonardo Domenici. Gli arresti per tutti li hanno domati – e il fallimento Fonsai? 

Gli affari oscuri di Unicredit

Fino a Profumo la strategia era credibile: mettere assieme un gruppo di banche e di territori diversi, in Italia, e insieme creare un gruppo cross-border, il primo al mondo realmente internazionalizzato, in grado di compensare i rischi e di offrire ai clienti una piattaforma europea. Un progetto ambizioso ma formidabile. Poi vennero gli affari oscuri. Per primo l’allontanamento dello stesso Profumo, il banchiere che aveva progettato e realizzato il tutto. Senza spiegazioni.
C’era anche Unicredit – con Mediobanca – nello scandalo del San Raffaele. Sono tutti Unicredit gli affari oscuri dell’As Roma, o della famiglia Sensi, e di Fonsai, o della famiglia Ligresti. La prima destabilizzata direttamente, con due anni di assedio alla famiglia che ne era proprietaria. La seconda indirettamente, tramite il fondo newyorchese Amber Capital. Di uno oscuro finanziere, Joseph Oughourlian, segnalatosi per essere stato un dirigente di Société Générale, uno dei templi della finanza laica franco-belga. Sottraendo la prima alla famiglia Sensi, che se non rientrava del debito, 300 milioni, ma pagava gli interessi. Per darla a un oscuro avvocato newyorchese, James Pallotta, che agirebbe per conto di un certo Di Benedetto, che non ha mai messo un euro. E la Fonsai, a prezzo di svendita, a Unipol, l’assicurazione della Lega delle cooperative.
Si trattava di sloggiare due famiglie di destra? E chi è Pallotta? E perché minacciare fallimenti, col rischio di non rientrare dei crediti, anzi decretandone il decurtamento?
No, Unicredit ha liquidato i Ligresti per conto di Mediobanca, di cui è socio di riferimento. Mediobanca era stata la banca dei Ligresti. Fino a che i Ligresti nel 2011 non pensarono di portare in Fonsai come alleato Groupama, il leader francese delle assicurazioni. Contando sul fatto che Groupama era socio di Mediobanca e l’aveva salvata nel dopo-Cuccia. L’allargamento di Groupama impensierì invece Pagliaro e Nagel, i direttori di Mediobanca, che d’un colpo si liberarono del gruppo francese e dei Ligresti. Col vice Procuratore Capo Francesco Greco, sensibilissimo a Mediobanca.

Il detenuto (cautelare) preghi

Il carcerato cautelare Antonio Talarico, agli arresti domiciliari, non può uscire la domenica per la messa. Anche se la chiesa è a due passi da casa. La giudice torinese Eleonora Montserrat Pappalettere è adamantina nel diniego: “Non consentire la messa al detenuto non integra nessuna lesione del diritto costituzionalmente garantito alla libera professione della fede religiosa”. Poi dice che il laicismo puzza di sacrestia.
La giudice dev’essere però buona cristiana. Il divieto di messa  al Talarico, incolpato di falso in bilancio per colpa oggettiva, in quanto vicepresidente della Fonsai dei Ligresti, Eleonora Montserrat Pappalettere condisce con una lezione di catechismo: “Una grave causa” può esonerare “i fedeli dall’obbligo di partecipare alla liturgia eucaristica e alla liturgia della parola”. Obbligandoli, sulla base dei diritto canonico che la giudice cita, a dedicare “un congruo tempo alla preghiera, personalmente o in famiglia”. Poi dice che uno è anticlericale. Troppe giudici sanno di sacrestia. 

Santa Sede vacante

Dal 15 ottobre è segretario di stato mons. Parolin. Il quale però è impedito fisicamente. Non da ora, da prima del passaggio dei poteri. Anzi da prima della nomina. Ciononostante il papa Francesco ha voluto il passaggio dei poteri: per eliminare il cardinale Bertone.
Colpe di Bertone? Nessuna ufficialmente. Francesca Immacolata Chaouqui, consigliera finanziaria del papa, in estate lo disse un ladro – con Tremonti frocio. Poi si rimangiò l’accusa. Ma è vero che Bertone era da tempo inviso al partito degli affari in Vaticano, oggi puntato sulla sanità, il ramo di attività più cospicuo, e più ricco, del Vaticano stesso. Essendosi opposto alla liquidazione del ramo romano (Idi, Fatenebefratelli, Gemelli). Dopo avere a lungo tentato di opporsi, senza successo, alla liquidazione del San Raffaele a Milano, caduto preda di avidi interessi confessionali, del gruppo Rotelli-Banca Intesa.
È caduto nel limbo anche il nuovo Ior. Che papa Ratzinger aveva avviato. Per disinnescare altri appetiti, anche qui, di gruppi confessionali antivaticani. Papa Francesco è artefice o vittima di questa liquidazione. Potrebbe essere l’una cosa e l’altra, dato che di tutto si occupa meno che della Santa Sede.
Al tempo delle accuse di Chaouqui, due mesi fa, Massimo Franco argomentò l’ipotesi di un complotto per screditare, attraverso l’accusatrice, il papa che le vuole bene. Esperto democristianologo, Franco si era fatto accreditare provvisoriamente come vaticanologo dal suo giornale, il “Corriere della sera”, per spiegare che il papa stesso era per l’idea della congiura.

Piccoli amori indistruttibili

Piccoli risarcimenti, si potrebbe dire di queste storie. Dell’autore in disgrazia con la sua indefettibile lettrice. Del vecchio gigolò con la ragazza che protesse. Della moglie frigida col figlio segreto del marito. Della moribonda dispensatrice d’amore, unico, irripetibile. Della vecchiaia, in genere, con la giovinezza. Ma sarebbe un calco di un altro Schmitt, “Piccoli crimini coniugali”, o “Variazioni enigmatiche”.
Autore di teatro e narratore prolifico e felice – il titolo italiano del film che ha tratto da “Odette” è “Lezioni di felicità” – Schmitt mette insieme qui tutte storie di donne, d’amore e di gioia di vivere. Senza verosimiglianza e tuttavia realistiche. Di un’euforia che prende, per quanto insulsa si possa dirla, e lascia sempre qualche traccia - amor vincit omnia, una versione aggiornata della vecchia ricetta.
Eric-Emmanuel Schmitt, Odette Toulemonde, e/o, pp. 176 € 15

domenica 3 novembre 2013

La recessione – 9

Tutto quello che dovreste sapere ma non si dice:
Il ministro tedesco del Tesoro, Schaüble, impegna il nuovo governo Merkel, di centrosinistra, a bloccare i salvataggi delle banche in difficoltà con i sussidi pubblici, “e tanto meno con il fondo Esm”, il fondo europeo. Ci sono quindi altre banche europee da salvare.

È caratteristico della Germania variare le regole europee a propria convenienza. Il precedente governo Merkel, di centrodestra ha speso 290 miliardi per salvare le banche tedesche, secondo la ricostruzione della “Süddedutsche Zeitung”, il quotidiano di Monaco di Baviera.

L’Istat dice raddoppiato in cinque anni , a fine 2012, il numero dei “poveri assoluti” in Italia, senza alcun mezzo di sussistenza: da 2,4 a quasi 5 milioni. Di questi poco oltre un milione sono giovani al di sotto dei 18 anni.

La rilevazione dell’Istat è su tutti i giornali, con grande evidenza. Ma dopo alcune paginate sulle beghe di Berlusconi, e prima di altre sui viaggi gli svaghi e la buona cucina, cara.

Ogni bar, edicola, bancomat a Roma ha un mendicante in attesa, ogni piazza ne ha in media una mezza dozzina. Poiché ci sono a Roma circa quattromila bar, un migliaio le edicole, 1.600 i bancomat, e un migliaio le piazze, ci sono a Roma almeno quindicimila mendicanti.


Non paga l’Iva, 210 mila euro, ma il giudice di Milano Carlo de Marchi lo assolve: c’è la crisi. Non è il primo caso. In questo e negli altri l’Iva non è stata pagata perché lo Stato non aveva pagato le forniture.