sabato 30 novembre 2013

Vero o falso – 9

La Spagna, che stava peggio dell’Italia, è fuori dalle recessione. Vero.

L’Italia è l’unica grande economia in recessione. Vero.

Il sindaco di Roma Marino rifà la giunta dopo quattro mesi che l’ha nominata. Vero.

Il siciliano Marino rifà la giunta dopo essersi consultato col compaesano Caltagirone. Vero.

Il sindaco Marino si è consultato anche col compaesano Pignatone, capo della Procura. Falso.

La Procura di Roma, nello scandalo dei rimborsi alla Regione Lazio, ha punito la destra e protetto la sinistra. Vero.

I senatori a vita prendono 400 mila euro l’anno, senza obbligo di firma. Vero.

Piano e Rubbia sono andati al Senato una volta sola in quattro mesi. Vero.

La Cassazione ha respinto al mittente alcuni plichi di firme per i referendum sulla giustizia, dopo una giacenza di un paio di settimane per far scadere i termini. Vero.

Rutelli – chi era costui? - fu incaricato di formare il governo? Vero

“Tutto vero” è la verità? Falso.

J.T.LeRoy, il falso d’autore

Bizzarramente è ancora disponibile, benché a sconto, questo libro falso sul falso – si voleva pure maschio – J.T.LeRoy. Mentre non è più disponibile il vero libro-intervista successivo sulla vera Laura Albert. Con un effetto di doppia estraniazione: la vicenda e la Pigmei resteranno una pietra miliare nella via dei falsi, oggi un’autostrada. Pigmei stessa è una che lavora per Mondadori, così scrive nei suoi profili, ma twitta contro Berlusconi, che di Mondadori è il padrone, e dunque gioca anche lei al falso – sarà un maschio vero?
Si legga la presentazione del falso libro: “Icona pop e talentuoso scrittore, J.T. LeRoy è riuscito in brevissimo tempo a conquistare riconoscimenti da parte della stampa internazionale e di rockstar del calibro di Tom Waits, Suzanne Vega e Bono. In questo libro la Vera Storia di J.T. LeRoy e della sua ascesa: dalle stazioni di servizio del West Virginia, dove si prostituiva insieme alla madre, alle copertine di tutte il mondo. E ancora: il racconto del suo soggiorno in Italia, un'antologia di commenti, la bibliografia commentata, un racconto della traduttrice italiana, stralci inediti del suo diario online”. Una prosa non stravagante: è veritiera, su un presupposto falso. Solo esagera il vezzo americano delle biografie rozze d’autore, che sempre si vogliono tagliaboschi, manovali, drogati e rottinculo, mentre solitamente sono iperletterati – sempre più dei sofisticatissimi, per così dire, autori italiani, che vengono dal tema in classe.
La vicenda è semplice. Con lo pseudonimo J.T.LeRoy, Laura Albert ha scritto due libri di grandissimo successo, anche di critica, “Sarah” e “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa”. Corredandosi di una biografia inventata: maschio, giovanissimo, perduto, tra stupri, marchette, droga. Il filone della violenza sui minori ingravidando di ogni eccesso. Fino al 2005, due anni dopo la pubblicazione di questo “Chiedilo agli angeli. La vita e i libri d J.T.Leroy”, con “foto dello scrittore in varie occasioni”. Fino cioè a quando “New York”, il settimanale, e il “New York Times” ne rivelarono l’identità – per prolungare il successo con lo scandalo.
Lo scandalo si cercò peraltro pruriginoso – con poche e scontate scuse per l’inganno. L’intervista con cui culmina il “riconoscimento” Laura Albert vira sul piccante. Il godimento di tutta una vita, seppure ancora breve, a inventarsi maschio, benché sposa e madre. La progressiva identificazione col maschio J.T.LeRoy anche dell’impersonatore, una donna: nei servizi fotografici, in tv, alle presentazioni dei libri. Un set di “Ingannevole è il cuore” dove la coca gira come l’insalata – il film americano di Asia Argento, con un cast rispettabile e perfino venerabile, presentato alla Quinzaine des réalisaturs a Cannes nel 2004. I rapporti fiammeggianti di Asia col lui\lei che impersonava J.T.Leroy, col vero impersonatore, la propria cognata di Laura. La verità è una buona vendita.
Valentina Pigmei, Chiedilo agli angeli. La vita e i libri di J.T.LeRoy, remainders, pp. 147 € 5,50
Laura Albert, Essere J.T.Leroy

Il mondo com'è (155)

astolfo

Antifascismo – Fa sempre testo la novella che undici professori universitari rifiutarono il giuramento al fascismo. Solo undici, su mille, o millecento. E tutti quelli che non ebbero la cattedra perché rigiurarono il giuramento o semplicemente erano invisi al regime?
Si vogliono gli intellettuali conformisti e il fascismo popolare. La popolarità del fascismo, l’invenzione di De Felice, fa aggio bizzarramente su ogni altro aspetto nello stesso antifascismo. Ed è oggi maggioritaria se non  unanime, al fondo dei tanti allarmi “fascismo! fascismo!”: è scomparsa l’Italia che si opponeva. Che per forza era minoritaria. Ma quanto ampia.

Cina-Giappone – Per la prima volta nella storia dei due paesi, dalla prima guerra di Corea nel 1894,  la bilancia è a favore della Cina, politica e militare, e anche economica. In parte anche diplomatica: come già per la Germania Ovest e per l’Europa, gli Usa fanno tutt’uno col Giappone, ma per meglio assestare e rafforzare l’intesa non dichiarata con la Cina, con la quale reggono il mondo della globalizzazione.
Due potenze sempre in lite, dacché il Giappone si rinnovò nel secondo Ottocento, sulle tracce dell’imperialismo euro-americano. Col Giappone sempre vincente. Ora è la Cina che cerca il ruolo del Giappone fine Ottocento, in espansione, economica e strategica. Con una supremazia, sul fronte bilaterale, incontestata: per il disarmo giapponese, e per l’enorme duttilità cinese, economica, militare e diplomatica.

Roma e altre città soni invase da un paio d’anni da una ristirazione mista, in sé incompatibile, cino-giapponese. Sono sempre cinesi che fanno anche cucina giapponese (coi nomi delle ricette giapponesi se non con la qualità) – come la fanno thailandese, malese, vietnamita, e perfino coreana. Ovunque ci sia profumo di affari.  

Imperialismo - Si ricorda l’impero romano perché durò a lungo e costruì molto, con materiali durevoli, ma più perché fu un modello di civiltà. Che tutti i popoli sottomessi vollero fare propri. Una “forza” che si propagò anche dopo la caduta dell’impero.
È quello che manca nell’imperialismo (ordine internazionale) contemporaneo. Gli Usa non legittimano. E non si legittimano. Da venticinque anni non hanno più nemico planetario, e neanche locale – non si può considerare il terrorismo islamico un nemico per una potenza planetaria. E tuttavia non propongono e non chiedono nulla. Anche il “modello della libertà”, che gli Usa propongono, coi “volenterosi” quali l’Italia, in mezzo mondo, richiederebbe grande durezza: l’equivoco dell’imperialismo americano è forse questo, che la libertà marci con i suoi piedi.

Internet – È campo di battaglia monopolistico come un secolo e mezzo fa potevano esserlo le ferrovie o il petrolio – parliamo sempre degli Usa, l’impero americano è recente solo militarmente, ma i suoi modi prepotenti dominavano già a fine Ottocento. Uno che abbia scorso le avventure, anche manesche, del capitale americano di fine Ottocento, le ritrova pari pari un secolo dopo, da vent’anni a questa parte, nei padroni della rete, da Bill Gates a Brin e Page, e a Zuckerberg e Jack Dorsey, passando per Steve Jobs del “think different”. Tutti dismissivi, in jeans, democratici, per i diritti civili e l’ambiente, ma aggresivissimi. Monopolisti duri. Comprese le guerre intestine, non per modo di dire.
Egualizzatrice e libertaria – la Crusca ha deciso che internet è femminile. Redentrice di tutte le insufficienze, di lingua e linguaggio, di mente, di spirito, di animo. Abolizionista di ogni eccellenza. Liberatrice di ogni pulsione tenuta ai margini – che non sono quelle sessuali, “liberate” probabilmente da sempre, di fatto, ma di gusto, rispetto, forma, verità.
Entrando in  facebook e twitter, si entra in un distinto “disagio della civiltà”. Un mondo che qualche anno fa si sarebbe detto medievale, brumoso e indistinto, malgrado le tante foto lusinghiere coloratissime, e il tono leggero, da pettegolezzo e sfogo: è una realtà per i molti, “la” realtà. Non c’è bisogno di citazioni, ognuno può fare agevolmente l’esperienza, sono mondi che si vogliono aperti. Anche se poi l’unica apertura è alla pubblicità.
Con una incongruenza da spiegare: che un mezzo così liberale come la rete promuova lo sfaldamento psicologico, sociale (familiare, territoriale, nazionale, politico) e culturale. Verso nessun altro orizzonte che il torpore in veste di formicolio, l’assoggettamento in veste di liberazione, la semplicioneria, l’ottusità, l’inerzia di ogni capacità di riflessione (critica, di scelta). Un mondo brillante di desolazione.

Kennedy – L’assassino assassinato è figura ricorrente dei complotti. In Italia si ricorda Anteo Zamboni, il quindicenne che attentò a Mussolini in visita a Bologna nel 1926. Figlio di anarchici divenuti fascisti. Il ragazzo fu fermato dal tenente di fanteria Carlo Alberto Pasolini, fascista e padre di Pier Paolo, e linciato sul posto da alcuni squadristi. Mussolini sospettò un attentato dei fascisti frondisti, Arpinati di Bologna o Farinacci di Cremona. Ma dopo le prime indagini, esaurito l’effetto intimidatorio sui frondisti, fece processare e condannare i familiari di Anteo. Che dopo qualche ano graziò.

Suicidati Ritorna, con la ricorrenza delle stragi milanesi, e il “malore attivo” di Pinelli che le ha concluse, la categoria del “suicidato”, dell’assassinio camuffato da suicidio. Il caso è semplice, e ha molti precedenti (ci sono molti precedenti nelle stragi di Milano: Valpreda per esempio, era Franti, quello del “Cuore” – uno che, seppure non tirava palle di neve, e neppure bombe, sicuramente “lo metteranno all’Ergastolo”, un predestinato). Pinelli alla finestra è Grimau, il patriota spagnolo. O Salsedo, che però cadde da un quattordicesimo piano, l’America fa tutto in grande - fu per denunciare la morte di Andrea Salsedo che Sacco e Vanzetti ci rimisero la pelle, non si accusa la polizia invano. Anche Juliàn Grimau era interrogato in questura a un secondo piano, seduto su una sedia attorniato da poliziotti, di cui eludeva la guardia a un certo punto buttandosi dalla finestra aperta: l’anarchico, quando è scoperto, compie “il folle gesto”, si butta. Pinelli ha fatto di più, è morto.

astolfo@antiit.eu 

venerdì 29 novembre 2013

L'avvento del nulla

Avremo dunque, con lAvvento, un novantenne e, infine, tanti quarantenni, solo quarantenni. Ma cui bonoSvaniti Prodi, Berlusconi, Veltroni, D’Alema, la scena resta a Renzi, Letta, Alfano, Grillo. Al nulla: un chiacchierone, un’ombra e un traffichino, per giunta siciliano, cioè verboso. Senza passato, senza proposte. Dei quattro, solo Grillo ha senso politico, forse perché ha qualche anno (decennio) di più. Le nuove generazioni hanno prodotto il nulla, anche in politica.
Le vecchie non sono molto migliori. Basti Napolitano, complice dei giudici nei loro peggiori eccessi – anche contro se stesso, l’uomo è questo. E ha fatto senatori a vita un Monti, che poi ci ha imposto al governo, la rovina dell’Italia, e un Piano con Rubbia presenti solo al voto contro Berlusconi, per uscire in tv - senza vergogna, i due geni, dei 30 mila euro che gli paghiamo, l’uno, mensili, 400 mila l’anno, 800 mila con gli “oneri sociali”, augurabilmente  per molti anni. Però: gli uscenti non hanno fatto sfracelli (riforma dello Stato, riforma del fisco, controlli sulla spesa contro la corruzione, controlli sui mercati), ma almeno hanno tenuto l’Italia in Europa, con benefici.
Sul nulla peraltro, se mai qualche velleità si facesse strada, vigila occhiuta la magistratura più bieca, di Procure della Repubblica che fanno sempre più impunite sfoggio scoperto di illegalità (intercettazioni, indiscrezioni, insinuazioni, false accuse). Le presidenze Napolitano, tanto buono, hanno indebolito ogni argine alla prepotenza corporativa della magistratura, un ordinamento che è fascista in ogni suo ganglio e se ne vanta. Fino alla Cassazione. Che può respingere i referendum sulla giustizia avendo dirottato o respinto le casse di firme che dalle Regioni affluivano - Napolitano, quale Stato di diritto?   

Il percorso della crisi

Siamo al 10 dicembre: Letta è nel mezzo della ricostituzione del governo, e Renzi a capo del Pd. Il programma comune c’è, come no: la ripresa e la giustizia. Ma alle difficoltà che i berlusconiani gli hanno sollevato – quelli di Berlusconi e quelli di Alfano - per la distribuzione degli incarichi si saggiungono quelle di Renzi che vuole contare di più anche nel governo (ora non ha ministri “suoi”).
A Natale si licenzia la finanziaria o patto di stabilità. Nessuno ne è contento, e del resto non risolve niente, anzi aggrava le tasse. Mentre tutti sanno che non si esce dalla recessione con la tasse, che le tasse anzi la aggravano – la Spagna, che stava e sta molto peggio dell’Italia, ne è già uscita, l’Italia di Monti e Saccomanni precipita. Berlusconi farà scempio deal legge, anche da San Vittore se occorre, e Renzi non potrà essere da meno.
Gennaio 20134. Un governo Renzi con Alfano non ci potrà essere. E dunque Napolitano rifarà le elezioni di febbraio.

La fede ci assolve

La fede come luce – ascolto e insieme visione. Come amore. Come verità. Nulla di nuovo, è sant’Agostino, “Commento all’epistola di san Giovanni ai Parti”, il “tractatus” che costituì collazionando le prediche pasquali dal 413 al 418: Dio è amore, luce, vitaUn’appropriazione che lascia scoperti i non credenti - “Alla filosofia è necessario Amore” è Giordano Bruno. È tuttavia un appello ai laici, quale si vuole - l’esclusione è argomentata.  E “il credente”, si dirà in fine, “non è arrogante”, non deve e non può esserlo: “La verità lo fa umile”, per la stessa sicurezza che infonde, “e rende possibile la testimonianza e il dialogo”.
Si parte da una constatazione: “La fede fa grande e piena la vita”. È vero. Qualsiasi lettore, anche solo di Harry Potter, lo sa. È un dono gratuito, però. Ed è un dono d’amore: “Credere significa affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e perdona, che sostiene e orienta l’esistenza, che si mostra potente nella sua capacità di raddrizzare le storture della nostra storia”. Anche questo è vero, la provvidenza c’è, poiché non ci siamo suicidati, non del tutto. Ma ci sono degli esclusi dall’amore di Dio? Possono essercene? E linferno? E l’eresia?
“Se non crederete, non comprenderete” o “Se non crederete, non sarete saldi”, le due versioni di Isaia, 7,9, quella della traduzione greca dei Settanta e quella ebraica, l’enciclica ne rende conto unificandole: dicono la stessa cosa. Perché no, saldi e salvi sono la stessa cosa. Ed è anche vero che se non si crede non si comprende. E credere è un atto unico, sia indirizzato a Dio o alla filosofia: è il modus operandi dello scienziato, della ricerca scientifica.
Viene poi il capitolo oggi conteso della verità. Fede e ragione si rafforzano a vicenda, papa Francesco dice con Benedetto XVI, coautore dell’enciclica - e col predecessore, già beato, Giovanni Paolo II, che promosse il mea culpa su Galileo, “Fides et ratio”. Verità è amore, aggiungono. Cioè fede. Per immedesimazione: “Colui che confessa la fede, si vede coinvolto nella verità che confessa”. Perché la conoscenza è relazionale: “La stessa coscienza di sé è di tipo relazionale… Il linguaggio stesso”. E per un terzo motivo.
Perché, dice l’enciclica, “la fede risveglia il senso critico”. Questo non è vero. Ma è vero in confronto all’arroganza di certo laicismo, che è solo anticlericalismo, tanto sufficiente quanto superficiale – quello, stranamente, cui papa Francesco indulge nelle sue performances. Queste enciclica fu divisata da Benedetto XVI, che poi rinuncerà al suo mandato proprio, disse, per le difficoltà che il mondo contemporaneo pone alla fede. Malgrado i riferimenti rituali, alla Luce, ai testi sacri, etc., è una enciclica che sancisce una incertezza. Che è altro dalla fede.
Papa Francesco, Lumen Fidei, Edb, pp. 72 € 2,20

giovedì 28 novembre 2013

Secondi pensieri - 157

zeulig

Amore – Wittgenstein lo assimila alla fede religiosa, atto “soggettivo non di verità”. Forse il mistero di Wittgenstein è questo: una concezione positivista della verità.
Il papa oggi gli può così obiettare, “Lumen Fidei”: “Se l’amore non ha rapporto con la verità, è soggetto al mutare dei sentimenti e non supera la prova del tempo”. È anche facile, infatti il papa aggiunge: “Senza verità l’amore non può offrire un vincolo solido, non riesce a portare l’«io» al di là del suo isolamento, né a liberarlo dall’istante fugace per edificare la vita e portare frutto”.
Amor ipse notitia est” è di san Gregorio Magno: l’amore come conoscenza e forma di conoscenza.

Fede – Si chiude l’Anno della fede indetto dal papa Benedetto XVI, dopo che il suo successore papa Francesco ha avallato, rielaborandola, la sua enciclica in materia, “Lumen Fidei”, la fede come lume, luce. L’anno si chiude senza però nessuna manifestazione illuminante, in nessuna direzione, né delle altri fedi né dei senza fede. A parte le sviolinate dei due papi ai due più noti, nonché professi, atei di Roma, Scalfari e Odifreddi. E poi c’è sempre la rinuncia dello stesso papa promotore, una confessione di fede debole.
Potrebbe essere una “prova”, che la fede è la grazia: o uno ce l’ha o uno non ce l’ha, per papa che sia. La questione è come l’ha posta Esiodo ne “Le Opere e i giorni”: “Un’aurea stirpe di uomini mortali cerarono nei primissimi tempi gli immortali che hanno dimora sull’Olimpo”,

La questione è sempre al “Proslogion” di sant’Anselmo: “Credo per comprendere, non comprendo per credere”. È la voglia di conoscenza, che niente si preclude. O, in altri termini, di Fichte, “I tratti fondamentali dell’età presente”: “Nulla è come è perché Dio vuole arbitrariamente così, ma perché Dio non può manifestarsi altrimenti che così… Comprendere con chiara intelligenza l’universale, l’assoluto, l’eterno,e immutabile, in quanto guida la specie umana, è compito dei filosofi”.

Illusioni – Riproposte da Armando Torno nel suo trattatelo, “Elogio delle illusioni”, ripropongono la rilettura di Leopardi in quanto filosofo. Per una serie di considerazioni costanti per tutta la lunghezza dello “Zibaldone”, e di sicuro impianto di riflessione: le illusioni come creazioni fantastiche e insieme “arte” della conoscenza. “Zibaldone” 3237-3238: “Chiunque esamina la natura delle cose con la pura ragione, senz’aiutarsi né dell’immaginazione né del sentimento, … potrà ben quello che suona il vocabolo analizzare, cioè risolvere e disfar la natura, ma e’ non potrà mai ricomporla, voglio dire e’ non potrà mai dalle sue osservazioni e dalla sua analisi tirare una grande e generale conseguenza”. Come metodo conoscitivo. Ma anche come “fatto” metafisico: “Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale stante ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana”. Avendo già prima (“Zibadone” 21) risposto al quesito che lo pseudo-Longino si pone nel “Sublime”, perché le anime grandi diventino sempre più rare, con “la barbarie che vien dopo l’eccesso d’incivilimento”: “Non c’è dubbio che i progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un popolo oltremodo illuminato mica diventa civilissimo… Le illusioni sono in natura, inerenti al sistema del mondo, tolte via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato; ogni popolo snaturato è barbaro”.

Una corrente razionalista riconosce, in epoca moderna a partire da Hume, che non è tanto la ragione che genera i giudizi quanto le emozioni e le illusioni. Meglio si potrebbe dire: non è il ragionamento a guidare la ragione ma, di più, le illusioni. Compreso il ragionamento: la ragione, come la verità, si vuole complessa e in progress. Mai conclusa, definitiva, riposta.

Io – I papi Francesco e Benedetto XVI, coautori dell’enciclica “Lumen Fidei”, lo mettono tra virgolette. A significare che è un finto io. Il vero io sarebbe l’uomo, non l’individuo in rapporto (opposizione) agli altri. Per una voglia di tornare all’ecclesìa, alla comunità dei fedeli, della chiesa primitiva. Che è una politica. Ma più per il perdurante sospetto nei riguardi della psicanalisi. Pur essendo la chiesa e i suoi religiosi versatissimi in psicologia e pedagogia. Ma recuperano da Maritain e il personalismo la relazionalità: l’individuo isolato non ha coscienza né conoscenza, né esistenza – “La persona vive sempre in relazione… Anche la conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale”, e “il linguaggio stesso”.

Suicidio - Tolstòj, che poi morì di 82 pienissimi anni, fu affascinato dal suicidio, dice, al punto da dover ricorrere a “molteplici astuzie” per evitarlo: niente corde in casa, e niente caccia. Napoleone si lasciò vivere all’Elba da “giudice di provincia” per scarso coraggio, secondo Potocki, “il coraggio necessario della fine volontaria”. Stefano Zannovich, anima dell’Europa prima della Rivoluzione, alias Castriotto d’Albania, Bellini, Babindon, Czernovicz, Sarra Tabladas, grande di Spagna, duca del Montenegro, patriarca ortodosso, pretendente d’Albania, si tagliò la vena basilica con le unghie. Non è una misura né un giudizio, è un esito.

In natura il suicidio è programmato, per apoptosi: le cellule malate vengono automaticamente uccise per evitare la proliferazione. Ma questo non vale per i tumori.
Resta da capire perché gli assassini di professione e gli ergastolani, oltre agli animali, non si uccidono. E Leopardi, che pure lo filosofò, indispettito dal “candido Leibnizio, per cui il mondo presente è il migliore di tutti i mondi possibili”, e vi incitò i giovani, per il suo senso acuto del male, lui ghiottone di gelati, belle donne e intimità. Un altro scrittore, Gian Falco, alias Giovanni Papini, consiglia una morte pulita col pensiero: “Morire a forza di pensare di dover morire”.
Chi non crede in molte cose, dunque, non si uccide.

Verità – “L’uomo ha bisogno di verità”, dice il papa con la chiesa tutta. Ma, aggiunge l’enciclica “Lumen Fidei”, la verità vuole amore: “Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona”.
Dunque, la verità dev’essere calda e non fredda – la fredda razionalità.

zeulig@antiit.eu

Il matrimonio è senza scampo

Uno degli ultimi Simenon, del 1966, cinque anni prima della decisione di non scrivere più, a 69 anni. Che l’immagine di Simone Signoret e Jean Gabin nell’omonimo film non allevia – un film apprezzatissimo (eccetto che in Italia, che lo coprodusse ma dove il film fu liquidato anonimo, come “L’implacabile uomo di Saint-German”): Gabin, interprete di una decina di film tratti da Simenon, e Simone furono premiati a Berlino. Un esercizio di ripetizione, ossessivo. E al solito acatartico, più delle altre storie “dure” del finto simpaticone Maigret-Simenon.
Qui la durezza è aggravata dal sospetto biografico: i velenosi separati in casa ripetono le cattiverie reciproche della madre propria dello scrittore col suo secondo marito, di cui in una pagina di “Lettera a mia madre”, scritta subito dopo il proposito di non “scrivere” più. Nella quale Simenon introduce i suoi stessi due matrimoni, più un terzo che allora viveva in forma di convivenza - non felice, fa capire. 
Un esercizio di bravura anche, più che un  racconto. Che è scontato negli sviluppi dalla prima riga: si va avanti nella lettura per la “pasqualite” alla Arbore, per “vedere come finisce”, ingufiti tra dozzine di  cattiverie. Insostenibili. Una lettura come un’esercitazione di resistenza.
La storia è questa: due vecchi coniugi si odiano, senza potersi separare. I due si sono sposati tardi, vedovi di 65 e 63 anni. E quindi, si penserebbe, a ragion veduta. Invece hanno il solo pensiero di farsi dispetto. Lei ha forse avvelenato il gatto di lui, lui ha ferito a morte il pappagallo di lei. E ora si parlano in silenzio, l’odio dell’uno è noto all’altro, non si sgarra. Lui, tra le tante cattiverie, usa fumare “sigari italiani, informi nerissimi, fortissimi, che sono detti chiodi da bara”. Ma argomenta, brutta spia, meglio di lei - la misoginia non doveva costare a Simenon, che a dispetto dei suoi due o tre matrimoni vantava una prostituta al giorno.
Non è la sola storia di matrimoni terribili. Ma è una storia senza mai un barlume, o altrimenti schematicamente spento.
Georges Simenon, Il gatto, Adelphi, pp. 165 € 10

mercoledì 27 novembre 2013

La coabitazione

Senza il semipresidenzialismo alla francese, l’Italia ne realizza l’incubo peggiore: la coabitazione. Fra un presidente della Repubblica ex colonna del Pci e un governo moderato. Il governo Letta è un governo Pd, con alcuni partitini moderati, quelli di Casini, Monti, Mauro e Alfano. Ma solo formalmente è di centro-sinistra: fra due settimane il Pd di Renzi sarà un’altra cosa.
Solo formalmente, d’altra parte, questa coabitazione è un incubo: il presidente della Repubblica è appiattito sul “suo” governo. Avendo deciso che suo compito primario è evitare scioglimenti del Parlamento a catena, si accontenta dell’unico governo aritmeticamente possibile. Anche se questo è asfittico e anemico: affronta la recessione aumentando le tasse (il balletto di sigle copre un aumento delle imposte indirette, comunali e statali).
La coabitazione è grigia anche politicamente. Si rafforza la partitocrazia, dei parlamentari nominati dai partiti invece che eletti, e del finanziamento pubblico a piè di lista. Si rafforza l’astensione, che ora costeggia la metà dell’elettorato, e il voto di protetsta, un terzo dei residui votanti.

La Costituzione senza

Una Costituzione senza governo. Che lascia ai partiti, entità che non disciplina. È questa la realtà dell’Italia, oltre le mozioni degli affetti, Benigni con la costituzione nata dalla Resistenza, Rodotà con gli intoccabili.
Si fa in Germania un governo, l’ennesimo, tra democristiani e socialisti, che non si sopportano, perché così vuole la Costituzione. Si fa con una lunghissima trattativa, ma si fa. La Costituzione tedesca è nata anch’essa, come quella italiana, in reazione alla dittatura, ma impone che solo un governo possa scacciarne un altro, non uno Scilipoti qualsiasi o un voto parlamentare a sorpresa – quando qualcuno è al gabinetto (in Italia è successo pure questo).  La Costituzione italiana ha un capitolo dedicato al governo, ma non lo prevede: il governo non ha status e non ha autonomia – dai partiti e i loro tentacoli, dai poteri costituiti (burocrazia, giustizia, soldi), dall’opinione pubblica. Un capitoletto, di malavoglia: quattro articoli più uno, in cui non si dice niente.
Questa mancanza è anche all’origine della corruzione, oltre che dell’inefficienza. Un piccolo Max Weber italiano, se ci fosse ancora dignità intellettuale, non avrebbe difficoltà a dimostrare che demandare il governo a entità inesistenti, i partiti, è autorizzare e fomentare la corruzione. In senso proprio, dell’appropriazione della spesa pubblica, e in senso politico, dell’assunzione di tutte le funzioni pubbliche, a partire dalla cooptazione dei parlamentari.
Non è la sola mancanza della Costituzione. La Costituzione vuole la Repubblica parlamentare, ma i parlamentari non sono eletti, sono cooptati. Non da ora, cioè non dal “porcellum”, dagli eletti nominati dai partiti. 

A fuoco la Francia profonda

Un’antologia di quindici racconti della romanziera francese di origine russa. C’è la vecchia Russia, “Il sortilegio”. La figlia non amata dalla madre, “Giorno d’estate”.  La nostalgia e la critica dei legami familiari, “Domenica”, “Lo sconosciuto”. La Francia profonda, “L’incendio”, “Lo spettatore”. La caducità delle ambizioni, o del destino: “Lo spettatore”, “L’inizio e la fine”. L’amore naturalmente, declinato variamente. E qualche traccia dell’ebraismo rifiutato della scrittrice, “Fraternità”.
Antonio Castronuovo propone in questa antologia della collana Fiabesca i racconti migliori fra quelli non inclusi nella raccolta Adelphi, sotto il titolo “Film parlato”.
Irène Némirovsky, L’incendio e altri racconti, Nuovi Equilibri, pp. 325 € 14 

martedì 26 novembre 2013

Ombre - 199

Domani decade Berlusconi ma la commedia continua. Putin avrebbe consegnato a Berlusconi un passaporto diplomatico russo, assicurano alcuni giornalisti. No, l’avrebbe nominato ambasciatore della Russia in Vaticano, assicurano altri giornalisti. Impunemente: il lettore non ha difese.

Ma Putin non è un eroe della libertà? Avendo concesso asilo a Snowden, l’ex agente Cia che ha svelato le magagne di Obama. Magari Berlsuconi a Mosca ci svelerà altri segreti.

Berlusconi ha appena finito di sciorinare le “prove” a sorpresa contro una delle sue tante condanne milanesi, che sul milanese “Corriere della sera” Luigi Ferrarella sa che sono false, sbagliate, errate. Con tanto di foto, fotocopie, protocolli, testimonianze in remoti tribunali svizzeri, francesi e  americani. Giornalismo? Giustizia? Servizi?

La potente Procura ambrosiana è inerme contro Berlusconi, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Il senatore decadente le ha bloccato per sette anni una rogatoria in Irlanda. E questo si può capire, l’Irlanda resta un paese di preti, anche se ora protegge le finanziarie. Ma le ha bloccato anche un’altra rogatoria a Hong Kong. Per “i buoni uffici dell’ex senatore Idv Sergio De Gregorio”, scrive “Il Fatto”. Hong Kong, cioè la Cina. Così vicina, anzi nelle mani di De Gregorio?

Meglio un socio scomodo, il governo cinese, con un manager sgradito alla famiglia, che la Fiat-Chrysler, la quale avrebbe assicurato la continuità al manager e alla famiglia – la famiglia sono i Peugeot. Due giorni dopo la visita a Roma, il presidente francese Hollande impone alla famiglia la sua scelta.

Otto minuti dopo il sì della Camera al ministro Cancellieri, la Procura di Milano ha già in rete una dichiarazione di Salvatore Ligresti contro la stessa. Aveva il “lancio” d’agenzia pronto, aspettava il voto per licenziarla – licenziare la dichiarazione. Resa da Ligresti il 15 dicembre. Al giudice Luigi Orsi, il pm di De Benedetti.

Ora che è morto,si scopre che il maestro D’Orta, ultimo Grande Pedagogista, era stato allontanato da scuola, pensionato baby a quarant’anni o poco più, su denuncia dei genitori. Non per pedofilia, allora non usava. Perché i genitori volevano che fossero i loro figli i protagonisti del film di Lina Wertmüller su “Io, speriamo che me la cavo”. Le Autorità non poterono imporre la scrittura, ma sollecite allontanarono il maestro.

Il “Corriere della sera-Roma” ha scoperto che la sorella di Catello de Martino, il dirigente dell’Opera, è violinista, suona per fondazioni e opere buone della provincia romana, e quindi è in conflitto d’interesse. Anche il marito della sorella violinista è in conflitto d’interesse, ha scoperto il “Corriere della sera”, in quanto è sindacalista all’Opera di Roma. Delenda Roma, o solo l’Opera di Roma?

Dunque, Scalfari vorrebbe Benigni al Quirinale. Dopo Grillo, che ci voleva Fo. Non per ridere.
I chierici non tradiscono, si divertono.

Parise scorretto e solitario

È una scelta di “Verba volant”, la raccolta delle lettere aperte di Parise, nella rubrica di corrispondenze che tenne per il “Corriere della sera” nel 1974-1975, curata nel 1998 da Silvio Perrella. Allo stesso tempo che Pasolini incideva sullo stesso giornale le famose “Lettere luterane”. Visto da destra e visto da sinistra? Parise era massiccio, amava i nobili e la caccia – la caccia in botte, umida, scomoda, una sfida alla laguna, alle folaghe e alle ossa. Doveva essere l’inverso, anche fisicamente, di fronte al retrattile Pasolini. Ma lamenta le stesse cose, solo non da maestro di scuola. È la venetosità? È il letterato forzatamente misoneista?
Silvio Perrella, che cura anche questa scelta, trova che oggi “la miseria dilaga”, già denunciata nella rubrica. Doppio errore. La povertà è tanta, nel mondo e in Italia, ma è meno di quarant’anni fa, e in tre quarti del mondo, Africa compresa, è molto meno di quarant’anni fa. Ed è sbagliato ritenere che tra i corrispondenti di Parise ci fossero i poveri. – a parte l’uso, per chi tiene una rubrica, di “trovarsi” gli interlocutori giusti per dire quello che intende. I poveri non leggono il giornale, e solo le maestre nubili e i colonnelli in pensione scrivono – scrivevano quarant’anni fa – ai giornali. Lo stesso Parise lo dice nell’ultimo “pezzo”, accomiatandosi. E dunque? Queste prose sono “spiazzanti” – a volte – ma sempre nel soggiorno illuminato del dottore (giornalista, scrittore) o professore che si voglia. Perrella cita in fine  Anna Maria Ortese: “Non c’è nessuna intesa più fra lo scrittore e la vita della gente”. È la materia di Grillo e degli altri “indignati”, e forse di Pasolini. Ma c’è mai stata? Perché, cos’è la “vita della gente”, la gente non siamo noi? No, Parise è altro.
“Il rimedio è la povertà”, che apre la raccolta, avrebbe potuto essere il titolo. La povertà è in realtà la ricchezza, d’animo, di spirito, di libertà, contro l’uguaglianza, l’appiattimento, l’inerzia del consumo indotto. Questi scritti mantengono una notevole forza di attrazione. Che però non ebbero allora, questo andava detto: perché Parise era, è, minoritario, non faceva opinione, solo sopportato dall’ideologia “corretta” – lui usava già questo aggettivo, non ancora riciclato dalla koiné Usa. La memorialistica vuole Parise pudico, chiuso, disimpegnato, mentre era sfrontato – con Gadda per esempio: solo era, si sentiva, isolato, benché premiato, rispettato, ammesso nei circoli e i giornali corretti e prestigiosi. Perché era anticonformista e semplice, diceva la verità delle cose – “credo nella pedagogia, insieme alla democrazia”. Era, resta, anche uno dei pochi a sapere che c’era la dittatura comunista alla frontiera orientale. Con alcuni “pezzi”memorabili: la ricchezza della povertà naturalmente, la carriera politica, e soprattutto - “L’Italia dei «lotti»” - il “paesaggio interiore” che distrugge il paesaggio, la società, la storia, per “la forza delle cose”.
Goffredo Parise, Dobbiamo ribellarci, Adelphi, p. € 7

lunedì 25 novembre 2013

Era l’illuminismo ipocrita?

Uno dei libriccini più frequentati. Edito da Sellerio nel 1989 (e ancora in catalogo), riedito da Castelvecchi nel 2007, e ora da Elliot. Non è sul tacere, ma sulla dissimulazione. E non è specialmente brillante – “vi è un tempo per tacere e uno per parlare”, “è meno rischioso tacere che parlare”, “il silenzio è spesso necessario, la sincerità sempre”, l’uomo coraggioso parla poco e fa molto, l’uomo si buon senso parla poco e dice cose giuste, cose di questo tipo..
In origine, 1771, l’arte di tacere era “principalmente in materia di religione”: una guida per evitare guai. L’opera è infatti di un abate, predicatore. Che brigò e ottenne la nomina a membro degli Arcadi a Roma. Pur volendosi illuminista, uomo del secolo - aprendo con questo piccolo invito alla dissimulazione il quesito: l’illuminismo era più ipocrita o più veritiero?
Viva le donne
L’abbé Dinouart fu polemista però efficace, oltre che insigne. Stranamente non si ripubblica di lui il “Triomphe du sexe”, 1749, che dovette fingere di stampare ad Amsterdam: un libro “eretico” in quanto proto-femminista. Il trionfo fa della donna, uguale all’uomo se non superiore
Joseph A. Dinouart, L’arte di tacere, seguita da l’arte di scriver poco, Elliot, pp. 60 € 6

Letture - 154

letterautore
Anonimo – Sorpassato e quasi spretato. Degradato. Dalle intercettazioni, che tutto espongono, a partire dalle parti oscure. De Amicis e Sciascia ne facevano motivo di scandalo, ora sono la regola e anche la legge. Anche come topos letterario, è debole: la cronaca lo sovrasta.
Critica – Quella letteraria va a morire, ha perso funzione e stimoli. Sopravvive per l’insegnamento. Per la carriera nell’insegnamento, dottorati, ricerche, cattedre, più che per la funzione pedagogica. Che non trova, e nessuno le richiede.

Dante - Annamaria Testa ha un brand Dante nell’“Agenda letteraria Dante Alighieri 2014”. Di sicuro richiamo pubblicitario, assicura. Da oltre un secolo ormai, per la “coerenza di segno” dell’immagine, il legame diretto tra nome e immagine, che quindi beneficia subito dell’autorità del poeta – legame più difficile, spiega, per Leonardo (tanti hanno la barba) o Shakespeare (il cui unico “ritratto” lo confonde con Cervantes o qualsiasi altro gentiluomo del Seicento. Il più antico, ormai di 120 anni, è l’Olio Dante, dei Costa di Genova: cominciando a esportarlo in Sud America nel 1898 come Olio Costa, la famiglia genovese se lo vide scambiato per olio portoghese, e allora optò per la sicuro richiamo italiano di Dante. Il brand copre peraltro, assicura Annamaria Testa, anche prodotti non italiani.

Illusioni – Avviene che Armando Torno pubblichi un “Elogio delle illusioni” nel mentre che si rilegge un “Friedrich Nietzsche, Intorno a Leopardi”, che raccoglie i riferimenti di Nietzsche a Leopardi poeta e filosofo intorno al tema delle “illusioni” (non c’è naturalmente un “Intorno a Leopardi” di Nietzsche, ma Cesare Galimberti ha trovato abbastanza materia sul tema, e ha saputo  organizzarla con questo titolo). “Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni”, è una costante del grande pessimista.

Montale – “An Eusebio” è un inno d’amore di Karoline von Günderode, gentile, bellissima poetessa, morta suicida a 25 anni per essere stata abbandonata dall’amante Friedrich Creuzer, che le preferì la moglie. Eusebio è pseudonimo per Creuzer.

Razzismo – Si celebra di J.F.Kennedy l’apertura sui diritti civili, cioè sull’eguaglianza dei neri. Ma nel 1966, tre anni dopo il suo assassinio, la società editrice Vogue di New York licenziava la Edmonde Charles-Roux, la scrittrice, direttrice del “Vogue” europeo (francese). perché aveva messo in copertina una modella nera.

Recensione – Si potrebbe dire una “censura regale”: di libri normalmente non letti, per i quali si spende l’autorità del critico. In Italia. Si vede immediatamente leggendo le cronache letterarie in Svizzera, in Germania, in Inghilterra, in Francia, negli Usa. Dove c’è l’abitudine alla lettura, e anche , s’indovina, il piacere di leggere, e le recensioni parlano del libro, all’ingrosso e al dettaglio. Si capisce che lasci il campo alla presentazione, l’anticipazione, l’aneddoto, la curiosità.
Il giornale perde la sua funzione in un mercato vasto, di idee oltre che commerciale. L’abbandono della recensione è un aspetto della perdita di autorevolezza che il giornale si sforza oggi di acquisire, livellando il gusto, la natura e la qualità dell’informazione, l’elaborazione critica.

Ripetizione – Si rilegga il teatro dell’assurdo, Ionesco, Adamov: riporta in automatico a Hemingway, “Il vecchio e il mare”, e alla sua maestra, Gertrude Stein: l’effetto straniante (polimorfo) della ripetizione, della parola ripetuta.

Vittoria a Milano – Contini ha, nei suoi “Quarant’anni di amicizia” con Gadda, un “antivittorianesimo ambrosiano”. Nel senso del rifiuto costante, con fuga finale, di Gadda da un vittorianesimo ambrosiano – “L’anima di Gadda si muove tra i poli sentimentali della reazione furente a una determinata vita borghese (del suo, diciamo, antivittorianesimo ambrosiano) e della disperata elegia innanzi al volto più mortale della condizione umana”. È una costante, anche dopoguerra, di Manganelli o Arbasino, dello stesso Testori che pure non lasciò la città: un conformismo ambrosiano.

Villon in Sicilia – Vanno molto, dopo il “Gattopardo”, e “Oublier Palerme” di Edmonde Charles-Roux (e più al tardo film che Rosi ne trasse nel 1990, con la sceneggiatura di Gore Vidal e Tonino Guerra), le memorialistiche sull’isola, anche di chi non ha memorie. Tutte grate: un tempo era meglio. Ora di Camilleri e Simonetta Agnello Hornby, ieri di Consolo e Bufalino. Perfino Sciascia vi si abbandona, per il resto lucido.
Si ricorda sempre con nostalgia, grata. Gli odori, i sapori, i colori, eccetera, anche se si sudava molto e si moriva di freddo. Un idillio sempre la vita in campagna – che pure era orrida. I dolci delle zie e le nonne non erano cariati. I gelati non si squagliavano. E sono tutte luminose le infanzie, le adolescenze, le giovinezze. Si rimemora grati perfino la “vecchia mafia”. I vecchi principi, inutili, quando non erano dementi e sempre spreconi. E i vecchi briganti, assassini eletti a arruffapopoli. Obliterando curiosamente – caratteristicamente - la pratica religiosa, le messe, i battesimi, le cresime, con gli inevitabili padrinati, che tanto contano.
Ma si rimemora con una distinta fragranza, inconscia certo ma non incongrua: metri, cadenze, litanie, temi rinviano a Villon. Al poeta del Quattrocento francese pregiatore delle dames jadis e le neiges d’antan. Un rinvio bizzarro ma perfettamente aderente. Compresa la fama sulfurea posticcia che lo stesso si era creata.
Villoniano anche il modo di rapportarsi con la realtà dell’isola, il suo modo di essere: l’autogratificazione memoriale dell’infanzia e l’adolescenza va sempre, in ogni occasione, al passo  con l’abominazione dell’isola. Tutti se ne sono andati via, se ne tengono lontani e la deprecano. In tutti gli aspetti: relazioni sociali, politica, amministrazione, urbanistica, imprenditoria, acqua, mare, campagna, montagna, monumenti, palazzi, e perfino i linguaggi, cittadini, regionali, isolani, e perfino la tenuta dei monumenti antichi e dei musei, che in Sicilia sono opera d’arte e di passione.. 

letterautore@antiit.eu

domenica 24 novembre 2013

Il terrorismo è come la peste, non c’è

Non si trova, non c’è. Cioè c’è, ma è di natura controversa. È il terrorismo iracheno secondo la Prima Corte d’Assise di Roma, che ha giudicato l’assassinio a freddo di Giuseppe Quattrocchi a inizio luglio 2004, nove anni fa, a Baghdad da parte delle Falangi Verdi o Brigate dei Mujahiddin. Ilaria Sacchettoni riferisce ilare la sentenza sul “Corriere della sera”, malgrado la trucidità dell’evento, e non a torto.
Il rapimento dei quattro italiani il 12 maggio 2004, e l’assassinio di Quattrocchi 58 giorni dopo, non furono opera di terroristi: chi lo dice che erano terroristi? Il terrorismo, d’altra parte, è come la Suprema Corte (la Cassazione, n.d.r.) lo definisce: l’uso della violenza che genera “panico, terrore, diffusa insicurezza”, e questo non avvenne: “È chiaro come, nel caso in esame, detta finalità non risulti dimostrata alla stregua degli elementi di prova acquisiti”.  Né fu un rapimento a scopo di lucro: non ci furono richieste di riscatto. E dunque: il rapimento e l’assassinio saranno stati un gioco dei sequestratori, che per questo realizzarono anche cinque video delle umiliazioni inferte ai sequestrati e dell’assassinio di Quattrocchi, e li diffusero tramite le televisioni Al Jazeera e Al Ahrabiya.
Ilaria non dà il nome di tale argomentatore, ma deve trattarsi di don Ferrante, quello dei “Promessi Sposi”, che come si sa è immortale. Don Ferrante è quello che, dovendola analizzare scientificamente, non trovava la peste.
Non per altro, per quieto vivere: “«In rerum natura», diceva (don Ferrante), «non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno ne l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera»”.
Senza obiezioni possibili - le sentenze si rispettano, come sostengono altri augusti manzoniani: “La scienza è scienza”, diceva sempre quello dei “Promessi sposi”, “solo bisogna saperla adoperare”. Ma perché pagargli lo stipendio? Con l’auto blu, l’autista e il segretario? Il vero don Ferrante lavorava per il re di Spagna.

Cerchiamo giustizia, non avremo salvezza

La “leggenda bianca” di Pilato, molto apprezzata dai vangeli apocrifi, la sola figura storica e drammatica dei sinottici, un santo per la chiesa etiopica, mentre sua moglie Procla è festeggiata dagli ortodossi il 29 ottobre. Senza escludere Pascoli, che fa di lui, e non Celestino V, il bersaglio di Dante, l’ignavo all’inferno “che fece per viltade il gran rifiuto”. Pilato non è quello che sembra, un proconsole romano accidioso nella provincia povera.
Anche il libriccino di Agamben, poche pagine, non è evidentemente quello che sembra, un divertissement, poiché suscita aspre contese e anche rampogne. E lo mette, inaudito, in cima ai venduti – chi glielo avrebbe detto al fine filosofo, la celebrità a settant’anni per uno scherzo.
Nella tradizione ce n’è per tutti. C’è chi vuole Pilato protocristiano. Chi invece un lavativo. E chi un governatore feroce. Agamben ne trae lo spunto per definire il tradere, la ripetizione e la trasmissione, che stanno al fondamento della tradizione. Sornione – i Vangeli sinottici sono compresi: “La critica radicale di ogni giudizio è parte essenziale dell’insegnamento di Gesù”. Rimettendo al centro una questione che Spengler, “con la consueta vivacità”, aveva posto ma è rimasta inconsulta: “Quando Gesù viene portato davanti a Pilato, due mondi stanno immediatamente e inconciliabilmente di fronte: quello dei fatti e quello delle verità, e con tanta spaventosa chiarezza come ai altrove nella storia del mondo”. Con l’ausilio di Giovanni evangelista, 3,17: “Dio non ha mandato il suo figlio nel mondo per giudicarlo ma per salvarlo”.
Agamben ne trae, alla fine del godibilissimo excursus, l’inconciliabilità: “Il mondo, nella sua caducità, non vuole salvezza, ma giustizia”. Per ciò stesso si pone a giudice, e si chiude in un impasse: “In quanto insalvabili, le creature giudicano l’eterno: questo è il paradosso che alla fine, di fronte a Pilato, toglie la parola a Gesù. Qui è la croce, qui è la storia”. Abolisce cioè il Cristo, la salvezza dicendo impossibile.
Ma forse, a parte lo svago narrativo della ricostruzione storica del personaggio, il filosofo lo sberleffo lo fa alla giustizia: “Giustizia e salvezza non possono essere conciliati”. Una giustizia che è la nostra ineliminabile condizione, impossibile. 
Giorgio Agamben, Pilato e Gesù, nottetempo, pp. 66 € 6