Giuseppe Leuzzi
Per l’esordio a Milano alla guida del Pd, Renzi
ha, tra le tante, questa battuta: “La Salerno-Reggio Calabria è costata all’Anas
più della sonda Curiosity su Marte alla Nasa”. Così poco?
Cadono alcune teste della nuova mafia,
l’antimafia. Ma sono di donne, calabresi. Sacrificate dalla vera antimafia.
Quella che ci impone la mafia: la storicizza, socializza e illustra, quasi la
sacralizza, benché fatta di brutti ceffi poco presentabili, anche alla vista.
Sempre più donne si arrestano capomafia. C’erano
pure prima, ma la donna del Sud si voleva vecchia strega fuori dal mondo. Anche
graficamente: vestita di nero, grinzosa. Se non altro il Sud ha questo di buono,
che è una miniera da riscoprire. Alla porta di casa, senza bisogno di
spedizioni esotiche. Magari di pietre, metalli pesanti, polveri, ma sempre
riesce nuovo. Tanto è forte il pregiudizio.
Torinese, inviato del “Mondo”, il settimanale
milanese di affari e finanza, Filippo Astone non ne può più. Ha scritto 400 pagine
di corruzione, clientelismo e mala gestione, compresa la mala informazione, le
ha intitolate “La disfatta del Nord”, poiché tutto si svolge al di sopra
dell’Appennino tosco-emiliano, e le propone attraverso un primario editore, Longanesi.
Silenzio totale: il Nord si assolve e non perdona.
Si può anche dire come Astone, già autore di un “Senza
padrini”, sugli imprenditori del Sud che non pagano il pizzo, lo dice nel blog di Beppe Grillo. “Le banche
non erogano più credito alle aziende”, nonostante un prestito europeo di 50
miliardi. Le aziende devono “chiudere o finanziarsi dagli usurai”. La criminalità,
forte di un circolante di almeno 100 miliardi, è pronta a qualsiasi richiesta. “Stiamo
salvando le banche e consegnando le imprese alle mafie”. Nell’attesa, qual è la
mafia usuraia?
Vittorio Pisani, già capo della Mobile di Napoli, è assolto
dopo due anni di persecuzione. L’ultimo calabrese vittima di Napoli - troppo
bello e gentiluomo per la città? E cacciatore di camorristi, che arrestava in
serie.
Vittima della Procura di Napoli, che così ha bloccato gli
arresti. Non è da tutti venire e capo della città.
Resurrezione
Livia, la moglie di Augusto, al testimone che
vide l’imperatore morto risorgere e ascendere in cielo, risolvendo prima che
cominciasse il processo di beatificazione, diede un grosso vitalizio. Così è dei
pentiti: più e più a lungo denunciano, anche a vent’anni dai fatti, più sono
pagati e protetti. Si può dire la loro un’autodivinazione, per legge, senza
bisogno di un Senato per essere riconosciuti (beatificati). E una resurrezione
ripetuta, costante.
L’acqua
è dell’Aspromonte
L’acqua torna in auge da qualche anno, e anzi è
imposta (“beva due litri di acqua al giorno”, che nessun medico beve), dopo
essere stata a lungo proibita. Era pedagogia nordica, ma ferma nelle famiglie,
una delle poche forme non contestate, che l’acqua faceva male. Rousseau aveva
insegnato nell’“Emilio” che bisogna imparare a tollerare fame e sete, e
l’ammonimento era preso sul serio dai padri, allora addetti nella famiglia alla
disciplina. E dai medici: i pediatri sconsigliavano e anzi proibivano l’acqua,
come superflua e anzi nociva. A lungo, fino a recente, un italiano ha dovuto
soffrire in Inghilterra, Germania e Francia per la mancanza dell’acqua a tavola
– in Inghilterra anche del pane. Da richiedere ogni volta con lunghe
spiegazioni. L’acqua che era col pane, in montagna e anche in campagna, il solo
alimento, questo forse un po’ condito, col companatico. L’Aspromonte non ne ha
mai perso il culto, in grazia forse delle tante sorgenti.
“L’acqua
buona, da bere, è lassù, sull’Aspromonte”. Massimo Alvaro così ricordava il
padre Corrado nel n. 22 del periodico “Calabria”. Col culto dell’acqua: “Mi
basta ripensare a quanto tenesse all’acqua da bere; doveva essere pura,
limpida, leggera”. Al figlio raccontava che “dai paesi, la gente va a prenderla
alle fonti, alle sorgenti”. È vero, succede anche ora. In qualsiasi stagione.
Ognuno ha la sua sorgente preferita – che spesso però cambia. Che sa di castagno,
di “roccia viva”, di faggio, di muschio…. E spende tempo, fatica, e ora benzina
per riempirsene tanniche, damigiane, bottiglie.
“L’acqua
pura e limpida”, ripete Massimo Alvaro del padre: “Quando si faceva qualche
gita, mio padre s’informava dell’acqua, chiedeva da dove veniva, l’assaggiava
con raccoglimento dopo averla guardata attraverso il bicchiere come se fosse un
vino d’annata pregiata”. Andava volentieri al mare all’Argentario, opina il
figlio, per “una certa acqua che vi si beveva - veniva dall’Amiata con
l’acquedotto del Fiora e la portava un contadino”, nella damigiana sopra una
carriola, anni 1930. Ancora in guerra, nella seconda, il ricordo di Corrado
Alvaro era alle trincee della prima guerra, al bisogno di acqua: “Mi raccontava
come i calabresi sentissero particolarmente nella vita di trincea la mancanza
dell’acqua, e le loro invocazioni, quando, feriti, chiedevano da bere, erano
fatte a mezza voce, con tono di preghiera, quasi a chiedere il più grande dei
beni”.
Alla
“complessa simbologia e «religione dell’acqua» tracciate da Corrado Alvaro”
Vito Teti ha dedicato una relazione, alla giornata di studi alvariani del 30
ottobre 1986: “Memoria dell’acqua e acqua della memoria nelle opere di Corrado
Alvaro”. Dell’acqua che in Aspromonte è distruttrice oltre che rigeneratrice. E
più in generale come simbolo di vita: “L’acqua come segno di penuria,
distruzione e fuga, ma anche come ricerca, cammino, nostalgia, memoria,
salvezza per erranti sradicati esiliati, pellegrini, emigrati, inquieti che caratterizzano
l’opera di Alvaro”. Ma è lo specchio della Calabria, della società calabrese,
che Teti scopre nel riflesso dell’acqua.
Autobio
Abbiamo
imposto al ginnasio dai salesiani negli anni 1950 alcune parole nuove nel
vocabolario, che da Messina esportavamo nei viaggi culturali estivi nelle città
del Nord. “Tamarro” la prima, “togo” la seconda. Avevamo anche “cugino”, per il
“fratello” negro-americano, ma si è spento negli anni Sessanta. Adesso Bossi e
suo figlio, insieme con i giornalisti del “Corriere della sera”, ci mettono in
scuole di serie B e C: non possiamo competere con le loro scuole del
Lombardo-Veneto. Poi dice che la storia va avanti: in alcuni posto no.
Per anni cantavamo “Alici
kunz’at”. Per Kunst-Art, arte in tedesco e in inglese. Introdotto come urlo di
segnale di un “palo” in un’operetta gialla di cui non ricordo il titolo.
Derivato dall’“alici cunzati” delle bagnarote, le donne di Bagnara, ambulanti del
minuto commercio nelle aree interne, scalze, muffole di lana al polpaccio,
sette gonne, pare, sovrammesse, con una larga cesta tonda in testa, ondulante
sopra uno spesso cercine, con cui si facevano valli e monti fino agli anni
1960, quando vendevano le alici
sott’olio, di cui si faceva la provvista per l’inverno - insieme col tonno sott’olio, che era
normalmente un palamidino, o un’alalonga. Tonno e alici si compravano anche
freschi, chi aveva l’automobile per andare fino al mare.
“A Bova la salamandra è chiamata «simamidi»,
dall’ebraico «semamit»”, spiega Franco Mosino, dotto e preciso, sull’ultimo
numero di “Calabria Sconosciuta”, gennaio-giugno 2013. E dunque da dove
veniamo, noi che ci professiamo colonia greca di Bova da qualche migliaio di
anni? Anzi di Bova Marina, anch’essa a sua volta colonia greca, ma dove la
lingua ebraica era sicuramente in uso, se non altro nei riti della locale
sinagoga – recentemente riemersa in contrada San Pasquale. Si spiega che non
sappiamo chi siamo e da dove veniamo.
“U catoju” con le bestie in casa è uno dei
ricordi ritornanti di Simonetta Agnello Hornby a Palermo. Il basso. No, le
bestie non erano in casa (a meno che a Palermo lo fossero), ma sotto casa. Il catoju era un seminterrato dove si tenevano pecore più spesso, o capre,
una o due, oppure anche il porco, le galline, l’asino. Per l’uso domestico. Non
senza igiene. Lo chiudeva una porteja,
una porta alta e larga, per lasciar passare l’animale ingombrante, il mulo se
del caso, l’asino, o la mucca. La portella era divisa in due, la metà di sopra
potendo restare aperta quando l’animale era dentro.
Si tenevano le bestie sotto casa anche per
sicurezza, contro l’abigeato. Ma relativa. La porteja si chiudeva col mandali,
un fermo di legno che gira attorno a un chiodo, niente di più. E restava aperta
nella parte superiore col bel tempo anche se la gente di casa era fuori.
Non si chiamava con un nome greco, ma la stalla – non più per uso
domestico – sotto casa era in usa anche nelle Alpi. La memoria estiva degli
stessi anni 1950 è di posti remoti nelle Api, ma non tanto, Borca per esempio
vicino a Cortina, dove la mucca occupava la stalla la notte, normalmente più d’una,
segno di opulenza, o le pecore. Più numerose erano le bestie sotto casa, più
alto il cumulo di concime naturale nell’aia, purtroppo non sempre sopravvento,
più rispettabile era la casa. Solo la memoria è diversa. Nel Veneto è
nostalgica, noi ce ne vergogniamo. Per l’igiene e per il complesso dell’igiene.
Forse per questo non si costruisce niente. Non si costruisce senza o contro la
memoria, non c’è fondamento. O sarà un destino rincorrere, perpetuamente. Ma
che cosa? chi?
Siamo guardoni. Venendo da un mondo arretrato,
il Sud. Dall’ultima regione del Sud arretrato. Dall’ultimo, più isolato, selvaggio
posto dell’ultima regione del Sud. Nati liberi in un posto libero, nemici di
ogni prepotenza. E sudditi.
Fuori, in Italia, soffochiamo. Non sappiamo
nuotare, non sappiamo nemmeno stare a galla – e sì che la materia è densa, di
verità e ipocrisie. Mentre viviamo bene fuori acqua, fuori d’Italia, senza
carta d’identità, se non quella dei denti bianchi e la fronte alta.
Personalmente sono a mio agio anche nel più remoto villaggio africano, sempre
stato, come a New York. Dappertutto ci trovo fiori e frutta, e tanta aria da
respirare, con radici, nella tecnologia e nella tradizione, nella perplessa
lentezza dei tempi immemorabili e nella rapidità interminata. Dappertutto dove
l’umanità è ancora senza riserve, non infetta dalla superbia degli essere
inutili.
leuzzi@antiit.eu