Titolo civetta. Per un’idea anche accattivante. È la
storia di due padri – e dei loro figli: il sarto senza lavoro va a cercarlo a
Torino, operaio alla Fiat, è il 1961, proprio mentre l’Avvocato Agnelli
abbandona una vita di svaghi per entrare in azienda. Ma poi le vicende Fiat si
dipanano, già note. Non succede insomma
molto. Fino a che, quarant’anni dopo, il figlio dell’avvocato non incontra il
figlio del sarto, in un tentativo di uscire dalla solitudine e la droga.
Ai due capi la storia si tiene - il film è già fatto (che
però evidentemente non si può fare, troppi lutti recenti). La narrazione invece
difetta: la “realtà” torinese, e della stessa emigrazione interna, rimane
estranea. La cronaca non supplisce, specie quella politica di cui siamo saturi.
La scrittura ha bisogno di radici, linguistiche, semantiche, etiche,
sociologiche, e di un punto di vista esterno. A cui Calopresti ha curiosamente
rinunciato.
“Mimmo Calopresti”, dice il risvolto, “è nato a Polistena nel 1955, ma,
bambino, si è trasferito con la famiglia a Torino”. Non basta: non è più
calabrese, e non è torinese. Sradicarsi indebolisce. E poi non è più tempo di
assimilazioni - non solo per il leghismo, che è più effetto che causa.
Mimmo Calopresti, Io
e l’Avvocato, Mondadori, pp. 269 € 17
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