Giovanni
Reale, 82 anni, ha osato (finalmente) dire la verità sul “Corriere della sera”
l’altro giorno, e oggi la sancisce: un filosofo di solida consistenza, e
rinomanza, come lui è stato boicottato e anche minacciato dall’università per
un trentennio buono perché non in linea, essendo cattolico. Una polemica
personale (Reale si difende con Raissa Gorbaciova e il ministro della Pubblica Istruzione del Kazakistan), che però epitomizza la storia culturale della Repubblica.
Reale
non dice da chi è stato vessato. Cioè, dice il Pci. Ma si sa – lo dice anche
lui – che il Pci contava poco. In realtà l’establishment culturale dell’Italia repubblicana
è stato laico-comunista. Non di classe. Ovvero sì, ma borghese. Occhiuto, molto fazioso: le risposte che l’accusa di
Reale ha indotto sullo stesso giornale lo confermano, di indigenza morale prima
che culturale e politica, da piccolo gruppo, controassicurato.
Ci sono
state due politiche culturali nella Repubblica. Anche la Democrazia Cristiana
ne ha avuto una: la scuola, università esclusa, la ricerca scientifica, la Rai,
le grandi aziende pubbliche, Iri, Eni, Enel, e le banche. La politica culturale
cattolica però non è stata settaria: i democristiani hanno sempre lasciato le
briciole ai poveri. Il “Pci” di Reale invece no, con la scusa che possedeva la
verità – l’etablishment dell’università, l’editoria, il cinema, i media (Rai esclusa).
Nelle idee e, soprattutto, nei posti.
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