“Perché gli uomini si
aspettano in generale una fine del
mondo? E, quand’anche si conceda loro questo, perché proprio una fine
accompagnata (per la gran parte del genere umano) dal terrore?” Due problemini
di Kant, non dei minori. Se la fine non ci fosse, sarebbe un dramma (teatro) senza
senso. Il terrore che accompagna questa certezza viene dall’opinione che la
storia sia essa stessa senza senso. Una
conclusione che verrà ripresa da insigni ermeneuti letterari del Novecento – il
curatore la rintraccia in Ricoeur, Northrop Frye, Kermode. Ma necessita una spiegazione.
La fine è in tedesco
“giovane”: der jüngste Tag è il
giorno della morte, del Giudizio, der jüngste Gericht il giudizio finale -
il Giudizio Universale. Ma Kant non fa sconti. Si dice, per morire, “passare dal tempo all’eternità”. Non “un tempo
che si protrae all’infinito”, nel qual caso “l’uomo non uscirebbe mai dal
tempo”. Bensì “nel senso di una fine di
ogni tempo, in cui, tuttavia, l’uomo continua a permanere”. Un limite – non un confine, un limite – “orribile”
e “attraente”, “terrificante e sublime”: “Esso conduce sull’orlo di un abisso
da cui non è possibile alcun ritorno per colui che vi precipitasse”, eppure
“non si può smettere di volgere sempre nuovamente in quella direzione lo
sguardo”.
Beninteso – e pascalianamente,
anche se Kant non conosceva Pascal - “qui abbiamo a che fare (o ci
trastulliamo) solo con idee che è la ragione stessa a produrre, i cui
oggetti (se esse ne hanno) trascendono
del tutto l’orizzonte di ciò che possiamo vedere”. Non senza ragione, però: “Tali
idee, per quanto eccedenti la conoscenza speculativa, non devono essere
ritenute vuote da tutti i punti di vista, ma ci vengono messe a disposizione
con un intento pratico dalla stessa ragione”.
Kant, insomma, si diverte,
anche lui – il vecchio filosofo lo si vedrebbe figurare in un talk-show, anche
meglio di Odifreddi. Lo stesso Andrea
Tagliapietra – lo studioso che cura l’edizione Bollati Borighieri, 2006, con
generose coordinate, tematiche e autoriali, per inquadrare il breve testo e il
suo problema.- vede nel saggio “un cenno d’ironia nei confronti della stultifera navis degli apocalittici vecchi e nuovi, che invece,
col loro tono da gran signori si prendono troppo sul serio”. Il “tono da
signori” rimandando all’omonimo scritto di Kant contro i filosofi del suo tempo
che indulgevano alla Schwärmerei, la
trasognatezza-trasandatezza - un misto, spiega Tagliapietra, di “fanatismo superstizioso”, “effervescente
entusiasmo”, “furioso fantasticare”. Ma Kant i fatti di religione tratta serio – al punto
che questo scritto gli meriterà la censura del governo prussiano, come non in
linea con l’ortodossia luterana.
La fine è sempre terribile.
Si può anche sperare il contrario, avrebbe la stessa valenza logica. Ma “questa
fede eroica nella virtù non sembra abbia ancora, soggettivamente, un influsso
universalmente efficace sugli animi, in grado di convertirli, come ha, invece,
quell’apparizione accompagnata dal terrore che si immagina precedere le ultime
cose”. Sperare è difficile. Il cristianesimo Kant vuole rispettabile perché
prospetta qualcosa di “amabile”. Per
“il sentimento della libertà nella scelta dello scopo finale”. Il cristianesimo
apportatore della libertà, dunque – l’Europa, la chiesa, i papi, i moderni, se
lo sono dimenticati dai tempi di Erasmo e Lutero.
La riflessione è un tardo,
aureo, commento all’“Apocalisse” di Giovanni evangelista. E una critica
anticipata della modernità. Con una vertiginosa “sistemazione”, in mezza
paginetta, meno, della mistica: “l’enormità espressa nel sistema di Lao Tze,
per cui il sommo bene consisterebbe nel
Nulla”, il panteismo, lo spinozismo, “sublimazione metafisica del
panteismo”, e “l’antichissimo sistema dell’emanazione,
che fa discendere tutte le anime umane dalla divinità (in cui, poi, esse
verranno riassorbite)”. Il tutto in anticipazione “della pace eterna, in cui credono consista la fine beata di tutte le
cose”. Mentre, in realtà, “l’intelletto li abbandona e finisce anche ogni
pensiero”. Mistica essendo “la dimensione in cui la ragione non comprende più
se stessa, né ciò che vuole ma preferisce vaneggiare”. Pur avendo piena
coscienza, nel pieno del Settecento, dei limiti (limiti, non confini) della
ragione: “La ragione, non contentandosi facilmente del proprio uso immanente,
ossia pratico, ma osando volentieri avventurarsi un poco nel trascendente, ha
anche i suoi misteri”.
Immanuel Kant (a cura e con
un saggio di Andrea Tagliapietra), La
fine di tutte le cose, Bollati Boringhieri, pp. 125 € 10
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