Tema ritornante,
dopo De Quincey, le gioie della droga che annientano, oppio, morfina, eroina,
cocaina, lsd, fumo, estasi. Poe, Baudelaire, Sherlock Holmes, W. Benjamin, Burroughs,
Ginsberg e i beat tutti, Jünger, la
lista è lunga, di nomi altisonanti. Gli effetti nulli, se non per il disagio –
gli effetti della narrazione. Forse perché la dipendenza non è un paradiso
artificiale.
Una
coincidenza, un curioso controcanto ai salti i gioia con cui si discute del ddl
Manconi per legalizzare la marijuana. Il “Breve trattato”, recuperato da
Michael Hofmann nella vasta produzione postuma di Fallada, e presentato come
“comicità nera”, è la cronaca della crisi di astinenza che ogni poche ore si
riproduce. È assortito di un secondo racconto, dove in effetti si ride, sulla dipendenza
dalla birra. Forse perché non tutte le droghe sono uguali, di alcune non si muore.
Fallada fu personalmente l’uno
e l’altro. Impenitente alcolista con la prima moglie, morfinomane con la
seconda - e nazista, non pentito, eccetto gli ultimi tre anni, vissuti a
Berlino Est da comunista. Ma sempre infelice: morì nel 1947 lasciando 35
scatoloni di opere e duemila lettere inedite.
Hans Fallada, Short treatise on the joys of
morphinism, Penguin, pp. 67 € 3,50
Il secondo racconto, “Tre
anni di vita”, è attuale per un altro motivo: gli effetti della carcerazione
preventiva, e della carcerazione. Un compagno di cella, che in libertà era un “ufficiale
di giustizia”, propone vari sistemi per evitare il carcere preventivo (tra essi
una sorta di braccialetto elettronico), e
ne diventa prigioniero, facendone una mania. Il carcere? Cambia gli uomini:
dopo un anno sono “mentalmente malati”.
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