Dio sente “il bisogno di
essere meglio conosciuto dagli uomini”, e perciò scrive le memorie. Prolisse. Ne
ha bisogno? “Come tutti gli infelici non posso resistere se non mi sfogo”. Dio è
infelice, dunque. “Il mio primo dolore è di non essere nato mai”. Ecco, si è
capito. Di non poter amare, etc.. Di essere un uomo – o di non esserlo?
Comunque colpevole: “La mia prima colpa è d’aver fatto nascere il mondo”- “la
creazione è abbassamento, è il passaggio dal perfetto all’imperfetto”, la creazione
è il peccato d’Iddio, la mia caduta”. Per debolezza: la solitudine. Per orgoglio:
la felicità del creato. Con la colpa pure del male – non c’è antidio (non c’è
il diavolo? Papini non arriva a tanto, al diavolo resterà affezionato): “Io vi
ho fatto infelici per la mia infelicità”. Un Dio jettatore, si direbbe. Da qui
la tristezza. “Se così tristi vi feci voi non siete stanchi di far triste me”.
Per finire, p. 57: “Mio è il peccato, e da voi soltanto aspetto di giorno in giorno
perdonanza e liberazione”. Solo che quest’Iddio non ha figli, neanche in forma
di messia – “prima di tutto, io non ho figliuoli” – e allora che Dio è? Non
vuole pompe e onori, non vuole feste, e nemmeno preghiere, nemmeno in segreto.
Sarà un Dio calvinista – risparmiatore, quello del thrift, il risparmio gestito (e buggera pure?)?
Ma si capiscono Odifreddi e
gli altri che con Dio si scrivono: un secolo dopo vivono attardati lacerbiani,
e vociani. Si direbbe infatti questo un Iddio che odia, come bisognava fare a
Lacerba e La Voce. Un odio, dopo tanto perbenismo, umbertino, giolittiano, non
ingiustificato. Ma nemmeno questo è vero. Al contrario, quest’Iddio ama anche
molto: “Io amo coloro che mi cercano e non mi hanno trovato; amo coloro che non
credono in me e vorrebbero credere in me; che non mi sanno riconoscere eppure
spiano dappertutto la mia presenza”, etc., etc., prose note. Sembra il papa.
Che scrive a Scalfari, o viceversa. Entrambi però Papini li vuole perduti, Iddio
e il papa-Scalfari: “Meglio per voi non avermi trovato, scandagliatori del Nulla!
Meglio per voi non avermi raggiunto, imitatori d’Iddio! Voi siete profondamente
infelici ma la vostra infelicità è commisurata alla vostra piccolezza e la mia
è infinita come la mia immensità. Voi potete sperare in un termine e io no…”.
Tutti scontenti, attorno a Dio. E lagnosi.
“La vita di nessuno” sono
solo venti delle 110 pagine complessive di questa prima, e unica, edizione,
Libreria della Voce. Di uno che si vuole nulla. Benché si curi d’insolentire monsignor
Della Casa e Silvio Pellico. E maneggi agudezas.
“Lo star zitti, veramente zitti, esige uno studio e uno sforzo maggiore che il
non parlare”, “la biografia di chi non visse è senza paragone più difficile della
storia di chi visse o fece finta di vivere”, e “il ricordo, nel mondo, è tutto”,
con “l’armonico rumore della strada”, e “l’ipocrita silenzio del mio studio”.
Un breviario di schopenaueriana saggezza.
Ci vuole, certo,
applicazione anche ad affermarsi negandosi. Di più o di meno di quante ce ne
vuole per fare il primattore, scalare le classifiche, regolare le coscienze?
Chissà.
Giovanni Papini, Le memorie
d’Iddio e La vita di nessuno
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