Autocensura – Ci fu una gara per “Va’ dove ti porta il
cuore”, racconta D’Orrico, che allora era direttore editoriale di Baldini & Castoldi, la casa editrice che poi se ne assicurò la pubblicazione, con un anticipo – 1984 - di “un’ottantina di
milioni”. Salvo lanciarla, continua D’Orrico, con una tiratura di settemila copie,
più una riserva di ristampa per cinquemila copie. Niente. Un suicidio. Ma perché
– D’Orrico non lo dice - intanto era subentrato in casa editrice Alessandro Dalai,
che poi ne rimarrà titolare unico. Il futuro azionista-ponte per il salvataggio
dell’“Unità”. E al Partito, il partito di Dalai, Susanna Tamaro non piaceva,
perché borghese e non neo realistica. I letterati di Partito stroncarono subito
il “librino”, Raboni, Cherchi, Lalla Romano. Il partito delle masse o delle
messe? Se alcuni milioni comprarono il “librino”, e decine di milioni lo
lessero.
Belli – È quello che si dice, il romano-romano.
Pugnace e servile, blasfemo e bigotto, neghittoso e operoso, lagnoso e burbero.
Ma sempre superproduttivo. In assoluto forse no, sembra anche lui apatico, ma
al confronto sì. Più del milanese Porta, per esempio, operoso per definizione:
con un sonetto al giorno per dieci anni di fila, tolte le feste.
Commendatizie & Rifiuti – Enrico Mannucci pubblica su
“Sette” ben sei lettere, qualcuna autografa, di primari dirigenti di primarie
case editrici a Susanna Tamaro ventenne al suo primo libro, sia pure di
rifiuto. Un prodigio. Forse perché Susanna
si apparenta(va) agli Schmitz-Veneziani-Svevo, figlioccia di Letizia Schmitz-Svevo
Fonda Savio, “la figlia”. E in tale veste beneficiava di una presentazione
benevola di Claudio Magris – il racconto, rimasto inedito, ora si pubbliche
nelle Opere.
Dialetto - Non si può dire tutto in
dialetto, arguisce Camilleri con Sciascia, non la filosofia. Nemmeno la scienza
né la tecnica, queste soprattutto. Ma Belli, e anche Tempio (Porta, etc.), nel
loro piccolo, fanno ben filosofia. Mentre anche in lingua si può non poter dire
tutto. Si veda l’irruzione internettiana tutta americana. Anche in francese, la
lingua che con più determinazione e più a lungo ne ha tentato a lungo
l’adattamento.
Egotismo – Si lega a Stendhal, che ne ha fatto un
titolo, adattandolo dall’inglese, dove l’aveva trovato. Per antifrasi? Il
Merriam-Webster non ne dà un significato di cui menare vanto: “Un senso
esagerato della propria importanza”. Non del proprio punto di vista, ma della
proiezione o del ruolo nella società: “Il sentimento o la fede d essere
migliore, più importante, più dotato, etc.”. O anche “l’abitudine a parlare
troppo di se stessi” – che è la narrativa del millennio, di questo millennio,
non dell’Ottocento.
È venuto prima di egoismo, di cui però non è sinonimo.
Egoismo si ritrova nel 1755, detto del “soggetto pensante”. Egotismo risulta
coniato da Addison nel 1714, che ne fa credito a Port-Royal. I giansenisti di
Port-Royal lo avrebbero coniato a loro volta (ma il Robert non lo registra)
criticamente, come eccessivo parlare di se stessi: “I signori di Port-Royal,
che erano più eminenti per sapienza e umiltà di chiunque altro in Francia,
bandirono il discorso in prima persona da tutti i loro lavori, come espressione
di vanagloria e amor proprio. Per esprimere la loro particolare avversione, bollarono
questo modo di scrivere col nome di egotism;
una figura che non si trova nella retorica classica”.
Il
saggio sull’uso di parlare di se stessi Addison pubblicò sullo “Spectator” il 2
luglio 1714: “Alcuni grandissimi scrittori sono stati rei di questa colpa. Si
osserva di Tullio in particolare, che i suo scritti scorrono moltissimo alla
prima persona, e che non si perde un’occasione di farsi giustizia da solo”.
Tullio, cioè Cicerone, che per questo fa rima con chiacchierone e spaccone,
mentre è scrittore squisito, e pieno di sorprese. Del resto, sempre per
Addison, “il più eminente egotista mai apparso al mondo è Montaigne, l’autore
dei celebri «Saggi»”.
Jean Paul – Il traduttore di Camilleri
in tedesco, Moshe Khan, è ricorso, per “Il Re di Girgenti”, in cui la
difficoltà di trasporre le forme dialettali è alla seconda potenza (il “Re”
parla inizialmente un siciliano rétro,
secentesco, inventato da Camilleri), a Jean Paul - spostando la vicenda di un
secolo. A Jean Paul come scrittore “settecentesco”, ma più come inventore
sintonico della lingua, armonizzato cioè con la lingua che vuole stravolgere.
Khan lo fa peraltro settecentesco abusivamente:
Jean Paul è umorista, critico culturale, poeta e narratore del tempo del
romanticismo ruggente, post-wertheriano. Però è vero, è uno che tenne testa
all’alluvione del forte romanticismo tedesco, col culto wertheriano della
morte.
Plagio- Si dà solo in musica, dove corrono molti
soldi. E si dà più spesso a parti invertite, come “plagio legale”. Facendo valere
in giudizio un accordo , sia pure “mascherato”. Il caso di “O sole mio” sancito
dal tribunale di Firenze non è isolato – anche se a Napoli il giudizio sarebbe
stato diverso. Il professor Massimo Pittau, massima autorità della linguistica
sarda, ricorda in un’intervista con Rina Brundu il 20 ottobre 2012, che così aveva
fatto anche il suo “predecessore” in materia, l’eminente sardista tedesco-americano Max Leopold
Wagner. S’era appropriato contro ogni verosimiglianza della canzone d’amore più
celebrata nell’isola: “Quando il Wagner era ormai deceduto, dal noto e compianto cantautore
sardo Andrea Parodi sono venuto a conoscenza che nel registro della Società
degli Autori ed Editori il famoso canto sardo «Non potho riposare» risulta
registrato a nome di Max Leopold Wagner. Evidentemente egli se n’era
impossessato ad insaputa degli autori effettivi, l’avvocato Badore Sini di
Sarule e il maestro di musica Giuseppe Rachel di Cagliari”.
Riso - La letteratura della Nuova
Italia, avida di borghesia, anche quella “viziosa”, da Notari a D’Annunzio, lo
bandiva. Lo diceva un insulto. Alla sofferenza, al bisogno, al dolore, che sono
la vera etica. Lo dicevano specialmente i perbenisti, tra essi De Amicis,
politicamente socialista, personalmente fedifrago, e cattivo padre. Ride nel
“Cuore” solo Franti, il cattivo.
In un racconto poco noto, “Facce”, De Amicis ha
un’intera pagina irata contro il riso “L’allegrezza soverchia disconviene alla
miseria del nostro stato”, etc..E l’uomo diventa specialmente brutto quando
ride: “Quando in una compagnia di persone che ridono sgangheratamente c’è un
cane, egli ci pare in quel momento l’unico animale sensato”.
letterautore@antiit.eu
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