venerdì 17 gennaio 2014

Letture - 159

letterautore

Autocensura – Ci fu una gara per “Va’ dove ti porta il cuore”, racconta D’Orrico, che allora era direttore editoriale di Baldini & Castoldi, la casa editrice che poi se ne assicurò la pubblicazione, con un  anticipo – 1984 - di “un’ottantina di milioni”. Salvo lanciarla, continua D’Orrico, con una tiratura di settemila copie, più una riserva di ristampa per cinquemila copie. Niente. Un suicidio. Ma perché – D’Orrico non lo dice - intanto era subentrato in casa editrice Alessandro Dalai, che poi ne rimarrà titolare unico. Il futuro azionista-ponte per il salvataggio dell’“Unità”. E al Partito, il partito di Dalai, Susanna Tamaro non piaceva, perché borghese e non neo realistica. I letterati di Partito stroncarono subito il “librino”, Raboni, Cherchi, Lalla Romano. Il partito delle masse o delle messe? Se alcuni milioni comprarono il “librino”, e decine di milioni lo lessero.

Belli – È quello che si dice, il romano-romano. Pugnace e servile, blasfemo e bigotto, neghittoso e operoso, lagnoso e burbero. Ma sempre superproduttivo. In assoluto forse no, sembra anche lui apatico, ma al confronto sì. Più del milanese Porta, per esempio, operoso per definizione: con un sonetto al giorno per dieci anni di fila, tolte le feste.  

Commendatizie & Rifiuti – Enrico Mannucci pubblica su “Sette” ben sei lettere, qualcuna autografa, di primari dirigenti di primarie case editrici a Susanna Tamaro ventenne al suo primo libro, sia pure di rifiuto. Un prodigio.  Forse perché Susanna si apparenta(va) agli Schmitz-Veneziani-Svevo, figlioccia di Letizia Schmitz-Svevo Fonda Savio, “la figlia”. E in tale veste beneficiava di una presentazione benevola di Claudio Magris – il racconto, rimasto inedito, ora si pubbliche nelle Opere.

Dialetto - Non si può dire tutto in dialetto, arguisce Camilleri con Sciascia, non la filosofia. Nemmeno la scienza né la tecnica, queste soprattutto. Ma Belli, e anche Tempio (Porta, etc.), nel loro piccolo, fanno ben filosofia. Mentre anche in lingua si può non poter dire tutto. Si veda l’irruzione internettiana tutta americana. Anche in francese, la lingua che con più determinazione e più a lungo ne ha tentato a lungo l’adattamento.

Egotismo – Si lega a Stendhal, che ne ha fatto un titolo, adattandolo dall’inglese, dove l’aveva trovato. Per antifrasi? Il Merriam-Webster non ne dà un significato di cui menare vanto: “Un senso esagerato della propria importanza”. Non del proprio punto di vista, ma della proiezione o del ruolo nella società: “Il sentimento o la fede d essere migliore, più importante, più dotato, etc.”. O anche “l’abitudine a parlare troppo di se stessi” – che è la narrativa del millennio, di questo millennio, non dell’Ottocento.

È venuto prima di egoismo, di cui però non è sinonimo. Egoismo si ritrova nel 1755, detto del “soggetto pensante”. Egotismo risulta coniato da Addison nel 1714, che ne fa credito a Port-Royal. I giansenisti di Port-Royal lo avrebbero coniato a loro volta (ma il Robert non lo registra) criticamente, come eccessivo parlare di se stessi: “I signori di Port-Royal, che erano più eminenti per sapienza e umiltà di chiunque altro in Francia, bandirono il discorso in prima persona da tutti i loro lavori, come espressione di vanagloria e amor proprio. Per esprimere la loro particolare avversione, bollarono questo modo di scrivere col nome di egotism; una figura che non si trova nella retorica classica”.
Il saggio sull’uso di parlare di se stessi Addison pubblicò sullo “Spectator” il 2 luglio 1714: “Alcuni grandissimi scrittori sono stati rei di questa colpa. Si osserva di Tullio in particolare, che i suo scritti scorrono moltissimo alla prima persona, e che non si perde un’occasione di farsi giustizia da solo”. Tullio, cioè Cicerone, che per questo fa rima con chiacchierone e spaccone, mentre è scrittore squisito, e pieno di sorprese. Del resto, sempre per Addison, “il più eminente egotista mai apparso al mondo è Montaigne, l’autore dei celebri «Saggi»”.

Jean Paul – Il traduttore di Camilleri in tedesco, Moshe Khan, è ricorso, per “Il Re di Girgenti”, in cui la difficoltà di trasporre le forme dialettali è alla seconda potenza (il “Re” parla inizialmente un siciliano rétro, secentesco, inventato da Camilleri), a Jean Paul - spostando la vicenda di un secolo. A Jean Paul come scrittore “settecentesco”, ma più come inventore sintonico della lingua, armonizzato cioè con la lingua che vuole stravolgere.
Khan lo fa peraltro settecentesco abusivamente: Jean Paul è umorista, critico culturale, poeta e narratore del tempo del romanticismo ruggente, post-wertheriano. Però è vero, è uno che tenne testa all’alluvione del forte romanticismo tedesco, col culto wertheriano della morte.

Plagio- Si dà solo in musica, dove corrono molti soldi. E si dà più spesso a parti invertite, come “plagio legale”. Facendo valere in giudizio un accordo , sia pure “mascherato”. Il caso di “O sole mio” sancito dal tribunale di Firenze non è isolato – anche se a Napoli il giudizio sarebbe stato diverso. Il professor Massimo Pittau, massima autorità della linguistica sarda, ricorda in un’intervista con Rina Brundu il 20 ottobre 2012, che così aveva fatto anche il suo “predecessore” in materia,  l’eminente sardista tedesco-americano Max Leopold Wagner. S’era appropriato contro ogni verosimiglianza della canzone d’amore più celebrata nell’isola: “Quando il Wagner era ormai deceduto, dal noto e compianto cantautore sardo Andrea Parodi sono venuto a conoscenza che nel registro della Società degli Autori ed Editori il famoso canto sardo «Non potho riposare» risulta registrato a nome di Max Leopold Wagner. Evidentemente egli se n’era impossessato ad insaputa degli autori effettivi, l’avvocato Badore Sini di Sarule e il maestro di musica Giuseppe Rachel di Cagliari”.

Riso - La letteratura della Nuova Italia, avida di borghesia, anche quella “viziosa”, da Notari a D’Annunzio, lo bandiva. Lo diceva un insulto. Alla sofferenza, al bisogno, al dolore, che sono la vera etica. Lo dicevano specialmente i perbenisti, tra essi De Amicis, politicamente socialista, personalmente fedifrago, e cattivo padre. Ride nel “Cuore” solo Franti, il cattivo.
In un racconto poco noto, “Facce”, De Amicis ha un’intera pagina irata contro il riso “L’allegrezza soverchia disconviene alla miseria del nostro stato”, etc..E l’uomo diventa specialmente brutto quando ride: “Quando in una compagnia di persone che ridono sgangheratamente c’è un cane, egli ci pare in quel momento l’unico animale sensato”.

letterautore@antiit.eu

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