sabato 11 gennaio 2014

L’Italia unita dalla corruzione

Pasolini non ne aveva buona opinione nel 1973, quando Chelli fu riproposto da Calvino nella sua collana “Centopagine”. Ridusse il romanzo (si può rileggere in “Descrizioni di descrizioni”) a “saggio sceneggiato” contro “la qualità abietta della piccola borghesia italiana”, vista “senza alcun amore”. È il romanzo “del «possesso»”, dice Pasolini. E non “del «possesso» verghiano”, che questo “Ferramonti” peraltro anticipa, “reso epico dal suo fondo popolare e contadino: si tratta di un «possesso» la cui unica epicità consiste nel Male, perseguito senza tentennamenti faustiani”, per l’inconsistenza morale della piccola borghesia. Una lettura monotematica, da realismo socialista, ma anche una pietra tombale. E invece rieccolo – una prima ripresa si era avuta quindici anni fa.
Il tema è in effetti la “roba”. Ma anche il suo contrario: ogni altra aspettativa conculcata dai soldi, la vitalità sopraffatta dalla mediocrità, e l’idiozia. Può anche leggersi come una storia d’amore sopraffatto. Dall’adulterio, seppure non consenziente nelle sue pratiche di letto, e quasi dall’incesto. Può essere – è – una “Bovary” antemarcia, anche per la misoginia flaubertiana dell’ignoto Chelli, che è poi misantropia. Di una Emma-Irene con più spessore, riformatrice e non rassegnata, che invece di suicidarsi per i debiti si inventa una seconda o terza vita, su sfondo balzacchiano. I personaggi sono ambigui, compreso lo stesso capofamiglia “borghese” eponimo, che ha porti passioni, meno però l’avidità.
La collana “Centopagine”, che Pasolini deride nella recensione come “kitsch intelligente” di Fine Secolo, Calvino di proposito avva creato per liberare la scena dal neo realismo, di storie contadine, di borgata, di personale, privata, Resistenza – non abbiamo un’epica della Resistenza.
Il romanzo in realtà aveva infettato Pasolini, che ne scrisse a quasi un anno dalla ripubblicazione. Con un’analisi partecipata, a partire dal titolo, “Dopo Verga e prima di Svevo”. E una disamina acuta del discorso indiretto, la geniale “enfasi sdrucciola propria di quegli anni” - e purtroppo anche dei successivi, di fremiti, palpiti, spasimi, terribili, pallidi, trepidi, fino a lui stesso, il Pasolini narratore oggi indigesto: il discorso che, mentre rappresenta, censura. “Questo Chelli” è quindi in quale modo lui stesso, gli urtava un nervo sensibile.
Resta da dire dell’autore. E della corruzione, che seguì l’unità d’Italia. Il filone è consistente dei romanzi della corruzione e della concussione, in Pirandello, Rovetta, De Roberto. Si cominciò presto con gli scandali, con la Regìa Tabacchi nel 1869, e anzi con le stesse guerre di indipendenza. Il politico moralista “aveva guadagnato molto danaro” in questo romanzo “colle susssistenze militari, nelle guerre di Lombardia”.
L’autore, impiegato a Roma ai tabacchi, era reduce da una piccola attività pubblicistica nella sua città, Massa, di cui aveva redatto per un decennio l’avvisatore commerciale, “L’Apuano”. Nel quale pubblicò a puntate due racconti, e l’inizio di un terzo. Che ripubblicati da Paolo Giannotti nel 2003 in “Racconti dell’Apuano”, Edizioni Publieti, fanno luce sulle fonti. Chelli è stato indirizzato alla riedizione nel 1972 (Calvino, Pasolini) su Verga, quello “francese” (frivolo) di Firenze e quello poi verista. Giannotti trova invece, col metodo dell’acqua calda o delle date, che entrambi, sia Verga che Chelli, ripetono cliché del tempo. A proposito del Verga fiorentino citando Petronio: le fonti sono, “in Italia, la Percoto, Salvatore Farina, e tanti che noi oggi non leggiamo più”. I temi dei racconti sono in effetti, più di questo “Ferramonti”, quelli della letteratura di Fine Secolo: morire d’amore, nella cupa avidità, un orizzonte grigio.
Gaetano Carlo Chelli, L’eredità Feramonti, Elliot, pp. 250 € 18,50 

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