Pasolini
non ne aveva buona opinione nel 1973, quando Chelli fu riproposto da Calvino
nella sua collana “Centopagine”. Ridusse il romanzo (si può rileggere in
“Descrizioni di descrizioni”) a “saggio sceneggiato” contro “la qualità abietta
della piccola borghesia italiana”, vista “senza alcun amore”. È il romanzo “del
«possesso»”, dice Pasolini. E non “del «possesso» verghiano”, che questo
“Ferramonti” peraltro anticipa, “reso epico dal suo fondo popolare e contadino:
si tratta di un «possesso» la cui unica epicità consiste nel Male, perseguito
senza tentennamenti faustiani”, per l’inconsistenza morale della piccola
borghesia. Una lettura monotematica, da realismo socialista, ma anche una pietra
tombale. E invece rieccolo – una prima ripresa si era avuta quindici anni
fa.
Il tema è
in effetti la “roba”. Ma anche il suo contrario: ogni altra aspettativa
conculcata dai soldi, la vitalità sopraffatta dalla mediocrità, e l’idiozia. Può
anche leggersi come una storia d’amore sopraffatto. Dall’adulterio, seppure non
consenziente nelle sue pratiche di letto, e quasi dall’incesto. Può essere – è
– una “Bovary” antemarcia, anche per la misoginia flaubertiana dell’ignoto
Chelli, che è poi misantropia. Di una Emma-Irene con più spessore, riformatrice
e non rassegnata, che invece di suicidarsi per i debiti si inventa una seconda
o terza vita, su sfondo balzacchiano. I personaggi sono ambigui, compreso lo
stesso capofamiglia “borghese” eponimo, che ha porti passioni, meno però
l’avidità.
La collana
“Centopagine”, che Pasolini deride nella recensione come “kitsch intelligente”
di Fine Secolo, Calvino di proposito avva creato per liberare la scena dal neo realismo,
di storie contadine, di borgata, di personale, privata, Resistenza – non
abbiamo un’epica della Resistenza.
Il
romanzo in realtà aveva infettato Pasolini, che ne scrisse a quasi un anno
dalla ripubblicazione. Con un’analisi partecipata, a partire dal titolo, “Dopo
Verga e prima di Svevo”. E una disamina acuta del discorso indiretto, la
geniale “enfasi sdrucciola propria di quegli anni” - e purtroppo anche dei
successivi, di fremiti, palpiti, spasimi, terribili, pallidi, trepidi, fino a
lui stesso, il Pasolini narratore oggi indigesto: il discorso che, mentre rappresenta,
censura. “Questo Chelli” è quindi in quale modo lui stesso, gli urtava un nervo
sensibile.
Resta da
dire dell’autore. E della corruzione, che seguì l’unità d’Italia. Il filone è
consistente dei romanzi della corruzione e della concussione, in Pirandello, Rovetta,
De Roberto. Si cominciò presto con gli scandali, con la Regìa Tabacchi nel
1869, e anzi con le stesse guerre di indipendenza. Il politico moralista “aveva
guadagnato molto danaro” in questo romanzo “colle susssistenze militari, nelle
guerre di Lombardia”.
L’autore,
impiegato a Roma ai tabacchi, era reduce da una piccola attività pubblicistica
nella sua città, Massa, di cui aveva redatto per un decennio l’avvisatore
commerciale, “L’Apuano”. Nel quale pubblicò a puntate due racconti, e l’inizio
di un terzo. Che ripubblicati da Paolo Giannotti nel 2003 in “Racconti
dell’Apuano”, Edizioni Publieti, fanno luce sulle fonti. Chelli è stato indirizzato
alla riedizione nel 1972 (Calvino, Pasolini) su Verga, quello “francese” (frivolo) di
Firenze e quello poi verista. Giannotti trova invece, col metodo dell’acqua calda o
delle date, che entrambi, sia Verga che Chelli, ripetono cliché del tempo. A proposito del Verga fiorentino citando
Petronio: le fonti sono, “in Italia, la Percoto, Salvatore Farina, e tanti che
noi oggi non leggiamo più”. I temi dei racconti sono in effetti, più di questo “Ferramonti”,
quelli della letteratura di Fine Secolo: morire d’amore, nella cupa avidità, un
orizzonte grigio.
Gaetano
Carlo Chelli, L’eredità Feramonti,
Elliot, pp. 250 € 18,50
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