“Benché settantenne e dopo aver occupato quasi senza
interruzione per alcuni decenni la scena pubblica…. egli riesce a rimanere una
novità, e a suscitare tute quelle speranze che di solito si accentrano su un
giovane promettente e alle prime armi. Se non è un buon statista tuttofare, è
però di certo un attore buono per tutte le parti. Ha successo nel genere comico
come nell’eroico, nel patetico come nel familiare, nella tragedia come nella
farsa, benché quest’ultima sia forse la più congeniale alle sue inclinazioni”. La
prosa è di Marx, del 1853, ma come avrà fatto? A scriverne un secolo e mezzo
prima. “Non è un oratore di prim’ordine, ma un polemista sì. Dotato di memoria prodigiosa,
di grande esperienza, di fiuto consolidato, di presenza di spirito, di
signorile versatilità, e della più minuziosa conoscenza dei trucchi parlamentari,
degli intrighi, dei partiti e degli uomini, tratta i casi difficili con
leggerezza, non sgradevole, senza mai perdere di vista i pregiudizi e le suscettibilità
dei suoi sostenitori; la sua cinica impudenza lo mette al riparo da ogni
sorpresa e il suo abile egoismo da ogni confessione; mentre la frivolezza
innata, la perfetta indifferenza e l’aristocratico disprezzo, gli impediscono
di abbandonarsi alle passioni”, Sostituendo affaristico ad aristocratico, Marx
ci azzecca, anche qui. “Grazie al suo umorismo riesce a ingraziarsi tutti. Grazie
alla sua calma inossidabile trionfa sull’avversario appassionato. Quando non è
in grado di padroneggiare un argomento, sa come rigirarlo. Se le idee generali
gli fanno difetto, è sempre pronto a intessere una tela di eleganti genericità.
Dotato di spirito irrequieto, detesta l’inattività, cerca l’agitazione, se non
proprio l’azione”. Diavolo, è proprio lui. Ma Marx non è tenero. “Ciò a cui
mira non è la sostanza, ma la mera sembianza del successo…. Non essendo uomo di
profondi disegni, incapace di meditare combinazioni durevoli e di perseguire
obiettivi elevati, s’imbarca in azioni difficili al fine di tirarsene fuori in
modo teatrale. Ha bisogno di complicazioni per alimentare la propria attività,
e quando non le trova belle e pronte, le inventa”. È proprio lui, non si
saprebbe dire meglio. E invece è lord Palmerston, al secolo Henry John Temple,
terzo visconte Palmerston, 1784-1865, nato dunque nell’Ancien Régime, due volte
primo ministro della regina Vittoria, recordista mondiale della presenza al
governo, per 58 anni praticamente senza interruzioni, dal 1807 al 1865 – tre anni
più di Andreotti.
Marx scrisse di Palmerston a più riprese tra il
1853 e il 1856, in quei tre anni fu la sua ossessione. Sulla “New York Tribune”,
il giornale inglese “The People’s Paper”, quello scozzese “The Glasgow Sentinel”,
la “London Free Press”, e in opuscoli - la “Storia della vita di Lord
Palrmerston” sarà ricomposta postuma su tutti questi scritti nel 1899 da Eleanor
Marx, la figlia. Con qualche
svarione - per anni s’intignò a considerare Palmerston “un agente russo”, del
regime, cioè, e del paese che più di tutti disprezzava.
Marx, che pure è fine analista, su lord Palmerston
satireggia. Perché non riesce a spiegarsi il segreto del successo dell’intramontabile
statista. Diversamente sarà in grado qualche anno dopo di analizzare Luigi
Napoleone, Napoleone III, altro personaggio a lui ostico, contro le letture simpatetiche
che ne davano Victor Hugo e Proudhon. Con uno studio, “Il 18 brumaio”, centrato
sulla situazione e i fatti prima che sul personaggio: “Delle circostanze e una
situazione che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di fare
la parte dell’eroe”. Berlusconi non si può dire un mediocre, ma appassionato
del burlesque lo è.
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