Amore - Per i classici (Aristotele,
Platone, Cicerone, Seneca), non c’è a distanza, ha bisogno di contiguità, di
fisicità – come l’amicizia. Per sant’Agostino, invece, l’amore è, come
l’amicizia, diffusivum sui, una
sorgente che zampilla.
Il problema è posto nelle “Confessioni”, 4, 14,
21-23, a proposito del primo trattato del santo ancora manicheo, “La bellezza e
la convenienza”, da lui dedicato a un personaggio che non conosceva, l’oratore
(siriaco, greco, latino) Gerio, per l’attrazione che le lodi di cui era
circonfuso esercitavano.
Autofiction – È
un’automutilazione: non si fa a meno impunemente dell’intimità, del riserbo,
della sobrietà.
È un
forma di mutismo, seppure logorroica: chiude e non esalta l’introspezione. I
suoi limiti sono quelli ormai scontati della “piazza” internettiana, della
tribunetta face book, dei selfie
lusinghieri, del twitter-pensiero, istantaneo, aforistico.
È il
segno del tempo: pensiero, immagine, narrazione, epica.
Orwell
ipotizzava la Neo Lingua come quella in grado di “restringere al massimo la
sfera d’azione del pensiero” L’autofiction ne è una, sotto il segno della messa
in libertà, dai tabù, i pregiudizi, le omissioni.
Civiltà – È diventata un modo di essere, un altro, uno
dei tanti. Mobile, solo caratterizzato, eventualmente, dalla novità, dal mutamento.
Reca implicito il segno del progresso, ma non più di agente attivo -
l’innovazione non è più progressiva, benefica, democratica. Non è più sentita
né costruita come tale.
L’elettricità
si legava fine Ottocento con la fiducia
e l’entusiasmo, “Excelsior”. Internet e la telematica sono dopo un secolo, benché formidabili innovazioni,
disgiunte da energia e entusiasmo: non si crea nulla, non si pensa di creare
nulla con questi nuovi strumenti. Non è vero, perché il mezzo è già la cosa, ma
così sono intesi: l’innovazione si vuole priva di capacità ricostitutiva.
Internet - È un linguaggio in codice, sotto l’apparenza
ugualitaria, se non libertaria. Quindi un linguaggio governato. Come tutti i
linguaggi, ma di più. Per la stessa pretesa alla libertà e alla democrazia.
È
degenerativo per la memoria, secondo il filone di studi consolidato sulla
“demenza digitale”. Il motore di ricerca più che un sussidio è un sostituto.
Della memorizzazione e dell’esercizio critico – peggio quando internet, come è
ora la tendenza didattica, si sostituisce all’apprendimento – ricerca, discussione,
confronto. L’esperienza è comune: il multitasking,
o task switching, è servizievole, ma
distorsivo: forma poco e distrae molto.
Lingua – È un orizzonte. Familiare,
tribale, comunitario (religioso, settario, politico, professionale), nazionale,
cosmopolita. Una diversa risposta per ogni orizzonte. Ma sempre storicizzato.
Nella breve storia europea postbellica c’è stata una stagione cosmopolita,
fortemente individuata. E da un quarantennio, con l’allontanamento della guerra
e la fine della guerra fredda, un’introversione. Un ritorno fortemente locale,
entro un orizzonte.
La
natura della lingua, e il suo canone, si possono argomentare con l’esempio
dell’emigrato di ritorno. L’emigrato
che resta incistato nel dialetto dei suoi anni, di quando è partito, mentre
nella comunità di origine la lingua (parole, significati, pronuncia) è mutata,
questa è la chiave: la lingua, dialetto, compreso, vive. Nel suo terreno di cultura, naturalmente. L’emigrato invece
la mantiene ben conservata ma morta – folklorica – mentre fuori casa egli
stesso si trapianta, o ambisce a farlo, seppure in terreno ostile o estraneo.
Lo
stesso per le necessarie parentele. Benvenuto Terracini ha la lingua
“centripeta”, che si rinnova con gli apporti dalla periferia al centro, dai
dialetti. Sciascia pretende ch il dialetto sia “la cosa”, il fatto in sé. Forse
per un misoneismo passatista – è vero che il dialetto “dice” di più, ma come
ogni lingua materna, dell’infanzia. Più in generale, il dialetto è una
conformazione di una lingua – un adattamento, fonetico, glottologico,
morfologico, la diversificazione della lingua stessa. Ma è anche un fatto di
aspettative deluse. Un colpo al sentimento innato dell’immodificabilità della
lingua. La delusione dell’emigrato di ritorno è l’esito delle aspettative, il
loro rovesciamento. Ed è vissuta come un tradimento: l’emigrato di ritorno soffre l’innovazione
come una sorta di tradimento dell’identità.
La lingua per natura non isola. Più spesso
l’apporto dell’immigrato – invertendo la direzioni di marcia, rispetto
all’emigrato, cioè - è vissuto come un’innovazione, linguistica oltre che di
costume, mentalità, e pratica (culinaria, religiosa).
Malattia
– È la
condizione normale. L’esere-per-la-morte si è trasformato in vivere-per-morire.
Con una sorta di voluttà. Grazie anche alla diffusione della malattia mentale,
bacino inesauribile di morbilità. Il Diagnostic and Statistical Manual, la
bibbia del settore, ne repertoria periodicamente novità a decine. Specie da
ultimo, con le sindromi adolescenziali e infantili. Ben oltre la
“medicalizzazione” della società – l’industria della salute che il filosofo-economista
di Mitterrand, Jacques Attali, profetizzava quarant’anni fa come industria del
futuro. Come se l’essere umano non fosse fatto per vivere (crescere,
riprodursi, produrre) ma per spegnersi. È una finalizzazione della vita al
rovescio. della professione
È un rovesciamento storico. Di cui non s’indaga
la ragione, se non l’origine o la “causa”. In parallelo on la desacralizzazione
del mondo e quindi della vita, o in rapporto di causa ed effetto? Ma non si può
non legare, se non per la contemporaneità, (anche) alla repletudine, come una sorta
di nausea, di rigetto fisiologico. L’istinto vitale vive, per l’individuo e
nella società (storia), finché il bisogno vitale (minimo vitale) rimane vivo –
finché ce n’è bisogno. Si spegne, paradossalmente, quando non ce n’è bisogno.
Nella vita come in ogni altro spazio
Niente – È la cosa stessa. Contestato come impossibilità logica, è l’inafferrabilità
del reale. È parola (concetto) non affermativa ma autodenegante. una parola che
è la negazione di se stessa. Un segno che è il suo contrario.
Suicidio - Dickens
pare abbia detto: “La vita ci è stata data a patto di difenderla con coraggio
fino all’ultimo respiro”. Che sembra sentenza di significato univoco e profondo
e invece è vaga. Sempre, beninteso, è questione di vita e di morte. Il padre di
Šklovskij, ebreo battezzato, che la moglie abbandonò col primo figlio, si
trafisse da parte a parte con una daga, sopravvisse, si risposò, ebbe Viktor, e
dopo una trentina d’anni s’accorse, insieme con la seconda moglie, che si
amavano. Un’altra legge di Enrico Morselli lega i suicidi alle nascite: tanto
più crescono quelli, tanto più si moltiplicano queste. Ma un’unica legge o
causa non c’è. Secondo la Duras gli uomini hanno inventato il suicidio come il
canto e la divinità, contro la vita, per tedio. Non tutti quindi, solo chi non
ha altro da fare.
Oppure, si dice, la vita può essere tolta agli
uomini malgrado tutto, giacché viene loro data. Ma
che c’è la vita? Che non pone domande. Sì, chi siamo, dove andiamo, da dove veniamo, ma questo è stimolo nervoso, o
un passatempo.
zeulig@antiit.eu
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