mercoledì 8 gennaio 2014

Secondi pensieri - 161

zeulig

Amore - Per i classici (Aristotele, Platone, Cicerone, Seneca), non c’è a distanza, ha bisogno di contiguità, di fisicità – come l’amicizia. Per sant’Agostino, invece, l’amore è, come l’amicizia, diffusivum sui, una sorgente che zampilla.
Il problema è posto nelle “Confessioni”, 4, 14, 21-23, a proposito del primo trattato del santo ancora manicheo, “La bellezza e la convenienza”, da lui dedicato a un personaggio che non conosceva, l’oratore (siriaco, greco, latino) Gerio, per l’attrazione che le lodi di cui era circonfuso esercitavano.

Autofiction –  È un’automutilazione: non si fa a meno impunemente dell’intimità, del riserbo, della sobrietà.
È un forma di mutismo, seppure logorroica: chiude e non esalta l’introspezione. I suoi limiti sono quelli ormai scontati della “piazza” internettiana, della tribunetta face book, dei selfie lusinghieri, del twitter-pensiero, istantaneo, aforistico.

È il segno del tempo: pensiero, immagine, narrazione, epica.
Orwell ipotizzava la Neo Lingua come quella in grado di “restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero” L’autofiction ne è una, sotto il segno della messa in libertà, dai tabù, i pregiudizi, le omissioni.

Civiltà – È diventata un modo di essere, un altro, uno dei tanti. Mobile, solo caratterizzato, eventualmente, dalla novità, dal mutamento. Reca implicito il segno del progresso, ma non più di agente attivo - l’innovazione non è più progressiva, benefica, democratica. Non è più sentita né costruita come tale.
L’elettricità si legava  fine Ottocento con la fiducia e l’entusiasmo, “Excelsior”. Internet e la telematica sono dopo un  secolo, benché formidabili innovazioni, disgiunte da energia e entusiasmo: non si crea nulla, non si pensa di creare nulla con questi nuovi strumenti. Non è vero, perché il mezzo è già la cosa, ma così sono intesi: l’innovazione si vuole priva di capacità ricostitutiva.

Internet - È un linguaggio in codice, sotto l’apparenza ugualitaria, se non libertaria. Quindi un linguaggio governato. Come tutti i linguaggi, ma di più. Per la stessa pretesa alla libertà e alla democrazia.
È degenerativo per la memoria, secondo il filone di studi consolidato sulla “demenza digitale”. Il motore di ricerca più che un sussidio è un sostituto. Della memorizzazione e dell’esercizio critico – peggio quando internet, come è ora la tendenza didattica, si sostituisce all’apprendimento – ricerca, discussione, confronto. L’esperienza è comune: il multitasking, o task switching, è servizievole, ma distorsivo: forma poco e distrae molto.

Lingua – È un orizzonte. Familiare, tribale, comunitario (religioso, settario, politico, professionale), nazionale, cosmopolita. Una diversa risposta per ogni orizzonte. Ma sempre storicizzato. Nella breve storia europea postbellica c’è stata una stagione cosmopolita, fortemente individuata. E da un quarantennio, con l’allontanamento della guerra e la fine della guerra fredda, un’introversione. Un ritorno fortemente locale, entro un orizzonte.

La natura della lingua, e il suo canone, si possono argomentare con l’esempio dell’emigrato di ritorno. L’emigrato che resta incistato nel dialetto dei suoi anni, di quando è partito, mentre nella comunità di origine la lingua (parole, significati, pronuncia) è mutata, questa è la chiave: la lingua, dialetto, compreso, vive. Nel suo terreno di cultura, naturalmente. L’emigrato invece la mantiene ben conservata ma morta – folklorica – mentre fuori casa egli stesso si trapianta, o ambisce a farlo, seppure in terreno ostile o estraneo.
Lo stesso per le necessarie parentele. Benvenuto Terracini ha la lingua “centripeta”, che si rinnova con gli apporti dalla periferia al centro, dai dialetti. Sciascia pretende ch il dialetto sia “la cosa”, il fatto in sé. Forse per un misoneismo passatista – è vero che il dialetto “dice” di più, ma come ogni lingua materna, dell’infanzia. Più in generale, il dialetto è una conformazione di una lingua – un adattamento, fonetico, glottologico, morfologico, la diversificazione della lingua stessa. Ma è anche un fatto di aspettative deluse. Un colpo al sentimento innato dell’immodificabilità della lingua. La delusione dell’emigrato di ritorno è l’esito delle aspettative, il loro rovesciamento. Ed è vissuta come un tradimento:  l’emigrato di ritorno soffre l’innovazione come una sorta di tradimento dell’identità.

La lingua per natura non isola. Più spesso l’apporto dell’immigrato – invertendo la direzioni di marcia, rispetto all’emigrato, cioè - è vissuto come un’innovazione, linguistica oltre che di costume, mentalità, e pratica (culinaria, religiosa).

Malattia – È la condizione normale. L’esere-per-la-morte si è trasformato in vivere-per-morire. Con una sorta di voluttà. Grazie anche alla diffusione della malattia mentale, bacino inesauribile di morbilità. Il Diagnostic and Statistical Manual, la bibbia del settore, ne repertoria periodicamente novità a decine. Specie da ultimo, con le sindromi adolescenziali e infantili. Ben oltre la “medicalizzazione” della società – l’industria della salute che il filosofo-economista di Mitterrand, Jacques Attali, profetizzava quarant’anni fa come industria del futuro. Come se l’essere umano non fosse fatto per vivere (crescere, riprodursi, produrre) ma per spegnersi. È una finalizzazione della vita al rovescio. della professione

È un rovesciamento storico. Di cui non s’indaga la ragione, se non l’origine o la “causa”. In parallelo on la desacralizzazione del mondo e quindi della vita, o in rapporto di causa ed effetto? Ma non si può non legare, se non per la contemporaneità, (anche) alla repletudine, come una sorta di nausea, di rigetto fisiologico. L’istinto vitale vive, per l’individuo e nella società (storia), finché il bisogno vitale (minimo vitale) rimane vivo – finché ce n’è bisogno. Si spegne, paradossalmente, quando non ce n’è bisogno. Nella vita come in ogni altro spazio

Niente – È la cosa stessa. Contestato come impossibilità logica, è l’inafferrabilità del reale. È parola (concetto) non affermativa ma autodenegante. una parola che è la negazione di se stessa. Un segno che è il suo contrario.

Suicidio - Dickens pare abbia detto: “La vita ci è stata data a patto di difenderla con coraggio fino all’ultimo respiro”. Che sembra sentenza di significato univoco e profondo e invece è vaga. Sempre, beninteso, è questione di vita e di morte. Il padre di Šklovskij, ebreo battezzato, che la moglie abbandonò col primo figlio, si trafisse da parte a parte con una daga, sopravvisse, si risposò, ebbe Viktor, e dopo una trentina d’anni s’accorse, insieme con la seconda moglie, che si amavano. Un’altra legge di Enrico Morselli lega i suicidi alle nascite: tanto più crescono quelli, tanto più si moltiplicano queste. Ma un’unica legge o causa non c’è. Secondo la Duras gli uomini hanno inventato il suicidio come il canto e la divinità, contro la vita, per tedio. Non tutti quindi, solo chi non ha altro da fare.
Oppure, si dice, la vita può essere tolta agli uomini malgrado tutto, giacché viene loro data. Ma che c’è la vita? Che non pone domande. Sì, chi siamo, dove andiamo, da dove veniamo, ma questo è stimolo nervoso, o un passatempo.

zeulig@antiit.eu

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