sabato 18 gennaio 2014

Secondi pensieri - 162

zeulig

Heidegger - Ce n’è uno cristiano, e anzi cattolico – persuasivo (coerente). Un po’ pervertito dal litigioso – razzista - luteranesimo della moglie-padrona, la matriarca che i figli, almeno uno, gli fece fuori dal matrimonio, e lo impegnò sempre a tradirla. Ma tollerante e aperto – del resto era stato chierichetto, seminarista, quasi gesuita, e professore di scolastica. Compassionevole. Oltremondista: l’Occidente, la cultura, è decadente, nichilista, per occultare la verità privilegiando l’apparenza, sia pure nell’immaginifico di Nietzsche, nell’asservimento e nell’affanno. Fine analista della condizione umana, delle parole della condizione umana, e pure censore e quasi predicatore. Né si può obiettargli: la sua “inautenticità” è un fatto, checché inautentico sia, che si manifesta nel vaniloquio e il disimpegno, e si impersona nell’impersonale “si”, della “vita del generalmente e per lo più”, irresponsabile inconcludente, alla tecnica asservito e al consumo (bisogno).

La prima eco aveva avuto dai teologi, i quali credettero “Essere e tempo” un appello a una relazione autentica con la morte, e l’ontologia, con più fondamento, un altro nome per metafisica. L’altra lettura fu quella fenomenologica: l’analitica dell’esistere, il tempo, l’angoscia, il si dice, la cura. Ma l’antropologia della coscienza, si disse, è proprio quello che Heidegger vuole rovesciare. Essendo ripartito, fatte tutte le tare, da Aristotele e dal principio di non contraddizione, dalla domanda che non è posta: “In quale modo dev’essere dimostrato ciò per cui nessuna prova è possibile?”
A prima vista è il pagano moderno, che non sa e non vuole uscire dal mondo, dove situa pure Dio, che non nomina ma non rifiuta. È invece il chierichetto eterno – la sua Cura è don Milani, seppure americanizzato, “I care”. Al primo insegnamento a Marburg tenne un seminario su san Tommaso, De Ente et Essentia, in latino, ancora non lo spregiava, utilizzando il commento di Tommaso de Vio, il cardinale “Gaetano”. Le percezioni di Heidegger, disse Jaspers subito, sono mistiche, presentate speculativamente in parabola, immagine e poesia.

Maestro - S.Agostino lo dice una sorta di lettore, uno che legge insieme al discepolo. Un comunicatore (interprete) di linguaggi. Ma è un ordinatore: la sua lettura è esemplare. In  musica si vede meglio, o nello sport: il maestro-allenatore è l’ordine anzitutto, in un patto di fedeltà reciproca di cui è però l’interprete e il custode. Anche il maestro a scuola – ogni sperimentazione egualitaria ha fallito, il lavoro di gruppo esige una guida, e anzi la esige più sofisticata (più autorevole).
È un caso dei ruoli, il più alto. Il maestro-allenatore-capo che non ha o non esercita l’autorità è superfluo e dannoso.

Nome – Perché il proprio nome non dovrebbe essere sacro per l’essere umano?”, è quesito retorico di Wittgenstein. Che lo rivendica in questi termini: “Se da un lato è lo strumento più importante che gli viene dato, dall’altro è come un gioiello che gli viene messo addosso”. Mentre è il segno dell’identità: il nome identifica e custodisce l’identità. Anche prima o fuori dell’anagrafe. Anche prima del linguaggio. Per il “miracolo” (ineffabile) della procreazione, l’atto più creativo che esista.

Ruoli –Sono scaduti, nel fraintendimento generale dell’uguaglianza, senza benefici, molta confusione, e qualche danno. In famiglia si vede. Che il padre faccia da madre non solo è contro natura ma anche una necessaria automutilazione: è un scadimento della sua identità, con danni per il figlio più che benefici. Con insoddisfazione della madre, cui pure si deve quello scadimento per un malinteso femminismo. Che l’alunno faccia il discente, il professore l’alunno. L’adulto si ringiovanisca.

SuicidioI giainisti dell’India si lascia(va)no morire, pare, per spregio del corpo. Per i filosofi il suicidio viene con la malattia: Plotino nel “Libro delle beatitudini”, Platone nel “Fedro” e le “Leggi”, i cinici, Epicuro. Gli stoici, che tanta cura avevano di sé, si suicidavano, portando a esempio Catone, Didone, Lucrezia e Lucrezio, Cleopatra, Seneca, la nota Sofonisba, Annibale, Licurgo, Temistocle, Aristotele, Crisippo, Empedocle, Zenone, Rasia, Saul, Gionata, Demostene, Sansone. E Annibale, se si uccise. Si uccidevano molto i romani. Compresi i due spiriti maggiori che Dio diede loro, Lucrezio e Seneca – benché di Lucrezio san Girolamo sostenga ch’era pazzo. Uccidersi era a Roma pratica sociale: Vibio Virio, Giunio Bruto, Tito Cornelio Attico, Cornelio Rufo, Planco, Censorio, perfino un gruppo di senatori campani. “Perché altrimenti in natura si troverebbero tanti veleni?”, chiede Plinio. È la via della libertà per Seneca, “una vena qualsiasi del corpo” - ma di gusto teatrale per Montesquieu: “Il suicidio veniva comodo per l’eroismo, ognuno facendo finire la scena che rappresentava là dove voleva”. Publio Decio Mure, padre e figlio, s’immolarono caricando da soli i nemici per la gloria di Roma, quello i latini, questo i galli.
Ma non si ebbero in tutto l’impero romano tanti suicidi quanti nella Germania del kaiser sconfitto: in duecentomila si uccisero tra il ‘19 e il ‘22. Grande esercizio dunque dell’antica virtù tedesca, se il suicidio è marchio di libertà, prima di consegnarsi a Hitler. Si uccidevano pure i cani. Gli animali non si suicidano, ma un tipo di mastino tedesco sa farlo.

Wittgenstein, dei cui quattro fratelli tre si suicidarono e uno, il primogenito molto amato, pianista avviato, tornò dalla guerra senza un braccio, lo dice illecito: “Se è lecito il suicidio, allora tutto è lecito. Se esiste qualcosa che non è lecito, allora il suicidio non lo è”. Oppure no: “Oppure il suicidio in sé non è né buono né cattivo”.
Il fatto è oscuro per Wittgenstein in quanto “esso getta una luce sull’essenza dell’etica. Poiché il suicidio è, per così dire, il peccato fondamentale. E quando lo si interroga è come se si interrogasse il vapore di mercurio per capire l’essenza dei vapori”. Sfugge.

Vuoto – Non c’è ne pensiero – lo yoga è un esercizio. Si vuole impossibile in politica: ogni spazio vuoto è subito occupato. E in fisica? Dirac lo trovò popolato da infiniti elettroni con energia negativa – “il mare di Dirac”.
L’antimateria Dirac certificò suo malgrado: lo riteneva un concetto privo di senso fisico.

zeulig@antiit.eu

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