Avviene a
Camilleri, nato a Porto Empedocle in una famiglia che usava l’italiano
frammisto al dialetto, da sessant’anni lontano dalla Sicilia, con moglie e
figlie romane, a volte senza contatti con l’isola per un anno o più, di non
poter esprimere un concetto o un senso se non in siciliano, nel “suo” siciliano
– che è ben diverso da quello di Catania etc. Recependo però con fastidio
l’etichetta di “scrittore siciliano”. È la cosa più notevole della
conversazione, i ricordi e le tecniche scrittorie di Camilleri – non diverse
dalle spieghe anteriori.
È un libro
d’autore. Di autori. Tutto sull’amarcord. Ci sono Calvino, Benvenuto Terracini
e Wittgenstein, ma di più i ricordi, cioè il fascismo. Ce è sempre nostalgia, .sotto
l’avversione. Di qualche squarcio interessante ci lasciano col desiderio. De
Mauro, giovane accademico a Palermo, ricorda che “quando la discussione si
accendeva – e quando c’era Sciascia capitava spesso”, si slittava sul dialetto.
Sciascia era polemico? No, parlava poco. Sciascia non era allineato al Pci? Più
probabile. Ancora De Mauro, accademico avventizio a Palermo, e con lui il
giovane Luigi Spaventa, fine anni 1960, non riuscivano a spiegare agli amici a
Roma che la mafia “esiste”, a persone “accreditate della migliore cultura
italiana”: non capivano, ne ridevano.
Ma c’è
Pirandello, scrittore in dialetto, traduttore anche dal greco all’agrigentino –
che il dialetto, stabilì, è “la cosa stessa” (non è vero, ma rende l’idea). C’è
la teoria delle emozioni. C’è quella delle parentele – Camilleri: tra lingua e
dialetti è come tra l’albero e le fronde, dalle quali trae la linfa. E c’è una
voglia di dialetto, forte . Fortissima: Camilleri e De Mauro ne discutono per perdonarsela,
per esorcizzarla. E questo è Strapese, Maccari e Malaparte - che ertano anche loro fascismo. Anzi, è leghismo –
eh sì. Nella forma alta, naturalmente, De Mauro è fulminato da Meneghello,
“Libera nos a malo”. È un’introflessione che è una forma di retroflessione.
I dialetti,
dunque. Che dirne, che i due ottantenni ingordi non si dicono e non ci dicono? L’emigrato che
resta incistato nel dialetto dei suoi anni, di quando è partito, mentre nella
comunità di origine la lingua (parole, significati, pronuncia) è mutata, questa
è la chiave: la lingua, dialetto, compreso, vive.
Nel suo terreno di cultura, naturalmente. L’emigrato invece la mantiene ben
conservata ma morta – folklorica – mentre fuori casa si trapianta in terreno
ostile o estraneo.
Lo stesso per le necessarie parentele. Camilleri
ricorda, Benvenuto Terracini e la lingua “centripeta”, che si rinnova con gli
apporti dalla periferia al centro. Il dialetto è una conformazione di una
lingua – un adattamento, fonetico, glottologico, morfologico, la diversificazione
della lingua stessa. Ma è anche un fatto di aspettative deluse. Un colpo al
sentimento innato dell’immodificabilità della lingua. La delusione dell’emigrato
di ritorno è l’esito delle aspettative, il loro rovesciamento. Ed è vissuta
come un tradimento: l’emigrato di
ritorno soffre l’innovazione come una sorta di tradimento dell’identità.
La
lingua per natura, e dunque il dialetto, non isola: più spesso l’apporto
dell’immigrato – invertendo la direzioni di marcia - è vissuto come un’innovazione,
linguistica oltre che di costume, mentalità, e pratica (culinaria, religiosa).
Le tante esperienze di drammaturgia italiana oltralpe, a partire dal Seicento,
o anglo-americana in questo dopoguerra in Italia, o di canto, e perfino di
scrittura, attestano la comunicabilità delle lingue.
Per
restare in armonia con i discutanti, molto “siciliani”, si prenda Pippo
Pollina. Siciliano cento per cento, nemmeno emigrato, e sempre in palla su temi
italiani, in lingua italiana, è
stanziale nel mondo tedesco, vivendo stabilmente, da trenta dei suoi
cinquant’anni, a Zurigo. È un artista “germanico”, popolare lungo l’asse
Svizzera, Germania, Svezia, che canta in italiano. Il concerto che ha dato all’Arena
di Verona il 12 agosto, per i trent’anni della sua “germanizzazione” – uno dei
suoi rari concerti in Italia, anticipato a gennaio da una presentazione al
Parco della musica romano – è stato onorato soprattutto da un pubblico tedesco.
È vero che era cantato per metà in tedesco, “Süden” – il disco-spettacolo è costituito
da sedici canzoni, che si susseguono una in italiano e una in tedesco. La
lingua è familiare, tribale, comunitaria (politica, religiosa, settaria),
nazionale, cosmopolita.
Andrea
Camilleri-Tullio De Mauro, La lingua
batte dove il dente duole, Laterza, pp. 126 € 14
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