“Focu focu! focu meu! focu
randi meu!” è intercalare calabrese di scongiuro e lamento. Ora desueto – anche
se esplose l’altra estate a un bar da designer
a Catanzaro, minimal e freddo, a opera della cassiera tacchi dodici e ombelico
scoperto, che, chiamata al cellulare mentre proponeva con lo scontrino le
cartoline di un’amica concorrente a miss (“Non c’è bisogno di spedirle, non ci
vuole il francobollo, basta una firma, ci penso io a inoltrarle, eh sì, bisogna
combattere”), si scusò, e a chi la chiamava oppose un allarmatissimo “Focu meu!
Focu meu! Fora gabbu”, fuori malocchio, magari all’aspirante miss. “Fuoco
grande” è titolo editoriale, di Calvino, che ritroverà il dattiloscritto nel
lascito di Pavese e ne sarà affascinato.
Riedito dieci anni fa con
notevole apparato da Mariarosa Masoero, 40 fittissime pagine per 60 di testo,
il racconto è di un’incapacità di amare, esito delle violenze in famiglia. O di
solitudini parallele. Esplose in un “ritorno
a casa”, a Maratea. Un racconto che – altro inciso, pertinente - può avere
ispirato il più noto “Simultan” di Ingeborg Bachmann, il titolo originario
della raccolta della scrittrice austriaca ora nota come “Tre sentieri per il
lago”, che anch’esso si svolge a Maratea, insolita location, con copione quasi identico. Famoso subito, alla
pubblicazione nel 1959, con copertina importante di Guttuso, per essere stato
scritto da Pavese a quattro mani con Bianca Garufi, segretaria della Einaudi a
Roma nel 1945, di cui naturalmente lo scrittore s’era infatuato - poi andata sposa a Felice Chilanti. Un capitolo lui,
“Giovanni”, uno lei, “Silvia”, lo stesso plot
visto da lui e visto da lei - un meccanismo che due anni prima Giono aveva
inaugurato in “Les
Âmes fortes”. Su un’idea di Bianca Garufi.
La scrittura fu appassionata per sei-sette settimane tra febbraio e
aprile 1946. Contornata da una corrispondenza febbrile, puntuta, piena di cose.
Compresi i “rolling stones” del proverbio inglese caro a Erasmo e agli
psichiatri della schizofrenia, “pietra che rotola non raccoglie muschio”, in
anticipo quindi su Jagger. La febbre era alta: già da prima, da subito, da
settembre 1945, Bianca aveva monopolizzato i diari (“Il mestiere di vivere”) e
le lettere di Pavese. Che a lei si ispirava per le poesie
“La terra e la morte” (“poesie d’amore” - Calvino) e i “Dialoghi con Leucò”, pubblicati
nel 1947. Quando uscirono i “Dialoghi”, Pavese li dedicò privatamente a Bianca.
Ma intanto la fiamma si era spenta. Il racconto giacque non finito – cioè finito,
è un racconto compiuto, ma non rispetto al progetto originario, di un romanzone
borghese pieno di vicissitudini.
Pavese intitolava il
racconto “Viaggio nel sangue”. E così è: la dose autobiografica è notevole. Nell’infatuazione
prima: “Silvia era nata di terra e di sangue come penso alle volte che nascano
i cavalli o i tronchi più belli dei boschi”. E poi nel disinganno. Come se
Pavese avesse trovato nella co-autrice (che poi, dopo un’analisi con Ernst Bernhard,
sarà stimata analista junghiana), la stessa incapacità di amare, anche se
non della stessa natura: una cosa che
viene anch’essa dal “sangue”. È Silvia che glielo dice: “Hanno una loro
sostanza le cose, a volte non si può scappare”.
Cesare Pavese-Bianca Garufi,
Fuoco grande
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