Una società colta necessita
di un sistema sociale strutturato in classi. Non è il manifesto di un conservatore,
è la constatazione di un fatto: una società civile non è ancora esistita, ed è
improbabile che si produca, in assenza di una stratificazione. Vista “da
sinistra”, è una conclusione che ben si attaglia al mondo globale dopo la
caduta del Muro, ed è ormai un terzo di secolo, piatto e amorfo, anche nel
verbo dominante dell’arricchitevi.
Eliot si fa rileggere per la
pregnanza dell’argomentazione. Mentre, non avendo precedenti, non sappiamo come
sarà una società senza classi, sappiamo per esperienza che gli esiti migliori
in campo culturale sono di ristretti gruppi di individui, in certo modo
selezionati, in quanto parte di gruppi etnici, o familiari, nel quadro di un
assetto sociale non egualitario. Non chiusi, e anzi aperti: il tradizionalista
Eliot sa e dice che la tradizione è viva solo se si evolve, e che la “classe”
continua a produrre cultura solo se si adatta ed evolve – tradizione e classe
si distinguono se si trasformano. Eliot evita così il classismo – non argomenterebbe
che la schiavitù era necessaria alla’ottima filosofia greca. È pessimista, come
ogni conservatore (non c’è più la cultura di una volta, etc.). Ma sul classismo
si limita a una sorta di realkultur, se
si potesse dire.
Si leggeva questa riflessione
all’uscita sessant’anni fa (tradotta da Giorgio Manganelli) probabilmente in
chiave di guerra fredda e anticomunismo. Oggi ha bizzarramente valenza
contraria, contro la società piatta del libero mercato.
T.S.Eliot, Appunti per una definizione di cultura
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