mercoledì 12 febbraio 2014

La cultura si vuole di classe

Una società colta necessita di un sistema sociale strutturato in classi. Non è il manifesto di un conservatore, è la constatazione di un fatto: una società civile non è ancora esistita, ed è improbabile che si produca, in assenza di una stratificazione. Vista “da sinistra”, è una conclusione che ben si attaglia al mondo globale dopo la caduta del Muro, ed è ormai un terzo di secolo, piatto e amorfo, anche nel verbo dominante dell’arricchitevi.
Eliot si fa rileggere per la pregnanza dell’argomentazione. Mentre, non avendo precedenti, non sappiamo come sarà una società senza classi, sappiamo per esperienza che gli esiti migliori in campo culturale sono di ristretti gruppi di individui, in certo modo selezionati, in quanto parte di gruppi etnici, o familiari, nel quadro di un assetto sociale non egualitario. Non chiusi, e anzi aperti: il tradizionalista Eliot sa e dice che la tradizione è viva solo se si evolve, e che la “classe” continua a produrre cultura solo se si adatta ed evolve – tradizione e classe si distinguono se si trasformano. Eliot evita così il classismo – non argomenterebbe che la schiavitù era necessaria alla’ottima filosofia greca. È pessimista, come ogni conservatore (non c’è più la cultura di una volta, etc.). Ma sul classismo si limita a una sorta di realkultur, se si potesse dire.
Si leggeva questa riflessione all’uscita sessant’anni fa (tradotta da Giorgio Manganelli) probabilmente in chiave di guerra fredda e anticomunismo. Oggi ha bizzarramente valenza contraria, contro la società piatta del libero mercato.
T.S.Eliot, Appunti per una definizione di cultura

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