Orwell è scrittore dalle
idee chiare, che espone con semplicità, prima che scrittore. Negli articoli, e
anche nelle recensioni, di questa raccolta, 100 pezzi in tutto, ha squarci di
realtà ancora inesplorati dalla storiografia. Sull’India, la Birmania, la
guerra di Spagna, La Cina remota e vicina: “Se la Cina dovesse prendere la
strada del Giappone le conseguenze sarebbero davvero difficili da immaginare”,
scrive nel1944: “La Cina costruisce già mitragliatrici, e tra breve inizierà
senza dubbio a fabbricare aerei da combattimento”. Sul fascismo che prospera
anche senza guerre: “Il nodo centrale del fascismo sembrerebbe consistere non
tanto nel fatto che esso risolve i problemi facendo la guerra, quanto piuttosto
che li risolve in modo non democratico e senza abolire la proprietà privata”.
Sul libero mercato con le famose “regole”, mentre è intrinsecamente
monopolistico, per un motivo semplice: “Il problema con le gare è che qualcuno
le vince”. E con pezzi d’antologia, un mondo in due pagine: sulla speleologia,
il nazionalista indiano, lo stereotipo del cinese (“chiana man”), le Faroer, e
su molti letterati, Conrad, Stevenson, Dickens più volte, Cyril Connolly,
Edmund Wilson.
Insuperato è anche nelle
corrispondenza del giugno-luglio 1945 in “Europa” - l’Europa continentale è per
Orwell “Europa”. In Francia, il partito Comunista è “il meno anticlericale tra i partiti della
sinistra”. I tedeschi, tra le macerie, sono “ben nutriti, ben vestiti”, meglio
degli inglesi vincitori, con “biciclette più nuove e calze di seta”, solo
vergognosi “terribilmente di aver perso la guerra”. Senza un cenno, né a
Parigi, né a Vienna, Berlino, Amburgo e qua e là per la Germania, ai campi di
sterminio: non se ne parla, non si sa. La grande questione èa come gestire i
deportati, quattro milioni e mezzo di
russi, polacchi, francesi, italiani, etc., al lavoro in Germania, molti di essi
volontari, tutti remunerati e nutriti, fino alla fine della guerra, e in regola
con le norme tedesche a protezione del lavoro, da sfamare e rimpatriare. Mentre
si dà per certo che non finirà presto la guerra in Asia, contro il Giappone –
la Bomba arriverà il 6 agosto. “La fattoria degli animali” è già uscita, con
scandalo, ma Orwell chiede ripetutamente un piano di ricostruzione
anglo-americano che possa coinvolgere l’Urss, paventando quella che si chiamerà
la guerra fredda.
Questa chiarezza spiega
Orwell, l’isolamento che accompagna la verità. L’anarchico conservatore il cui
momento non è mai venuto in Italia, non senza motivo: la cultura più lontana
dalla vera libertà – che non è quella dei vecchi liberali. Orwell non edulcora
- anche la vittima può rifulgere vincente, se compassionevole e compassionata.
Drammatizza, col senso della storia. Ma anche questo con semplicità, mantenendo
vigile il gusto del giusto e dell’ingiusto. L’ultimo suo lettore, il filosofo
francese Jean Claude Miquéa, ne spiega il socialismo con la formula a lui cara della
“common decency”, non banale come sembra: “La common decency si áncora nelle strutture elementari della reciprocità che
fondano da sempre la vita collettiva… Orwell aveva perfettamente ragione di
sottolineare il fine «conservatore» di ogni progetto rivoluzionario. La
possibilità di una vera società socialista dipenderà in gran parte dalla
capacità delle persone comuni di preservare le
condizioni morali e culturali della loro propria umanità”. La “decenza” è
coniugare l’economia sociale con la libertà, dice qui Orwell ,“il che può
avvenire solo se i concetti di giusto e sbagliato saranno restituiti alla politica”.
La prefazione di Jonathan
Heawod, il direttore dell’“Observer” che dispose la raccolta dieci anni fa, lo ricorda
isolato ancora in vita, malgrado i successi di giornalista e scrittore. “La
Fattoria degli animali”, terminata a fine febbraio 1944, le ci volle un anno per
trovare un editore. Victor Gollancz la respinse perché anticomunista, T.S. Eliot
la respinse, per conto di Faber, perché “troppo solidale”, cioè comunista, Jonathan
Cape su consiglio di un amico al ministero dell’Informazione, secondo il quale la
satira avrebbe suscitato il risentimento dei russi, preziosi alleati – “balle”,
scrisse Orwell a margine della lettera (l’amico di Cape al ministero era Peter
Smollett, spia sovietica poi famosa).
Il giornalista è anche uno
scrittore, il suo “1984” resta tra i monumenti del secondo Novecento, per
quanto indigesto. Anche qui dà molti saggi narrativi. Facendo emergere quella
che è la sua chiave: non trasfigurare, non cercare vezzi. Un aneddoto di Heawood
fotografa lo scrittore e il giornalista. Orwell a Parigi a metà 1945, già
famoso per “La fattoria degli animali”, vedendo il nome di Hemingway nella
lista degli ospiti illustri dell’albergo, lo cerca in camera, e si presenta
come Eric Blair, il nome anagrafico. “Beh, che vuoi?”, risponde Hemingway,
credendolo uno dei tanti giornalisti inglesi. Orwell allora azzarda il suo nome de plume. E Hemingway si fa
cameratesco: “Perché non l’hai detto prima? Entra, beviamo qualcosa. Facciamoci
un doppio whisky”. Questo nel racconto di Orwell. Hemingway invece ricorda che
Orwell lo andò a trovare con aria “alquanto tesa e preoccupata”, timoroso che
gli agenti di Stalin gli fossero alle costole, e gli chiese una pistola, che Hemingway
gli prestò, una Colt calibro 32. Orwell si vuole onesto, Hemingway prigioniero
delle mitizzazioni.
George Orwell, Gli
anni dell’ “Observer”, Bcd, pp. 348 € 8,90
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