Camilleri - Una vecchia saggezza poneva la felicità del
narratore al meglio su un arco di quindici anni, a partire dalla prima
maturità. Poi cessava: l’ispirazione, l’inventiva, la disposizione felice – la
voglia cioè di fare, la fede in se stessi. Camilleri, narratore tardivo, è
prolifico invece in ragione inversa degli anni – più creativo a mano a mano che
cresce, ora verso i novanta.
Comico – È sadico. Aggressivo, ostinato. Da Hobbes a
Freud, essendo la ridicolizzazione dell’altro, e una forma di derisione. Non
nello scherzo, nello humour, nel Witz, dove è invenzione linguistica.
Un’estensione
dalla fantasia creativa dell’infanzia, prima delle regole e della grammatica
del linguaggio. Lo rimarca W.Benjamin a proposito di Jean Paul (nel saggio ora
in “Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura”: “La sua essenza è
quella della fantasia, che porta la forma alla metamorfosi. Un accadere che
disfa le forme”.
È il
privilegio dello spettatore-lettore.
Conrad -
Orwell lo vuole scrittore al meglio “terragno” invece che “di mare”. Meno
esotico, miglior narratore. In effetti, i romanzi politici, “L’agente segreto”,
“Con gli occhi dell’Occidente”, lo stesso eccessivo “Cuore di tenebra”, e i racconti,
sono meglio strutturati, più contenuti e memorabili.
Dante – Tedesco lo voleva
l’italianista Emil Ruth un secolo e mezzo fa
(ma già Michelet nella “Storia di Francia”, che
il ghibellino dice uomo del legame feudale, del giuramento di sangue, della
devozione affettuosa: “il Tedesco”, Dante compreso, aggiunge, come opposto
all’uomo della legge e della ragione, “il Francese” – era la storia dei “primati”).
E perché
non ebreo, se suo padre era un usuraio? Magari ebreo tedesco.
Si vuole Dante arabo e islamico anche per il simbolismo della
scala. Ma questo simbolismo René Guénon ricorda bene che è biblico, di origine
caldeica e mithraica (“L’esoterismo di Dante”, cap. III)..
Poteva mancare un Dante
“indiano”? Angelo De Gubernatis ne ha ipotizzato uno sul “Giornale della
società asiatica italiana” nel 1889, che la complicata costruzione dell’esistenza
celeste sotto forma di cieli e inferni gerarchicamente organizzati sia stata
mediata dal brahmanesimo o forse dal buddismo (“Dante e l’India”).
Anche Frèderic Ozanam, lo studioso dell’Ottocento oggi beato, aveva
intravisto un’influenza indiana, in aggiunta a quella islamica, su Dante – “Dante e la filosofia
cattolica nel tredicesimo secolo”.
Dialetto – Heidegger lo lega
al “poetare” e all’“abitare”, al radicamento
cioè e all’espressività. “Poetare e abitare sono in connessione
inscindibile, si richiedono reciprocamente”. E questo è possibile attraverso il
dialetto: “Il linguaggio, secondo la sua origine essenziale, è dialetto”. In
questa forma lo riafferma, pochi anni dopo “L’amico di Casa” (Hebel), in
“Linguaggio e terra natìa,”, 1962, il saggio conferito al volume celebrativo di
Carl Burckhardt nel 1961: “Ed esso rimane tale perfino quando giunge ad essere linguaggio
planetario. Infatti anch’esso ha la sua elezione e la sua particolarità”. E
subito dopo in altra forma: “Nel dialetto si radica l’essenza del linguaggio.
Si radica in esso anche se il dialetto è la lingua della madre”, la lingua cioè
che circonda l’infante, “il proprio della casa, la terra natia. Il dialetto non è solo la lingua della
madre, ma al tempo stesso è anzitutto la madre della lingua”.
Cases, recensendo nel 1988 la prima traduzione del “Tesoretto” di
Hebel, sembra prendere le distanze: “Non voglio insistere con Heidegger… sulle
profondità abissali della “Heimat” (patria) da cui emerge il linguaggio
hebeliano. A parte Heidegger, siamo tutti illuministi (Hebel per primo) e non
crediamo in questo fondo oscuro dell’anima contadina che si rivela solo nel
dialetto”. Ma, esaurita la punta polemica, di fatto concorda: “Il profumo
intraducibile del linguaggio di Hebel sta nel fatto che esso realizza l’antico
sogno della fusione della lingua e del dialetto, del particolare e
dell’universale; il protendersi del linguaggio “naturale” verso la
comunicazione razionale, il trapassare della spontaneità in cultura senza che
il primo elemento sia mai rinnegato”.
Mundart, la parola tedesca per “dialetto” non piaceva a Heidegger (“Linguaggio e terra natia”), perché dice
solo “la comunicazione verbale, il carattere sonoro del linguaggio”. Gli
piaceva di più “la parola straniera Dialekt”,
perché di senso originario “eletto”, il greco dialégein, “il parlare l’uno con l’altro che è la matrice del
linguaggio – “un parlare reciproco di tipo eletto, sì, particolare, e cioè un
ascoltare l’uno dopo l’altro”. Ma Mundart
ha un senso pratico più suggestivo, un parlare al modo della bocca – l’arte
vocale come una sorta di natura.
Gran Lombardo – Ricorre in
Dante – Purgatorio, XVIII, 121. Ma riferito a un veronese: Bartolomeo della
Scala, primogenito e erede di Alberto I, signore di Verona dal 1301 al 1304.
Anche questo riferimento è ritenuto forzato. Bartolomeo è detto il
“gran lombardo” in ricordo dell’accoglienza che Dante ne avrebbe avuto
nell’esilio, quando si era distaccato dagli altri ghibelini come lui esiliati.
Mentre non fu così. Non almeno nel primo soggiorno veronese di Dante. Che fu invece
ottimamente trattato a Verona nel suo secondo soggiorno, da Cangrande della Scala.
Traduzione – La poesia (il
senso), anche della prosa, è il come e non la cosa. Ciò non impedisce ottime
traduzioni, per esempio di Dante in francese, e anche in inglese – mentre non è
faustiano né goethiano il “Faust” di Franco Fortini. Il problema è quando la
cosa si lega al come, per esempio nel Belli. Anche in molte prose di Gadda. Che
per questo diventano “intraducibili”. E invece vengono tradotti. Non a metà:
rileggendoli in traduzione non perdono
sapore.
Il come è legato alla cosa, naturalmente. Ma non è tutto. La
creazione non avviene probabilmente in privativa. Non del tutto. La
comunicazione ha più armi dell’incomunicabile.
letterautore@antiit.eu
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