“Oggi ognuno deve munirsi di
filosofia, per difendersi dalla filosofia”. L’Io? “Poiché qui siamo al di là
del pensabile – ed abbiamo ormai abbandonato la categoria delle categorie, il
genere più alto, l’essere – io vorrei negare anche questo a tale egoità assoluta, nella misura in cui
essa è il fondamento dei fondamenti. Cosicché, alla fine, non rimanga neppure
il nulla - ciò sarebbe ancora troppo,
e troppo determinato, perché il nulla
esclude il tutto – ma rimanga infinitamente meno di nulla e più di tutto:
in breve, l’infondatezza dell’infondatezza”. Il vizioso circolo virtuoso. O un
caleidoscopio, una pirotecnia, anche qui come in tutto Jean Paul. Un
divertimento, che è impossibile (inutile) compendiare. Ma alcune cose vanno
dette.
Un libello satirico, a uso
quindi del lettore comune, sulla questione dell’idealismo incipiente - e di Dio
- a fine Settecento: c’è di che sognare – il mondo va ‘n’arreri, avrebbe detto il coevo Tempio, poeta siciliano in Sicilia.
All’origine dell’irrisolta questione dell’io e del mondo, dell’essere e del
nulla, da due secoli ormai e più. Una sfida per la curatrice, Eleonora de
Conciliis - che la vertiginosa postfazione di Hartmut Retzlaff, uno dei
direttori del Goethe di Roma, rischia di vanificare. Ma de Conciliis si
diverte, e il risultato è un gioiellino.
Contro Fichte ,”l’annientatore “, sotto le vesti del
tutto-Io, di creatore della “ideale finitezza
dell’infinito: “Egli (pensato come assoluto) ha creato cielo e terra ed ogni
cosa, compreso Fichte in qualità di osservatore di tale creazione, e dunque con
quello è svanito anche questi”. L’iniziatore in effetti della lunghissima curva
depressiva della filosofia, sempre più incarognita alla ricerca del nulla. Questo
è un problema in sé, ma anche a scriverne: “In quanto Leibgeber io sono finito,
mentre come creatore di Leibgeber sono infinito”. Jean Paul torna all’“acetifico
satirico” della prima giovinezza. Con la consueta versatilità linguistica. Sulla
traccia del ciceroniano “non c’è nulla di strano che un filosofo non abbia
sostenuto”. Ma senza filistea sufficienza, entrando con acuti fendenti nel
mezzo della cosa.
In questa vecchia polemica contro
il nascente idealismo, Ferraris e i suoi hanno una miniera intonsa. C’è anche
Darwin, il medico e naturalista Erasmus, nonno del “Darwin”.- con una non
banale notazione del linguaggio vuoto
con parole piene: “Se uno ha avuto a
lungo in bocca una pipa piena, nel buio non si accorge immediatamente di aver
smesso di fumare”, nella parafrasi jeanpauliana. E non solo Fichte, c’è già, in
nuce, Heidegger. La “Chiave” fichte-leibgeberiana parte domandandosi anch’essa,
con Pilato a Praga – ma la location
non importa – “che cos’è la verità”. Con lo scongiuro (un segno di croce?): “Il
cielo – che sono io – mi consenta di divenire comprensibile”. Per un improbo:
“Non-Io e Io, oggetto e soggetto, sono i gemelli
simultanei della Aseità”. C’è anche Dio-madre, con tutto l’occorrente: “La
ragione esige un Essere incondizionato, una realtà infinita che pone se stessa,
il cui prodotto è ogni realtà finita”. Questo Essere “i parroci di campagna
chiamano Dio dei Padri”, e qui sbagliano: “In quanto incondizionata, la ragione
può cercare la verità assoluta – sua figlia – soltanto in, e presso la madre,
cioè in se stessa, nel puro Io assolutamente causante. Se si pone questa bambina fuori di se stessa,
la si rende madre di sua madre”.
Retzlaff ci trova tutto il
primo Marx, gran lettore di Jean Paul: l’alienazione e il feticismo della merce,
“i termini cardine della critica delle merce nel primo volume del «Capitale»”,
molti studi sono stati fatti in argomento. E poi dopo: “L’uso metaforico delle Charaktermasken (termine che origina
nella Commedia dell’Arte), come parametro di una sociologia dei ruoli ante litteram, e il termine Fetichismus per descrivere l’autoriduzione
delle società evolute a un primitivismo percettivo, risultano decisive per la
sociologia del tardo Marx”. Ci trova
anche Foucault, i capitoli centrali de “Le parole e le cose”, a proposito della
“fine del pensiero classico”, quando il pensiero, nel passaggio dal valore d’uso
al valore di scambio, dalla cosa in sé rappresentabile alla rappresentazione
della cosa, ”non è più congruente con il sapere pragmatico e con la
sopravvivenza del mondo reale”. Nonché un’anticipazione dell’inconscio, il “risvolto”
della ragione. E le varie “miserie” su cui Marx si è esercitato? E Nietzsche?
Ben prima dello Übermensch Jean Paul
aveva coniato l’Überchristentum, come
quello per il quale “al posto di un Dio, il cuore possiede un Cristo, anzi
persino una Maria”. Quanto a Fichte, il suo tutto Io è progenitore, non fortuito,
della “ideoplastia” di Bozzano – il pensiero creatore del parapsicologo
genovese, a cui tutto è riconducibile, anche la materia.
De Conciliis rileva, a
sostegno dello spessore filosofico delle apparenti stravaganze jeanpauliane,
l’intimo legame dello scrittore col filosofo F.H.Jacobi, cui il libello è
dedicato: “Un primo, anziano doppio di Jean Paul”, come lui polemista
agguerrito, nemico dei sistemi logici, contemporaneista acuto, dopo che i due
avevano condiviso nell’infanzia e la prima giovinezza l’ossessione dell’aldilà
e il soprannaturale. Il Leibgeber che spinge Fichte, e l’Io di Fichte, al
ridicolo è naturalmente Jean Paul – alla lettera è l’incorporatore, quello che
dà vita, il plasmatore. Il libello è successivo alla polemica – il secondo dei
tanti Streit accademici teutonici,
dopo quello delle Facoltà, che coinvolse Kant - sull’ateismo di Fichte, nel 1798-99,
che portò all’allontanamento del filosofo dalla cattedra a Jena. Ma non è
ingeneroso. Né superficiale – anche se indigeribile alla filosofia laureata:
Jean Paul amava Fichte, e Fichte rispettava lo scrittore, comprese le ambizioni
filosofiche della “Clavis”. E anche questo è un altro miracolo: non c’è più la
filosofia di una volta?
Jean Paul, Clavis fichtiana seu leibgeberiana,
Cronopio, pp. Pp. 131 € 12,50
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