Sono dieci anni che lo Hartz IV, la più radicale
delle riforme europee del lavoro, è entrato in funzione, a febbraio del 2005. La
disoccupazione era salita in quel mese in Germania a 5,2 milioni di persone,
quasi come nel dopoguerra. Il numero delle famiglie in povertà aumentava di
anno in anno di un paio di milioni, dall’11 per cento della popolazione nel
2001 al 13 per cento nel 2004, al 15 per cento nel 2005, e ancora in crescita –
arriverà al 18-20 per cento. Rilevazioni successive, nel 2007, daranno in
povertà un bambino su sei, anche questo un record negativo del dopoguerra – un
terzo di essi nelle grandi città del Nord: Berlino, Amburgo, Brema.
La riforma radicale del lavoro fu di tipo reaganiano o
thatcheriano, per un liberismo totale. Adottata dall’ultimo governo di sinistra
della Germania, di socialisti e verdi. Introdusse, oltre alla libertà totale di
licenziamento, la paga oraria di quattro euro l’ora, meno della metà del salario
minimo, con l’istituzione chiamata dei mini-job, una sorta di salario di avviamento
(il salario minimo tedesco è per ora di fatto, non legale: il nuovo governo ne
prevede l’adozione a 8,5 euro l’ora). La wage ratio, la parte dei salari nel reddito nazionale, risulterà scesa dopo
appena tre anni al minimo del dopoguerra, il 64.5 per cento – segno di forte
ineguaglianza.
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