Blasfemia
– È
scomparsa. Anche nei dialetti e nei modi di essere che in qualche modo vi si
basavano, emiliani, romagnoli, veneti.
Effetto del laicismo più che del politicamente corretto – la scomparsa
della bestemmia va di pari passo con l’involgarimento del linguaggio. Oppure il
politicamente corretto può dirsi una forma “corretta” di bestemmia.
Circospezione
–
Le intercettazioni (il privato rivoltato istituzionalmente), dopo la
psicoanalisi (il privato rivoltato individualmente), hanno reso tutti
circospetti. I politici, che parlano come
i maghi, per allusioni, gli allenatori e gli atleti, che sempre si
coprono la bocca con le mani, e la norma ora invalsa di controllarsi comunque
in una conversazione a tre. Anche nei momenti di rilassamento, per esempio,
prima o dopo un convegno, autocensurarsi è la regola. “La diffusione della
conoscenza psicologica ha ucciso in gran parte l’innocenza”, Orwell notava nel
1943.
È anche vero che le epoche storiche
costruttive (innovative, progressive) si costruiscono su una relativa mancanza
di autocontrollo - anche di autoconoscenza.
Dio - Il “non mi avresti cercato, se non mi
avessi trovato”, la prova logica di Pascal, è capziosa. E tuttavia è vera. La
ricerca viene prima di ogni convenienza, o di ogni forma di potere, levitico
oppure no.
Egotismo
– Col
nome di Ichheit emerse in Germania a
fine Settecento. Con Fichte, e nella polemica che Jacobi intentò contro Fichte.
Poco meno di un secolo dunque dopo l’egotismo
di Addison, 1714. L’oggettiva soggettività dell’Io - tradotta come “egoità”. Ma la parola non ebbe fortuna, benché utilizzata
da Jean Paul e altri scrittori di successo. È vero che contrasta con l’oggettività
cui pretende la filosofia tedesca – lo stesso Fichte in vario modo ritrattò.
Heidegger
–
C’è anche Heidegger poeta. Oggetto di due numeri di “Aut-Aut”, l’ultimo del
1989 e il primo del 1990, oltre che autore di parecchi versi, in rima o
studiate assonanze, sodale di René Char, malgrado la politica, l’unico tedesco
che Celan sentì in sintonia dopo la guerra, malgrado il nazismo, autore di
saggi che fanno testo su Hölderlin, Hebel, e altri lirici. La lirica in
Heidegger non è confinata alle composizioni propriamente liriche (ma più sono
gnomiche) e agli studi.
A un
certo punto il mondo voleva uniquadro, dei e uomini, cielo a terra, ai quattro
angoli del ring.
Disponili binariamente, cielo-dei, terra-uomini, ma l’immagine gli piaceva delle
quattro punte, per ricavarne una croce. O meglio, accoppiandoli, la croce di
sant’Andrea, con cui alla fine ha barrato l’Essere, non essendo riuscito a
sbarazzarsene, malgrado lo scrivesse con la y, Seyn invece di Sein – das Geviert, l’uniquadrità, è
l’essenza della Differenza. Insomma, quell’arrampicarsi sugli specchi che gli
ha valso la fama di mago. Ma in questa chiave la sua magia è palese.
Heidegger
ricomincia a filosofare dal punto in cui Wittgenstein smetterà. Entrambi
partendo dall’insufficienza della parola. Ma Wittgenstein è conseguente,
negando ciò che rende Heidegger verboso, che l’essere parli attraverso la
filosofia - gran mistico anche Wittgenstein, represso.
Quattro cantoni - Il gioco
(una sorta di sport nazionale in Italia, quello per cui l’assassino fa il giudice, il prete
lo sbirro, il papa fa il laico, il laico fa il papa, l’arbitro segna i gol, e il calciatore fischia), dire una cosa per un’altra, lo praticava già Kant: l’olfatto
voleva un remoto gusto, accumulato, affinato.
È l’uniquadrità
di Heidegger? Sì e no. Il gioco dei quattro cantoni, che si gioca in cinque,
prevede che il quinto, che sta al centro, riesca a occupare, nei continui spostamenti,
uno degli angoli lasciati momentaneamente liberi dagli altri quattro. Ma in
realtà è una forma d’identificazione per sostituzione.
Ragione - La ragione raramente ha ragione, e quindi la Scolastica ha torto. La ragione universale poi non ha mai ragione, bisogna essere contro Hegel, anche se si finisce con Schopenhauer e contro Marx e Sieyés. Ma con Heidegger la filosofia torna all’esse di san Tommaso, che il cogito di Cartesio superbo ha mandato in cantina. Con aggiornamenti e ritorni.
La parola dell’essere è il verbo. La chiamata dell’essere è
la grazia, repentina, illuminante, ingiustificata. L’isolamento e l’abbandono,
si sa, sono dei santi. E “il dolore elargisce il suo balsamo là dove più non lo
aspettiamo”, nell’aldilà. Poi è venuto das
Denken denkt, del linguaggio mistico e pietista: pensare gratifica.
Qualche volta sì, evidentemente, malgrado il nulla. Più violento del nulla.
E si
finisce aspettando un Dio. L’ultimo filosofo, Heidegger, non lo ha scritto, poiché
era omertoso, ma lo ha chiesto allo Spiegel.
Niente di più ovvio, per la corrispondenza niente-Dio. “Che cos’è l’Essere? è
esso stesso”: questa scoperta centrale, filosoficamente ridicola, era già di san
Giovanni, l’apostolo rabbino: “Io sono colui che è” - come die Frage, la questione, che
altro non è che la tortura.
Suicidio
-
Lo stoico lo auspica. Baudelaire dirà lo
stoicismo una religione con un solo sacramento, il suicidio. Fra gli stoici
suicidi merita speciale menzione Seneca, che filosofò l’etica austera ma
accumulò ricchezze in Britannia col prestito a usura.
Ovidio ha
l’empio che si sbrana “con morsi spietati”, e “così lo sciagurato le sue membra
smagrendo nutriva” – fino a un certo puto evidentemente, anche se l’autofagocitazione
è più suggestiva che reale. Non solo Erisittone, ogni uomo morde incontinente
se stesso.
Si suicidano, pare, gli scrittori in percentuale rilevante. Già Lattanzio
ne poté compilare un lungo elenco. C’è un club dei suicidi in Chesterston, e
uno in Franziska zu Reventlow. Ma dopo una certa età. È impensabile che
Baudelaire potesse suicidarsi a ventiquattro anni, e Casanova a quindici,
secondo si proponevano, un poeta morto non è un poeta. Né una ragazza in fiore,
quelle che parlano per il solo fatto di esistere. Sylvia Plath, che
all’università usava rappresentarsi con Anne Sexton al caffè suicidi tentati o
immaginari, l’11 febbraio 1963, preparata la colazione ai figli, si chiuse in
cucina e aprì il gas, scrivendo un biglietto: “Chiamate il dottore”. Ma i
bambini non capirono in tempo. “Per Sylvia la morte era un debito da pagare una
volta ogni dieci anni”, annotò la poetessa Sexton, che si uccise dieci anni
dopo.
Per Karen Blixen i sognatori, gli uomini sognatori, non sono che
suicidi beneducati.
zeulig@antiit.eu
Nessun commento:
Posta un commento