domenica 16 febbraio 2014

Secondi pensieri - 165

zeulig

Blasfemia – È scomparsa. Anche nei dialetti e nei modi di essere che in qualche modo vi si basavano, emiliani, romagnoli, veneti.  Effetto del laicismo più che del politicamente corretto – la scomparsa della bestemmia va di pari passo con l’involgarimento del linguaggio. Oppure il politicamente corretto può dirsi una forma “corretta” di bestemmia.

Circospezione – Le intercettazioni (il privato rivoltato istituzionalmente), dopo la psicoanalisi (il privato rivoltato individualmente), hanno reso tutti circospetti. I politici, che parlano come  i maghi, per allusioni, gli allenatori e gli atleti, che sempre si coprono la bocca con le mani, e la norma ora invalsa di controllarsi comunque in una conversazione a tre. Anche nei momenti di rilassamento, per esempio, prima o dopo un convegno, autocensurarsi è la regola. “La diffusione della conoscenza psicologica ha ucciso in gran parte l’innocenza”, Orwell notava nel 1943.
È anche vero che le epoche storiche costruttive (innovative, progressive) si costruiscono su una relativa mancanza di autocontrollo - anche di autoconoscenza.

Dio  - Il “non mi avresti cercato, se non mi avessi trovato”, la prova logica di Pascal, è capziosa. E tuttavia è vera. La ricerca viene prima di ogni convenienza, o di ogni forma di potere, levitico oppure no.

Egotismo – Col nome di Ichheit emerse in Germania a fine Settecento. Con Fichte, e nella polemica che Jacobi intentò contro Fichte. Poco meno di un secolo dunque dopo l’egotismo di Addison, 1714. L’oggettiva soggettività dell’Io - tradotta come “egoità”.  Ma la parola non ebbe fortuna, benché utilizzata da Jean Paul e altri scrittori di successo. È vero che contrasta con l’oggettività cui pretende la filosofia tedesca – lo stesso Fichte in vario modo ritrattò.

Heidegger – C’è anche Heidegger poeta. Oggetto di due numeri di “Aut-Aut”, l’ultimo del 1989 e il primo del 1990, oltre che autore di parecchi versi, in rima o studiate assonanze, sodale di René Char, malgrado la politica, l’unico tedesco che Celan sentì in sintonia dopo la guerra, malgrado il nazismo, autore di saggi che fanno testo su Hölderlin, Hebel, e altri lirici. La lirica in Heidegger non è confinata alle composizioni propriamente liriche (ma più sono gnomiche) e agli studi.

A un certo punto il mondo voleva uniquadro, dei e uomini, cielo a terra, ai quattro angoli del ring. Disponili binariamente, cielo-dei, terra-uomini, ma l’immagine gli piaceva delle quattro punte, per ricavarne una croce. O meglio, accoppiandoli, la croce di sant’Andrea, con cui alla fine ha barrato l’Essere, non essendo riuscito a sbarazzarsene, malgrado lo scrivesse con la y, Seyn invece di Sein  das Geviert, l’uniquadrità, è l’essenza della Differenza. Insomma, quell’arrampicarsi sugli specchi che gli ha valso la fama di mago. Ma in questa chiave la sua magia è palese.

Heidegger ricomincia a filosofare dal punto in cui Wittgenstein smetterà. Entrambi partendo dall’insufficienza della parola. Ma Wittgenstein è conseguente, negando ciò che rende Heidegger verboso, che l’essere parli attraverso la filosofia - gran mistico anche Wittgenstein, represso.

 

Quattro cantoni  - Il gioco (una sorta di sport nazionale in Italia, quello per cui l’assassino fa il giudice, il prete lo sbirro, il papa fa il laico, il laico fa il papa, l’arbitro segna i gol, e il calciatore fischia), dire una cosa per un’altra, lo praticava già Kant: l’olfatto voleva un remoto gusto, accumulato, affinato.
È l’uniquadrità di Heidegger? Sì e no. Il gioco dei quattro cantoni, che si gioca in cinque, prevede che il quinto, che sta al centro, riesca a occupare, nei continui spostamenti, uno degli angoli lasciati momentaneamente liberi dagli altri quattro. Ma in realtà è una forma d’identificazione per sostituzione.

 Ragione - La ragione raramente ha ragione, e quindi la Scolastica ha torto. La ragione universale poi non ha mai ragione, bisogna essere contro Hegel, anche se si finisce con Schopenhauer e contro Marx e Sieyés. Ma con Heidegger la filosofia torna all’esse di san Tommaso, che il cogito di Cartesio superbo ha mandato in cantina. Con aggiornamenti e ritorni.

La parola dell’essere è il verbo. La chiamata dell’essere è la grazia, repentina, illuminante, ingiustificata. L’isolamento e l’abbandono, si sa, sono dei santi. E “il dolore elargisce il suo balsamo là dove più non lo aspettiamo”, nell’aldilà. Poi è venuto das Denken denkt, del linguaggio mistico e pietista: pensare gratifica. Qualche volta sì, evidentemente, malgrado il nulla. Più violento del nulla.

E si finisce aspettando un Dio. L’ultimo filosofo, Heidegger, non lo ha scritto, poiché era omertoso, ma lo ha chiesto allo Spiegel. Niente di più ovvio, per la corrispondenza niente-Dio. “Che cos’è l’Essere? è esso stesso”: questa scoperta centrale, filosoficamente ridicola, era già di san Giovanni, l’apostolo rabbino: “Io sono colui che è” - come die Frage, la questione, che altro non è che la tortura.

Suicidio - Lo stoico lo auspica. Baudelaire dirà lo stoicismo una religione con un solo sacramento, il suicidio. Fra gli stoici suicidi merita speciale menzione Seneca, che filosofò l’etica austera ma accumulò ricchezze in Britannia col prestito a usura.

Ovidio ha l’empio che si sbrana “con morsi spietati”, e “così lo sciagurato le sue membra smagrendo nutriva” – fino a un certo puto evidentemente, anche se l’autofagocitazione è più suggestiva che reale. Non solo Erisittone, ogni uomo morde incontinente se stesso.

Si suicidano, pare, gli scrittori in percentuale rilevante. Già Lattanzio ne poté compilare un lungo elenco. C’è un club dei suicidi in Chesterston, e uno in Franziska zu Reventlow. Ma dopo una certa età. È impensabile che Baudelaire potesse suicidarsi a ventiquattro anni, e Casanova a quindici, secondo si proponevano, un poeta morto non è un poeta. Né una ragazza in fiore, quelle che parlano per il solo fatto di esistere. Sylvia Plath, che all’università usava rappresentarsi con Anne Sexton al caffè suicidi tentati o immaginari, l’11 febbraio 1963, preparata la colazione ai figli, si chiuse in cucina e aprì il gas, scrivendo un biglietto: “Chiamate il dottore”. Ma i bambini non capirono in tempo. “Per Sylvia la morte era un debito da pagare una volta ogni dieci anni”, annotò la poetessa Sexton, che si uccise dieci anni dopo.
Per Karen Blixen i sognatori, gli uomini sognatori, non sono che suicidi beneducati.

zeulig@antiit.eu

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