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martedì 4 marzo 2014

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (199)

Giuseppe Leuzzi

Il “Corriere della sera” scopre “la bella e negletta casa del Manzoni”. A Milano, la sua città. Una casa che “affaccia su piazza Belgioioso”, indirizzo storico.
Negletta è un eufemismo, dalle foto sembra una catapecchia. Ma per una volta ci è risparmiato lo sdegno: Milano non si critica.

A una settimana dall’appello a salvare la casa del Manzoni, si fa vivo Giovanni Bazoli, il presidente di Banca Intesa, il primo gruppo bancario. Intesa è disposta a intervenire, dice Bazoli, a condizione che altri condividano la spesa. Il costo stimato della ristrutturazione è di 6 milioni. Emozione sì, ma con juicio.

Platone, “Gorgia”, nella discussione tra Callicle, giovane e volenteroso, e lo scettico Socrate, al punto in cui si cita Euripide (“chi può sapere se il vivere non sia morire\ e se il morire non sia vivere?”), immette a peggiorare le cose un Siculo, o Italico: “Un ingegnoso facitore di miti, forse un Siculo o un Italico, ha giocando sulle parole chiamato «orcio senza fondo» la parte dell’anima dove stanno le passioni, nelle persone sprovvedute di giudizio, per la sua facilità a farsi trascinare e persuadere”. 
Il riferimento sarebbe preciso, al pitagorico Filolao e a Empedockle di Agrigento. Ma il “facitore di miti”, a fronte dei creduli? Già Platone aveva scovato il Siculo-Italico – per di più col perfido “forse”.

Nell’invenzione dell’albo d’oro della ‘ndrangheta non manca la filologia, con le etimologie. Ma qui con qualche intoppo: anandria era in greco la viltà – il non essere uomo.

Ma non è Milano
Riccardo Muti, cacciato da Milano, crea nella vituperata Opera di Roma, litigiosa, nullafacente, indebitata, Roma cialtrona, si sa, un rinnovato Puccini e una “Manon” che lasciano stupefatti e commossi il pubblico, che non finisce di applaudire, e i critici. Solo il sovrintendente della Sacla, Pereira, si aggira disorientato: lui Anna Netrebko, con Muti a Roma una Manon da sogni reiterati, voluttuosa e abbandonata, sonora e smarrita, imperiosa, appealing e immutabilmente triste, nelle arie e nei recitativi, un sorta di presenza cosmica, l’aveva proposta, per Mozart a Salisburgo col grembiulino da pornocameriera, e l’italiano deformato delle sventurate dell’Est.
I critici, convenuti in frotte da Milano, ne hanno preso atto entusiasti. I giornali sgomenti hanno smorzato i toni, con titoli generici, ma l’emozione traborda dai testi. Perfino il sospetto di nepotismo si riesce a cancellare lontano da Milano: la regia di Chiara Muti, figlia del maestro, è anch’essa esaltante, evocativa, memorabile, di più a petto degli insulsi “ammodernamenti” che i critici venuti da Milanno hanno dovuto subire alla Scala.

Pentiti
Luigi Lombardi Satriani progettava nel 1990 un libro sulla delazione come fenomeno antropologico italiano. Ne parlò con Denise Pardo de “L’Espresso”. A proposito della lettera anonima, e della più generale vigliaccheria quando è garantita dall’impunità. Poi ci furono i pentiti di mafia e il libro non fu più scritto.

Nel “Giudice meschino” di Mimmo Gangemi sceneggiato per la Rai, Giancarlo De Cataldo accentua il ruolo di un boss che dal carcere, giocando al pentito con un giudice consenziente, sgomina la concorrenza. Altro che pizzini e telefonate in codice.
L’espediente fa molto giallo alla Chandler (le cui ambientazioni morbide il film ricopia, Reggio come una piccola San Francisco), dell’innocenza smarrita, impossibile – al “suo” giudice il boss può far sapere anche che l’amico di una vita è colluso. Ma politicamente corretto? Il pentitismo non ci salva.

Doppiamente scorretto se il sottinteso è che certe cose possono accadere solo a Reggio Calabria.

Al processo di Palermo del giudice Montalto sfilano i pentiti più inattendibili. Perché l’accusa li presenta. Perché il Tribunale gli fa da quinta?
E perché a Palermo, in attesa della condanna dello Stato mafioso, non si fa nulla contro la mafia? Non si prendono più latitanti, non si confiscano patrimoni, solo si fanno processi di routine - con assoluzione - ai berlusconiani?

Don Patriciello e Marco Demarco, “il grande demistificatore dei miti politico-culturali nati al Sud” (Aldo Cazzullo), pubblicano un libro, “Non aspettiamo l’Apocalisse”, sull’esigenza di fare, non aspettare, darsi una mossa. Ma credono a Schiavone. Fermamente. Anche quando s’inventa che faceva il professore all’università – è un ex capo camorrista, da vent’anni fa il pentito. In un apposito capitolo, anticipato il 16 febbraio, don Patriciello ne parla con emozione.

Perché l’antimafia – certa antimafia, questa antimafia – fa così largo credito ai pentiti? Che non sono uomini d’onore. A un pentito basta conquistarsi la fiducia di un giudice, poi può dire qualsiasi cosa, anche negare di averla mai detta.

Non c’è un Nord al Sud  - 2.
Nord e Sud più che una divisione interna è europea. Più saldamente: da più tempo e con più virulenza. E con maggiori appigli. Anche per l’effetto quisling generato nella lunga tenzone: se la squalifica del Sud deve molto ai meridionali emigrati, quella del Sud Europa deve molto ai Nord-del-Sud. La subordinazione Nord Europa-Sud Europa è stata in parte creata, e del tutto recepita, dal Nord provinciale, lombardo per lo più.
L’Italia era nell’Unione Europea promotrice e senza complessi, a opera del messinese Gaetano Martino. Che lanciò l’idea, quando fu per un periodo ministro degli Esteri, e promosse la riunione da cui prese l’abbrivo la Cee proprio a Messina, nel 1957. Milano e Torino, che all’epoca contavano molto, nicchiavano. Quando videro che la cosa era d’interesse della Germania e della Francia, e quindi si faceva, se ne assunsero il comando. E fu la fine dell’Italia.
In tutti gli adempimenti comunitari, la politica agricola, l’emigrazione, la circolazione dei capitali, il Sud Italia fu jugulato per (l’illusione di) vendere qualche macchina Fiat in più oltralpe. L’opinione instaurando, prima che la prassi, di un Sud inaffidabile, confusionario, e imbroglione. Per Sud intendendosi l’Italia. “Tenersi aggrappati all’Europa”, intimavano Agnelli e Cuccia, proponendo essi stessi per primi un’Italia da bassa classifica, e quasi estinta.

La mafia immacolata
Da una generazione, poco più, le mafie sono organizzazioni finanziarie prima che sanguinarie. Cioè: sono sempre sanguinarie, anche per il più piccolo “sgarro”, ma il loro tempo e le strategie sono a pensare lungo, lontano, e “scorporato”, smaterializzato in un qualche corporation, meglio se finanziaria oltre che anonima.
Poiché sono di moda le storie della mafia - che invece non ha storia, è delinquenza “pura” – se ne possono tentare tre periodizzazioni, una terza aggiungendo alle due “classiche”, di Leonardo Sciascia: la vecchia mafia di campagna, l’onorata società, degli uomini d’onore, tanto simpatica, e quella metropolitana del pizzo, delle lottizzazioni e della droga, improvvisamente miliardaria e spietata. Una terza s’è aggiunta, l’Anonima. Pino Arlacchi l’ha teorizzata già quarant’anni fa in senso proprio, guridico, come “mafia imprenditrice”, sulla base dei processi imbastiti a Reggio Calabria dal giudice Agostino Cordova, poi Procuratore Capo di Palmi. Ora anonima anche in senso figurato.
Si fa finanza, ovunque se ne vedono i gorgogli, i mastici, i collanti. Prestiti. Senza nemmeno usura. Prestito a basta. Ai ludopati, che spesso sono albergatori, ristoratori, dettaglianti: al poker, per esempio a Roma. Ai cocainomani, che sono tanti, i più a Milano e nel retroterra. A volte di nome, qualche cantante d’opera non più en beauté, qualche ex vedetta della tv. Anche a persone innocenti, per comprarsi la casa, per pagare il matrimonio della figlia. Ma sempre per il business.
È così che moltissimi esercizi commerciali a Roma hanno cambiato padrone, specie della ristorazione. Molti anche di nome. Dove il cliente malgrado tutto fedele si ritrova gestori a ogni evidenza incapaci, perché sono persone di fiducia delle cosche. Con effetti di transustanziazione, si potrebbe dire se non fosse blasfemo: nelle confische che ora si moltiplicano dei beni di mafiosi non compare mai una banca o una finanziaria, solo capannoni, terreni e immobili, magari già dati in pegno a qualche banca.
È questa una terza mafia anche in senso genealogico. La mafia moriva col mafioso. Da una- generazione o due si vedono i mafiosi figli, specie in Calabria e in Campania. Ora abbiamo le dinastie mafiose, o quasi: con i nipoti al posto dei vecchi “consigliori”, avvocati e gestori patrimoniali, e quasi immacolati se non ripuliti.

leuzzi@antiit.eu

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