Il
“Corriere della sera” scopre “la bella e negletta casa del Manzoni”. A Milano, la
sua città. Una casa che “affaccia su piazza Belgioioso”, indirizzo storico.
Negletta
è un eufemismo, dalle foto sembra una catapecchia. Ma per una volta ci è
risparmiato lo sdegno: Milano non si critica.
A
una settimana dall’appello a salvare la casa del Manzoni, si fa vivo Giovanni
Bazoli, il presidente di Banca Intesa, il primo gruppo bancario. Intesa è
disposta a intervenire, dice Bazoli, a condizione che altri condividano la
spesa. Il costo stimato della ristrutturazione è di 6 milioni. Emozione sì, ma con juicio.
Platone,
“Gorgia”, nella discussione tra Callicle, giovane e volenteroso, e lo scettico
Socrate, al punto in cui si cita Euripide (“chi può sapere se il vivere non sia
morire\ e se il morire non sia vivere?”), immette a peggiorare le cose un
Siculo, o Italico: “Un ingegnoso facitore di miti, forse un Siculo o un
Italico, ha giocando sulle parole chiamato «orcio senza fondo» la parte
dell’anima dove stanno le passioni, nelle persone sprovvedute di giudizio, per
la sua facilità a farsi trascinare e persuadere”.
Il
riferimento sarebbe preciso, al pitagorico Filolao e a Empedockle di Agrigento.
Ma il “facitore di miti”, a fronte dei creduli? Già Platone aveva scovato il
Siculo-Italico – per di più col perfido “forse”.
Nell’invenzione dell’albo
d’oro della ‘ndrangheta non manca la filologia, con le etimologie. Ma qui con
qualche intoppo: anandria era in greco la viltà – il non essere uomo.
Ma non è Milano
Riccardo
Muti, cacciato da Milano, crea nella vituperata Opera di Roma, litigiosa,
nullafacente, indebitata, Roma cialtrona, si sa, un rinnovato Puccini e una
“Manon” che lasciano stupefatti e commossi il pubblico, che non finisce di
applaudire, e i critici. Solo il sovrintendente della Sacla, Pereira, si aggira
disorientato: lui Anna Netrebko, con Muti a Roma una Manon da sogni reiterati,
voluttuosa e abbandonata, sonora e smarrita, imperiosa, appealing e immutabilmente triste, nelle arie e nei recitativi, un
sorta di presenza cosmica, l’aveva proposta, per Mozart a Salisburgo col
grembiulino da pornocameriera, e l’italiano deformato delle sventurate dell’Est.
I
critici, convenuti in frotte da Milano, ne hanno preso atto entusiasti. I giornali
sgomenti hanno smorzato i toni, con titoli generici, ma l’emozione traborda dai
testi. Perfino il sospetto di nepotismo si riesce a cancellare lontano da
Milano: la regia di Chiara Muti, figlia del maestro, è anch’essa esaltante, evocativa,
memorabile, di più a petto degli insulsi “ammodernamenti” che i critici venuti
da Milanno hanno dovuto subire alla Scala.
Pentiti
Luigi
Lombardi Satriani progettava nel 1990 un libro sulla delazione come fenomeno
antropologico italiano. Ne parlò con Denise Pardo de “L’Espresso”. A proposito
della lettera anonima, e della più generale vigliaccheria quando è garantita
dall’impunità. Poi ci furono i pentiti di mafia e il libro non fu più scritto.
Nel “Giudice meschino” di Mimmo Gangemi
sceneggiato per la Rai, Giancarlo De Cataldo accentua il ruolo di un boss che
dal carcere, giocando al pentito con un giudice consenziente, sgomina la
concorrenza. Altro che pizzini e telefonate in codice.
L’espediente fa molto giallo alla Chandler (le cui ambientazioni morbide il film ricopia, Reggio come una piccola San
Francisco),
dell’innocenza smarrita, impossibile – al “suo” giudice il boss può far sapere
anche che l’amico di una vita è colluso. Ma politicamente corretto? Il
pentitismo non ci salva.
Doppiamente
scorretto se il sottinteso è che certe cose possono accadere solo a Reggio
Calabria.
E
perché a Palermo, in attesa della condanna dello Stato mafioso, non si fa nulla
contro la mafia? Non si prendono più latitanti, non si confiscano patrimoni,
solo si fanno processi di routine - con assoluzione - ai berlusconiani?
Don
Patriciello e Marco Demarco, “il grande demistificatore dei miti
politico-culturali nati al Sud” (Aldo Cazzullo), pubblicano un libro, “Non
aspettiamo l’Apocalisse”, sull’esigenza di fare, non aspettare, darsi una
mossa. Ma credono a Schiavone. Fermamente. Anche quando s’inventa che faceva il
professore all’università – è un ex capo camorrista, da vent’anni fa il pentito.
In un apposito capitolo, anticipato il 16 febbraio, don Patriciello ne parla
con emozione.
Perché
l’antimafia – certa antimafia, questa antimafia – fa così largo credito ai
pentiti? Che non sono uomini d’onore. A un pentito basta conquistarsi la
fiducia di un giudice, poi può dire qualsiasi cosa, anche negare di averla mai
detta.
Non c’è un Nord al Sud - 2.
Nord e Sud più che una divisione interna è europea. Più saldamente: da più tempo e con più virulenza. E con maggiori appigli. Anche per l’effetto quisling generato nella lunga tenzone: se la squalifica del Sud deve molto ai meridionali emigrati, quella del Sud Europa deve molto ai Nord-del-Sud. La subordinazione Nord Europa-Sud Europa è stata in parte creata, e del tutto recepita, dal Nord provinciale, lombardo per lo più.
Nord e Sud più che una divisione interna è europea. Più saldamente: da più tempo e con più virulenza. E con maggiori appigli. Anche per l’effetto quisling generato nella lunga tenzone: se la squalifica del Sud deve molto ai meridionali emigrati, quella del Sud Europa deve molto ai Nord-del-Sud. La subordinazione Nord Europa-Sud Europa è stata in parte creata, e del tutto recepita, dal Nord provinciale, lombardo per lo più.
L’Italia
era nell’Unione Europea promotrice e senza complessi, a opera del messinese
Gaetano Martino. Che lanciò l’idea, quando fu per un periodo ministro degli
Esteri, e promosse la riunione da cui prese l’abbrivo la Cee proprio a Messina,
nel 1957. Milano e Torino, che all’epoca contavano molto, nicchiavano. Quando
videro che la cosa era d’interesse della Germania e della Francia, e quindi si
faceva, se ne assunsero il comando. E fu la fine dell’Italia.
In
tutti gli adempimenti comunitari, la politica agricola, l’emigrazione, la
circolazione dei capitali, il Sud Italia fu jugulato per (l’illusione di)
vendere qualche macchina Fiat in più oltralpe. L’opinione instaurando, prima
che la prassi, di un Sud inaffidabile, confusionario, e imbroglione. Per Sud
intendendosi l’Italia. “Tenersi aggrappati all’Europa”, intimavano Agnelli e
Cuccia, proponendo essi stessi per primi un’Italia da bassa classifica, e quasi
estinta.
La mafia immacolata
Da
una generazione, poco più, le mafie sono organizzazioni finanziarie prima che
sanguinarie. Cioè: sono sempre sanguinarie, anche per il più piccolo “sgarro”, ma
il loro tempo e le strategie sono a pensare lungo, lontano, e “scorporato”,
smaterializzato in un qualche corporation,
meglio se finanziaria oltre che anonima.
Poiché
sono di moda le storie della mafia - che invece non ha storia, è delinquenza
“pura” – se ne possono tentare tre periodizzazioni, una terza aggiungendo alle
due “classiche”, di Leonardo Sciascia: la vecchia mafia di campagna, l’onorata
società, degli uomini d’onore, tanto simpatica, e quella metropolitana del
pizzo, delle lottizzazioni e della droga, improvvisamente miliardaria e spietata.
Una terza s’è aggiunta, l’Anonima. Pino Arlacchi l’ha teorizzata già quarant’anni
fa in senso proprio, guridico, come “mafia imprenditrice”, sulla base dei processi
imbastiti a Reggio Calabria dal giudice Agostino Cordova, poi Procuratore Capo
di Palmi. Ora anonima anche in senso figurato.
Si
fa finanza, ovunque se ne vedono i gorgogli, i mastici, i collanti. Prestiti.
Senza nemmeno usura. Prestito a basta. Ai ludopati, che spesso sono
albergatori, ristoratori, dettaglianti: al poker, per esempio a Roma. Ai
cocainomani, che sono tanti, i più a Milano e nel retroterra. A volte di nome,
qualche cantante d’opera non più en
beauté, qualche ex vedetta della tv. Anche a persone innocenti, per
comprarsi la casa, per pagare il matrimonio della figlia. Ma sempre per il
business.
È
così che moltissimi esercizi commerciali a Roma hanno cambiato padrone, specie
della ristorazione. Molti anche di nome. Dove il cliente malgrado tutto fedele
si ritrova gestori a ogni evidenza incapaci, perché sono persone di fiducia
delle cosche. Con effetti di transustanziazione, si potrebbe dire se non fosse
blasfemo: nelle confische che ora si moltiplicano dei beni di mafiosi non
compare mai una banca o una finanziaria, solo capannoni, terreni e immobili,
magari già dati in pegno a qualche banca.
È
questa una terza mafia anche in senso genealogico. La mafia moriva col mafioso.
Da una- generazione o due si vedono i mafiosi figli, specie in Calabria e in
Campania. Ora abbiamo le dinastie mafiose, o quasi: con i nipoti al posto dei vecchi
“consigliori”, avvocati e gestori patrimoniali, e quasi immacolati se non
ripuliti.
leuzzi@antiit.eu
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